Partiamo da una semplice constatazione: per noi tutti la vita è esistenzialmente in continuo mutamento e per questo dobbiamo, di conseguenza, aggiornare i paradigmi di lettura e i relativi riferimenti culturali e nessuno può permettersi di imprigionarla nella staticità definitiva del giudizio di un momento, poiché la sua più autentica e dinamica percezione può essere colta solo attraverso un dialogo continuo con la persona stessa, evitando deviazioni suggerite da filtri di lettura personali.
Tutto questo vale anche quando bambini/e o adolescenti con disabilità diventano adulti e le categorie di giudizio, i servizi e i sostegni dovranno continuamente riallinearsi al rispetto e al sostegno della loro adultità e delle loro scelte di benessere.
Del resto tutti tendiamo a stare bene e, per chi fa fatica a tenere il passo, cerchiamo di rendere disponibili sostegni e aiuti e prospettive di partecipazione a seconda delle capacità della persona. In tutto questo ci aiuta anche una corretta declinazione del concetto di salute. Ovviamente non nella superata definizione di “assenza di malattia”, ma nella sua pienezza di stato di bene-essere, poiché anche il concetto di salute ha subito progressivamente mutamenti, sia per il progredire della ricerca scientifica, sia per i cambiamenti culturali, il modificarsi dei sistemi organizzativi dei servizi, l’evoluzione degli assetti sociali e, soprattutto, per la progressiva presa d’atto, da parte delle persone, dei diritti sociali garantiti dalla nostra Costituzione.
Ecco perché, tra i determinanti del bene-essere delle persone, si è evidenziata una costante ricorrente e progressiva: esso è legato, per la massima parte, alla possibilità di sviluppare il proprio potenziale relazionale, operativo e affettivo nelle dinamiche corrette della vita sociale. Ciò può significare che, costruendo giorno per giorno relazioni che sappiano sostenere positivamente le storie di vita delle persone (accoglienza, rispetto e partecipazione…) si dileguano quelle classificazioni statiche (e quindi immutabili) che portano a condizionamenti intollerabili nella vita di molte persone, fino ad arrivare ad esecrabili stigma che si portano dietro il concreto rischio di vivere nell’esclusione, nel rifiuto e nella solitudine.
Personalmente molti degli anni del mio lavoro professionale li ho dedicati ad inventare servizi/opportunità per le persone con disabilità, cittadini di Roma, promuovendo un approccio e un sinergico intreccio tra iniziativa e risorse pubbliche e risorse comunitarie, tra operatori sanitari, sociali e del Terzo Settore, tra cittadini/utenti e i loro familiari e le loro Associazioni, per costruire un sistema di connessioni produttive di bene-essere, ponendo attenzione ad un progressivo e positivo cambiamento e cercando di capovolgere lo sguardo con cui fino ad allora venivano guardate le persone: da passivi ricettori di servizi e provvidenze economiche ad attivi co-costruttori di opportunità per l’esigibilità dei loro diritti, di quei diritti sociali sanciti sì dalla nostra Costituzione, ma che, per la loro esigibilità, hanno necessità di efficaci servizi/mediatori e di facilitatori di una costruzione progettuale condivisa che aiuti a maneggiare con cura ed efficacia l’istruzione, la formazione, il lavoro, l’abitare, l’inclusione sociale e la realizzazione della propria affettività.
Questa mia personale esperienza mi ha anche insegnato che occorra anche vigilare, perché tentativi di regressione e restaurazione sono sempre in agguato: rivendicazioni di monetizzazione («Dateci i soldi e ci pensiamo noi ai nostri figli»!); ridimensionamento dell’azione dei pubblici servizi sociosanitari con tagli della spesa pubblica e spinte a soluzioni private; esasperata ricerca di specializzazione e settorializzazione con approcci spesso unicamente sanitarizzanti dei problemi; proposte di progetti che si limitano a descrivere la realtà con strumenti sofisticati di tecnicalità professionale e non a mettere in campo azioni concrete per modificarla. Tutto il contrario di una ricerca di categorie culturali che nel rendere comprensibile la complessità esistenziale delle persone, viene sostenuta da nuove e coerenti strategie operative.
