La cura ai tempi del coronavirus

di Simona Lancioni*
Nel libro “Il guaritore infetto. La cura ai tempi del coronavirus”, Nadia Muscialini raccoglie vissuti e testimonianze del personale sanitario di fronte ad un’emergenza inizialmente sconosciuta sotto il profilo scientifico, che ha provocato una traumatica esperienza collettiva, rendendo ineludibile il pensiero della nostra vulnerabilità. «E chi si occupa di disabilità – scrive Simona Lancioni -, può trovare nelle sue riflessioni significative consonanze: infatti, per le persone con disabilità l’esperienza della vulnerabilità è di solito una pratica quotidiana anche in situazioni ordinarie»

Nadia Muscialini, "Il guaritore infetto", copertinaLa pandemia da Covid-19 è stata un’esperienza traumatica collettiva che ha coinvolto l’intera umanità. Un evento sconvolgente per le ingenti perdite in termini di vite umane, per i drastici cambiamenti imposti alle routine quotidiane di ciascuno/a, per le implicazioni relazionali, sociali, organizzative ed economiche che ancora non riusciamo neanche a quantificare, ma che inevitabilmente avranno ricadute anche sulle prossime generazioni. Un vissuto doloroso che ha reso ineludibile ciò che razionalmente tutti e tutte sappiamo, ma che emotivamente i più tentano di scansare: il pensiero della nostra fragilità e della nostra finitezza. Un meccanismo di difesa che si riscontra anche nel personale sanitario, quello che per tanti mesi ha dovuto – e ancora deve – fronteggiare il virus in prima linea.

Il guaritore infetto. La cura ai tempi del coronavirus (la meridiana, 2020), ultima opera di Nadia Muscialini – psicologa, psicoanalista, attivista, saggista, tra le massime esperte italiane di lotta alla violenza di genere -, si occupa esattamente di questo, di prestare attenzione ai vissuti e raccogliere le testimonianze del personale sanitario – medici/che, infermieri/e, terapisti/e, specialisti/e e operatori/trici vari/e – chiamato a far fronte ad un’emergenza inizialmente sconosciuta sotto il profilo scientifico, e che ha comportato un’esposizione al dolore, alla sofferenza e alla morte talmente intensa e prolungata, da mettere a dura prova, e talvolta a far saltare, tutti gli argini posti a protezione della psiche. «La “S” di ghiaccio, la stronza, l’asociale, l’onesta sino al midollo, tanto da arrivare a farsi odiare, ha ceduto: tutti i miei muri di sicurezza che ho costruito nel tempo, sono crollati. Sono nuda, non fatemi male», testimonia Simona Ferrari, un’infermiera (opera citata, pagina 40).

Il temine guaritore, presente nel titolo dell’opera, e impiegato all’interno di essa, non è utilizzato a caso. Il medico solitamente pensa a se stesso come a colui/colei che guarisce i malanni altrui, la qual cosa lo/la porta a sentirsi invulnerabile e a guardare la sofferenza delle persone di cui si cura come se questa non lo/la riguardasse personalmente. Eppure, osserva Muscialini, è proprio la relazione con il/la paziente «che può riaprire le nostre “ferite psichiche” obbligandoci quindi ad un confronto con queste stesse. Gli operatori sanitari, nonostante il comprensibile tentativo di sentirsi invulnerabili, sono anch’essi soggetti al “contagio del dolore”» (opera citata, pagina 17).
Le strategie adottate dal personale sanitario per affrontare il contatto quotidiano con il dolore e con la morte sono sostanzialmente due: «Da un lato la negazione “salva-vita” del senso di precarietà e caducità che impedirebbe altrimenti di fare qualsiasi investimento sul futuro, dall’altro lato un “carpe diem” che concentra tutto sul presente e impedisce di tenere un collegamento con il passato e il futuro».
A queste strategie Muscialini ne preferisce una terza che consiste nell’«accettazione della fragilità umana e dell’ineluttabilità del destino», riuscendo così a «recuperare la capacità di restare in contatto con le proprie emozioni e con le proprie angosce, comunicare come esseri vivi, palpitanti e partecipi alle vicende e alle sofferenze delle altre persone» (opera citata, pagina 116, grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni).
Si tratta, in sostanza, di smettere di pensarsi “guaritori” e iniziare a pensarsi “curanti”. La qual cosa vuol dire acquisire la consapevolezza che anche quando non è possibile guarire i/le pazienti, è comunque possibile prestare una cura fatta di competenza, autenticità, sincerità e di quell’ascolto, che è esso stesso un elemento fondamentale di qualsiasi cura.

