Avevamo parlato di Sentenza “storica”, nel 2016, quando il Tribunale di Verbania aveva condannato due persone a dodici mesi di reclusione, per avere, tramite Facebook, denigrato e pesantemente insultato una donna con acondroplasia, patologia congenita di nanismo, a causa della sua disabilità. Ora, come viene comunicato dalla LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che si era costituita parte civile nel processo penale, affiancata anche dall’AISAC (Associazione per l’Informazione e lo Studio dell’Acondroplasia) e dall’Associazione Acondroplasia – Insieme per crescere, la Corte d’Appello di Torino ha confermato quella Sentenza di condanna.
«Siamo soddisfatti per l’esito di questa vicenda – commenta Laura Abet, legale del Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi della LEDHA -, che conferma quanto stabilito dalla Sentenza di primo grado. In particolare ci soddisfa il riconoscimento della discriminazione e della gravità dell’offesa ai danni della persona. Il Giudice, infatti, ha ben compreso questo particolare e ha emesso un provvedimento importante, a favore di tutte le persone con disabilità vittime di offese e molestie, queste ultime sanzionabili, al pari di una discriminazione, come previsto dalla Legge 67/06 [“Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni”, N.d.R.]. Si tratta dunque di una Sentenza che fa cultura e che traccia un inciso verso una maggiore tutela dei diritti delle persone con disabilità».
Come viene ulteriormente sottolineato dalla LEDHA, «la dimensione pubblica delle offese rivolte alla persona con disabilità rappresenta non solo un danno alla persona direttamente coinvolta, ma anche un danno oggettivo a tutte le persone con disabilità. Tali offese, inoltre, costituiscono un grave e concreto danno alle azioni associative di promozione e tutela, perché contribuiscono a rafforzare lo stigma negativo verso le persone con disabilità, il cui valore come persone viene negato alla radice da espressioni così gravemente ingiuriose».
La vicenda, ricordiamo, aveva avuto inizio nel 2013, a seguito di una denuncia di querela presentata dalla vittima. La donna, che di professione è avvocatessa, aveva denunciato di essere stata pesantemente insultata e denigrata proprio per la sua disabilità da due persone a seguito di un diverbio maturato nell’àmbito della sua attività lavorativa. In primo grado i due imputati erano stati condannati a dodici mesi di reclusione e al risarcimento dei danni a favore della vittima, oltre a dover risarcire anche le tre organizzazioni costituitesi parte civile.
Nel loro ricorso in appello, i condannati avevano lamentato il fatto che non vi fossero elementi sufficienti per rendere individuabile la persona destinataria delle frasi denigratorie. Il Giudice d’Appello, tuttavia, ha stabilito che i post su Facebook «si contraddistinguevano per il riferimento costante al “nanismo” della persona destinataria delle frasi di scherno, che interessa un numero assai limitato di persone nell’intero territorio nazionale e a maggior ragione nel contesto territoriale di riferimento dei due appellanti e della persona offesa».
Il Giudice di secondo grado ha confermato quindi la condanna espressa in primo grado verso i due imputati e anche l’importo del risarcimento, pari a 10.000 euro, a favore della vittima, ritenendone «del tutto adeguata» l’entità. «E in ogni caso – sottolineano dalla LEDHA – ciò che è stato affermato con queste Sentenze è che è del tutto legittimo rivolgersi al Giudice per fare accertare che le offese ai danni di una persona con disabilità possono e devono essere riconosciute come tali e punite per legge, e che esse sono state riconosciute sia dal Giudice di primo che di secondo grado, in quanto ritenute inaccettabili nella società attuale governata da leggi a tutela dei diritti delle persone con disabilità».
«Ritengo che giustizia sia stata fatta – dichiara Giacinto Corace, avvocato difensore della donna – e che la Corte d’Appello abbia capito la gravità dei comportamenti denigratori degli imputati ed abbia tutelato la persona offesa e di tutte le persone disabili che si trovano ad affrontare insulti quotidiani, confermando le ottime motivazioni del Tribunale di prime cure, anche in ragione della mancata resipiscenza dei due imputati», commenta l’avvocato.
«Offese e insulti come questi – afferma dal canto suo Marco Sessa, presidente dell’AISAC -, pregiudicano la faticosa attività quotidiana delle Associazioni impegnate per la tutela dei diritti delle persone con disabilità, che ogni giorno si battono per promuoverne la piena inclusione e il rispetto dei diritti. La sentenza del Tribunale di Verbania e poi quella della Corte d’Appello di Torino ribadiscono l’importanza del principio di non discriminazione e affermano il ruolo svolto dalle Associazioni. Ma siamo consapevoli che il nostro impegno per la tutela dei diritti delle persone con disabilità dovrà continuare». (S.B.)
Per ulteriori informazioni e approfondimenti: ufficiostampa@ledha.it (Ilaria Sesana).
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