Ecco perché ho letto con molto piacere l’articolo apparso il 1° giugno scorso in «Superando.it», intitolato Perché le Amministrazioni Pubbliche devono parlare di “persone con disabilità. Ne condivido pienamente l’obiettivo dichiarato di «andare ben oltre la “semplice” questione terminologica, puntando direttamente alla diffusione della nuova cultura sulla disabilità che ha come primo motore di riferimento la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità».
Si tratta di un invito intelligente e vigoroso verso un direzione giusta, per rinverdire i nostri “attrezzi” e per conoscere e avere le giuste parole per comunicare con coerenza e condivisione.
A tal proposito non posso non ricordare le difficoltà incontrate nel decifrare i diversi linguaggi quotidiani nella trasmissione di progetti o nelle espressioni dei media per indicare le persone con disabilità.
Ancora oggi, ad esempio, nonostante la Convenzione ONU, non è del tutto superata la confusione creata dall’utilizzo di termini e di concetti, spesso usati come sinonimi, ma che, in realtà, indicano situazioni, atteggiamenti e impliciti valoriali molto diversi tra loro.
È la coesistenza di un intreccio che tutti conosciamo di definizioni che rappresentano una realtà a volte in modo estremamente rigido e a volte in maniera molto generica: “disabile”, “invalido”, “handicappato”, “inabile”, “non udente”, “non vedente” e, relativamente più vicini nel tempo: “diversamente abile” (molto utilizzato negli ambienti scolastici!) e persino – horribile dictu! – “diversabile”.
Sembrava di assistere ad una strana ricerca di neologismi quasi a voler creare, come ci ricordava l’insigne studioso Roberto Hughes, «una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo, senza (però) smuovere la realtà di un millimetro» (R. Hughes, in una citazione di R. Pizzo, Operatore sociale e Commissioni integrate, in «Prospettive Sociali e Sanitarie», n. 4/04, IRS Milano, 2004, p. 10).
Il nocciolo della questione – come è del tutto evidenziato nell’articolo citato – non è semantico, ma un problema di atteggiamenti degli altri e della società verso la disabilità.
Come ormai sappiamo, la disabilità si presenta come un fenomeno multidimensionale derivante dall’interazione tra la persona e l’ambiente fisico e sociale, e quindi spesso «ci si muove cercando di trovare equilibri parziali tra categorizzazioni generali, che aiutano a identificare, a promuovere dimensioni e investimenti personali e sociali, ed esigenze di riconoscimento, che ci portano alla irriducibile specificità di ogni persona dentro ogni specifico contesto d’azione» (Valter Tarchini, Se il territorio apre alla disabilità, in «Animazione Sociale», Torino, aprile 2004, p. 17).
Quali ragionevoli messaggi dobbiamo proporre per giungere ad un doveroso rispetto delle diversità esistenziali che vivono al nostro fianco e fare avanzare la nuova cultura sulla disabilità? È possibile trovare il giusto equilibrio tra esigenze personali e contesti sociali, tra esigibilità dei diritti e restituzione sociale, attraverso l’impegno nei doveri? E poiché – come giustamente viene affermato nell’articolo di «Superando.it» citato in precedenza – la cultura e il suo cambiamento passano attraverso la condivisione dei concetti sottesi nel quotidiano utilizzo delle parole, mi permetto di dare un mio contributo a proposito di due acronimi: PEI e PEP.