Osserva Muscialini come «questa emergenza ha reso ancora più manifesta la verità che l’umanità è l’unico vero medicamento quando non si hanno altre armi per curare» (opera citata, pagina 53). «L’altro giorno abbiamo aiutato una signora a indossare la sua camicia da notte personale al posto di quella dell’ospedale: era contenta come se avesse indossato un vestito firmato», racconta un fisioterapista (opera citata, pagina 58).

Travolto dall’ondata pandemica, obbligato a tenere turni di lavoro massacranti senza potersi riposare a sufficienza tra un turno e l’altro, spaventato dal timore di contrarre il virus e di esporre al contagio i propri cari, esposto ad un’overdose di dolore, il personale sanitario dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano ha avuto come unico conforto la possibilità di essere ascoltato e di condividere con i colleghi e le colleghe le proprie esperienze, con il supporto di psicologi/ghe (come la stessa Muscialini). Psicologi/ghe anche questi/e spaventati/e dalla situazione, ma disponibili ad accogliere le loro testimonianze e ad aiutarli/e ad elaborare una sofferenza non metabolizzata che, se non affrontata adeguatamente, può portare a burnout e creare problemi nella relazione con i/le pazienti.
Il gruppo di lavoro è diventato per loro «il salvagente indispensabile al quale aggrapparsi» (opera citata, pagina 85), un luogo di confronto e supporto nel quale, attraverso una narrazione condivisa, il personale sanitario, dopo essersi speso per dare cura ai/alle pazienti, ha riscoperto l’importanza di prendersi cura di chi cura.

Coloro che, come chi scrive, si occupano di disabilità possono trovare nelle riflessioni di Muscialini significative consonanze. Infatti, per le persone con disabilità l’esperienza della vulnerabilità è di solito una pratica quotidiana anche in situazioni ordinarie, non solo in situazioni emergenziali. La circostanza, poi, che la disabilità sia una condizione e non una malattia rende più agile cogliere la differenza tra guarire e curare. E c’è anche tutta l’esperienza di cura maturata dai/dalle caregiver informali, anche questa solitamente prestata con attenzione, dedizione e amore, le stesse modalità che rendono umana quella prestata dal personale sanitario.

Ora che il programma vaccinale sembra farci intravvedere la possibilità di uscire dalla pandemia, molte persone sono ansiose di lasciarsela alle spalle e di dimenticarla. E se nella prima fase pandemica i sanitari erano stati ribattezzati “angeli custodi” e “salvatori della patria” dalle persone comuni e dai politici, oggi le loro difficili condizioni lavorative non sembrano più riscuotere particolare interesse. Eppure leggere le loro testimonianze, immergerci nella palpitante realtà degli ospedali e dei luoghi di cura, ci fa comprendere che non valorizzare quelle consapevolezze dolorosamente acquisite è un lusso che non possiamo permetterci. Garantire il benessere dei sanitari attraverso un’organizzazione del lavoro sostenibile, una remunerazione adeguata, riconoscere il valore della cura prestata con umanità, fornire strumenti per lenire il “contagio del dolore”: sono tutte cose che non avremmo difficoltà a considerare prioritarie, se avessimo fatto tesoro dell’esperienza del limite.

«Tanto più grande sarà la crepa che si apre nel muro dell’oscurità, tanto maggiore sarà la luce che entrerà nel buio», scrive Muscialini, parafrasando una canzone di Leonard Cohen*, e riferendosi ai sanitari che devono mettere in dubbio il loro atteggiamento di superiorità e onnipotenza scientifica, per accettare «il mistero del funzionamento del corpo umano, della vita e della morte», e decidere «di prediligere la sostanza e l’essenza della vita stessa, fatta di tempo, affetti, equilibrio e salute» (opera citata, pagine 52-53). Una questione che, manco a dirlo, non riguarda solo il personale sanitario.

C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce»: Leonard Cohen, Anthem, in The future, 1992.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo è già apparso. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Nadia Muscialini, Il guaritore infetto. La cura ai tempi del coronavirus, con una poesia di Antonio Giuseppe Malafarina, prefazione di Angelo A. Moroni, postfazione di Marco Venturino, collana “Premesse… per il cambiamento sociale”, Molfetta (Bari), la meridiana, 2020.

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