Da anni attendevo questo momento: portare un avatar robotico in televisione. Lo faccio alla grande, entrando dalla porta maestra: Raiuno. Varco la soglia di Oggi è un altro giorno, salotto pomeridiano condotto dalla valente Serena Bortone che ospita fra i personaggi più celebri del costume italiano.
Che c’entro io? Non lo so. Ci sono, ci resto, vi racconto il mio punto di vista. Un momento storico per la televisione italiana: la prima volta di un avatar robotico in diretta guidato da una persona disabile grave, per di più giornalista. Terribile aggravante.
Credo nell’avatar robotico come strumento di autorappresentazione a distanza. Funziona così, ne ho parlato più volte, anche su queste pagine: da casa tua piloti da remoto un affare con due o tre ruote a seconda del modello, un fusto centrale e una telecamera e un monitor, nonché altoparlanti e microfono, in cima al fusto. Tu sei a casa e lui è a destinazione. Lo piloti come vuoi guidando dal computer e ascolti gli altri sul tuo computer. Gli altri sentono la tua voce dall’altoparlante dell’aggeggio. Ti vedono sullo schermo dell’avatar e tu li vedi sul tuo monitor.
Per capire meglio come funziona, guardare il video della puntata di Oggi è un altro giorno (cliccando a questo link). Ci sono dal minuto 40. Grazie all’azienda senese che ha sviluppato il software per guidare l’avatar.
L’avatar ha svariate applicazioni, dalla moda all’automotive e dalle visite museali ai talkshow, e possono pilotarlo tutti. Chi lo pilota in un certo senso ne diventa l’anima. Sul monitor dell’avatar ci mette la faccia, che si vede in tutta la sua verità. Dalle casse esce la sua voce. Se dici stupidaggini sono tue, quelli che ti stanno attorno le sentono e non ne esci. Sono tue inesorabilmente. Se guidi in un certo modo, e io guido in un certo modo, la gente riconosce che sei tu per come ti muovi. L’avatar robotico è un sofisticato ammasso di metallo e circuiti senz’anima. L’anima c’è la metti tu. Non chiamarla anima, ma personalità, se preferisci.
La mia “anima”, il 16 giugno, era negli studi RAI di Via Teulada a Roma. Anzi no, era a Milano, perché io ero in casa mia, alla mia postazione di lavoro. E bisogna pensare che attorno a me c’era una troupe televisiva che mi riprendeva per mostrare in diretta TV come piloto l’avatar. E con la troupe si è creato un rapporto umano. L’umanità ha bisogno di umanità.
Guidavo dalla mia carrozzina milanese negli studi di Roma, ma le persone che incontravo, da Serena Bortone a Memo Remigi, da Jessica Morlacchi a Massimo Cannoletta, erano lì. Lì cioè qui. Insomma non esisteva più quella barriera spaziale che esiste quando parli al telefono oppure fai una videochiamata.
Per non parlare dello splendido rapporto con i tecnici e gli autori, con cui parli, ti muovi e ti confronti come a essere nello stesso luogo. Ci si relaziona alla pari, loro si muovono, tu li segui. Io li seguo, loro si muovono. Un apparecchio così, che sia l’avatar, che sia la diavoleria del futuro che ci permetterà di essere in presenza, mentre siamo totalmente a distanza, crea una profonda sensazione di trasposizione. Mi si creda, di nuove tecnologie qualcosa so.
A un certo punto il monitor del computer non esiste più, meglio della “stanza senza pareti” di Gino Paoli. Io parlo con la conduttrice come parlerei se fossi lì. Anzi sono lì. E la Bortone mi risponde. Si crea sintonia. Povera lei, a me piace.
Ti senti addosso il piacere di stare in TV. Che non è un piacere tanto per. È la soddisfazione di essere in una trasmissione importante dove tu porti il tuo background professionale. Parli della tua storia, ma lo fai esprimendo agiatamente la tua personalità. Bravi gli autori, ottima la produzione, splendida la RAI, ma il bello è che io ero lì. Proprio lì! L’ho già detto? Lo ripeto. Melius abundare quam deficere.
Io avatar, drappo delle persone con disabilità. Vessillo della persona disabile che è riuscita, che è arrivata, anche se io spero che questo sia un punto di partenza. Io testimone di una storia di coraggio che, poi, il coraggio tante volte è semplicemente l’inevitabile risposta alla paura di stare fermi. Come diceva… Come dicevo io, punto.
Quindi, mentre mi diverto a destreggiarmi nello studio della trasmissione per raggiungere il salotto cuore del format, perché, in fondo, l’avatar non è altro che un balocco per soddisfare il mio piacere di giocare con una macchina telecomandata, mi porto sulle spalle un peso che nessuno vede. Ma che le persone che mi conoscono sanno che c’è.
Non è l’angoscia della diretta. Quella passa veloce, abbastanza veloce. Il rischio di qualche problema tecnico incombe, ma se ci fermiamo di fronte ai se negativi, ben di rado avremo spazio per il successo.
Il fardello che ho sulle spalle è quello della rappresentanza. Io sono io e sono lì per parlare di me, per spacciarmi da professionista che magari qualcuno abbocca e mi trova un bel posto di lavoro con un grande ufficio senza poltrona Frau, che tanto io ho la mia. Mi sistemo in un’azienda della moda, della nautica o vattelapesca e buona lì. Una televisione coraggiosa mi ingaggia e iniziamo a parlare di umanità e amenità con professionale sorriso.
Barra a dritta, qualunque sia il mio futuro, io ho addosso la responsabilità di rappresentare il popolo della disabilità. Quello della disabilità gravissima. E non voglio liberarmene, a parte che non ci riuscirei.
Voglio fare il mio mestiere, qualunque sia. Voglio, di quell’erba che cresce nel giardino del re, che mi sia riconosciuta una dignità che non dipende dal mio stare in carrozzina. Voglio essere io, che sono io. Io non prescindo dalla mia carrozzina, ma non sono la mia carrozzina, tanto meno il mio avatar. Io sono una persona. E sono una persona che sa di rappresentare le persone con disabilità grave e gravissima. E non solo quelle. Sono presidente onorario della Fondazione Mantovani Castorina, ma porto con me tutte le persone con disabilità.
Credo poi di rappresentare un certo altro modo di pensare. Quello di chi nuota in una direzione non omologata, ma ferrata, e non si cura di quelli che vanno in altre direzioni. Sono diverso, lo so. Ma nella mia diversità le persone con disabilità e le loro famiglie mi stanno accanto.
Vi ho portato con me, amici disabili e famiglie annesse. Siamo stati i primi in Italia a portare una persona con disabilità gravissima in televisione attraverso un avatar, e non perché persona disabile, ma perché professionista. Ho scherzato in televisione. Ho sentito i brividi sulla schiena, la mia, non quella dell’avatar, guardando negli occhi Serena e ascoltando As Time Goes By interpretata da Memo Remigi. E che gioia cantare l’inno di Mameli!
Sono stato normale, più normale del solito. Non temo il termine normale e nella mia normalità le persone con disabilità con me.