Riprendendo sempre da quell’articolo la citazione di Tullio De Mauro («Le parole sono importanti, ma vengono, se non dopo, certo insieme alle cose e alla maturazione dell’impegno per la parità di diritti»), mi sono chiesto: perché dopo tanta insistenza e accentuazione sul definitivo superamento di tutte le definizioni inadeguate, si ritiene (a ragione!) di promuovere e fare adottare da tutti la definizione di “Persona con disabilità” (propria della Convenzione ONU, ratificata in Italia con la Legge 18/09) al fine, tra l’altro, di consolidare una cultura nuova sulla disabilità, ma poi non si riesce ad andare in profondità e modificare alcune definizioni concettuali che richiamano azioni e progetti, usando termini – come logica vorrebbe – riferiti al concetto persona e non a quello di individuo per cui si parla e si scrive di “Progetto Educativo Individuale” (PEI) e non di Progetto Educativo Personalizzato (PEP)?
Forse perché, come affermato in proposito su queste stesse pagine da Salvatore Nocera: «Non ritengo vi siano differenze sostanziali tra il PEI e il PEP (Progetto Educativo Personalizzato), trattandosi di locuzioni frutto di una diversa ideologia filosofica, laica per il PEI e cattolica per il PEP»? Personalmente non riesco a condividere tale affermazione e non ritengo le due definizioni equivalenti!
Intanto vorrei che mi si spiegasse perché la Convenzione ONU ha preferito il termine “persona con disabilità” e non “individuo con disabilità”. Forse perché – come la nostra Costituzione – ha fatto proprio il riferimento al principio personalista?
Sappiamo con molta evidenza che «la persona, nel suo patrimonio identificativo ed irretrattabile, costituisce nella nostra Costituzione il soggetto attorno al quale si incentrano diritti e doveri» (da: I diritti fondamentali nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale, Varsavia, 30/31 maggio 2006). Inoltre, «l’intera Carta repubblicana, secondo la comune opinione, costituirebbe un inno alla persona, ai suoi diritti fondamentali, alla sua dignità, una persona salvaguardata – com’è stato felicemente detto – in “lunghezza, larghezza e profondità”» (Antonio Ruggeri, Stato Dottrina, Il principio personalista e le sue proiezioni, in «federalismi.it», 28 agosto 2013).
Stiamo evidenziando quei diritti fondamentali che, ahimè!, spesso sono messi sotto attacco, poiché «da qualche tempo a questa parte è in atto un inquietante processo di trasformazione (o, piuttosto, di deformazione) del concetto di persona. Ciò che ha sempre distinto il personalismo dall’individualismo (al di là delle formule e talora dalla terminologia usata) è stato il rapporto con l’altro: occasionale e puramente esteriore per l’individualismo, strutturale e determinante per il personalismo. L’individuo è un essere solitario e autoreferenziale, la persona un essere sociale e radicato nella rete di relazioni» (Giorgio Campanini, Il personalismo? Non è individualismo, in «Avvenire.it», 16 aprile 2009).
Ritengo quindi che, in sintonia con la nostra Costituzione e con la stessa Convenzione ONU, si debba finalmente scegliere la dizione “personalizzato/i” in relazione a piani o progetti, per evidenziare anche l’essere immersi nel dinamismo delle reti relazionali, superando la terminologia che poggia sul concetto di individuo più coerente nel designare l’essere solitario e autoreferenziale. Del resto alla cultura individualista non interessa la prospettiva di uno sviluppo e rafforzamento di un welfare di comunità e difficilmente invoglia i cittadini ad interessarsi della vita pubblica della propria comunità e fatica a mostrare attenzione a situazioni di fragilità sociali.
Mi si obietterà che la definizione di «Progetto…individuale» è indicata dall’articolo 14, comma 2, della Legge 328/00! Ma anche la definizione di «persona handicappata» è prevista nella Legge 104/92 ed è stata superata… E allora perché non si fa riferimento al Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) del 12 ottobre 2017 (lo so! Non ha il rango giuridico di Legge, ma…) e dare un po’ di operatività al molto spesso ignorato e inapplicato secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, che all’Azione 5 (Condivisione e diffusione di principi e strumenti di progettazione personale e loro applicazione) richiama: «a) redazione condivisa e promozione di linee guida per l’elaborazione del progetto personale (superando il concetto di progetto individualizzato previsto dall’articolo 14 della Legge 328/2000) inteso come un’azione integrata di misure, sostegni, servizi, prestazioni, trasferimenti in grado di supportare il progetto di vita della persona con disabilità e la sua inclusione, redatto con la sua diretta partecipazione o di chi lo rappresenta, previa valutazione della sua specifica situazione in termini di funzioni e strutture corporee, limitazioni alle azioni e alla partecipazione, aspirazioni, oltre che da valutazione del contesto ambientale nella sua accezione più ampia».
Un ultimo suggerimento: sarebbe opportuno, in omaggio all’unitarietà della persona che il Piano Educativo Personalizzato – così da ora denominato, secondo le indicazioni dell’Osservatorio – fosse pensato e redatto quale componente integrante del più ampio progetto di vita della persona, predisposto con la partecipazione della persona interessata, dei genitori o di chi ne esercita la responsabilità e del Terzo Settore, oltreché sostenuto dal sistema operativo “budget di salute”, utilizzando l’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie per promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una piena realizzazione della persona stessa, attraverso una positiva inclusione scolastica, formativa e lavorativa, una migliore inclusione sociale e di partecipazione per una buona qualità della vita della persona.
E richiamando quanto detto all’inizio sulla vita che è esistenzialmente in continuo mutamento, i progetti personalizzati saranno soggetti a co-valutazione e variabilità temporale.
Anche sul concetto di “budget di salute”, per altro, bisognerebbe fare un lavoro di sintonizzazione e condivisione non solo terminologico, ma sostanziale, ritenendolo, come ci suggeriscono le tante esperienze in atto, un formidabile facilitatore dell’esercizio dei diritti e dei doveri delle persone con disabilità.
Giace in Parlamento la Proposta di Legge denominata Introduzione sperimentale del metodo del budget di salute per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati”. Qui mi permetto due piccole osservazioni: piegare il sistema operativo budget di salute alla realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati (!?!) significa restringere moltissimo l’area d’intervento a persone con trattamenti prevalentemente sanitari (siamo ad un’ipoteca di esclusività della psichiatria su budget di salute?).
Occorre tener presente – come osservato dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) nella Memoria presentata in proposito durante un’audizione alla Camera dei Deputati del 24 febbraio scorso – «che la complessità degli interventi previsti implica l’integrazione tra percorsi di cura e assistenza, risorse, processi, operatori, dati, sistemi. Si tratta quindi di riconcepire l’insieme di risorse, strumenti e processi in una logica unitaria che possa garantire una presa in carico integrata e multidisciplinare» e – aggiungo – di tutte le persone che esigono una presa in carico integrata da parte dei servizi pubblici, evitando, secondo quanto finora argomentato, una prospettiva individualista a favore di una prospettiva relazionale, poiché sono le relazioni i facilitatori di sviluppo di capacità personali.
Quindi, a mio parere, la Legge potrebbe titolarsi e articolarsi Introduzione del metodo del budget di salute per la realizzazione di progetti di capacitazione personalizzati.
Adottare il sistema operativo “budget di salute” significa operare secondo quella logica dei diritti e abbandonare definitivamente la logica dei bisogni (che spinge alla settorializzazione degli interventi e dell’organizzazione dei servizi), esaltando quei princìpi irrinunciabili di cui alla Convenzione ONU, vale a dire centralità della persona, capacitazione, diritto di scelta, prospettiva inclusiva in ogni azione.
E alla fine torneremo a parlare di biografie e non di cartelle cliniche, di «persone con desideri, potenzialità, limiti. Persone cioè dotate di una propria irriducibile identità» (Maurizio Colleoni, Rendere pratico il principio del nessuno escluso, in «Animazione Sociale», n. 284/2014). Ma questa è un’altra storia che in parte ho già raccontato…