Il gioco sta perdendo la sua funzionalità ludica, in cui il bambino può creare il proprio mondo, perché gli si impone, con una politica “corretta”, un mondo che esiste già, fatto di ipocrisie e falso buonismo, dimenticando la vera essenza del gioco e del giocare anche in relazione a chi vive delle disabilità.
Ho già cercato di affrontare questo tema, anche sulle pagine di «Superando.it», ma mi accorgo che occorre ancora una volta approfondirlo, puntando su argomenti nuovi, in quanto il fraintendimento è sempre dietro l’angolo.
Non voglio esprimere un giudizio negativo a priori nei confronti del gioco destinato solo a bambini con disabilità, e non sono contrario alla bambola (Barbie) in carrozzina; mi va bene tutto e il contrario di tutto, ma chiedo perché e per chi nascono questi giochi? Per tentare di creare una nuova inclusione? Per coinvolgere gli altri? Per cercare di educare la società alla disabilità? I motivi possono essere numerosi, ma non vedo un altruismo sociale, una società pronta ad accogliere la diversità, “l’altro diverso da me”, non solo come disabile, ma come “l’altro che non sono io” e che ci spaventa.
È questa la società che si sta vivendo, una società non ancora pronta ad accogliere la diversità dell’altro e troppo veloce per andare “al tempo di una protesi”. Accogliere vuol dire fermarsi, attendere, ascoltare e farsi tutt’uno con l’altro; noi invece siamo ancora qui, pronti a creare bambole disabili per educare alla disabilità, pronti a progettare giochi inclusivi che da includere non hanno nessuno, con il pretesto di educare una collettività che non vuole essere educata “all’altro”, una società che vuole vivere senza pensare.
Il gioco e il giocare da sempre passano attraverso l’identificazione: il bambino o la bambina si immedesimano nell’oggetto con cui giocano e quest’ultimo li introduce in mille mondi nei quali i bimbi si proiettano in una forma più vera e autentica.
Questa teoria la riscontriamo sovente anche nella bibliografia psico-pedagogica sostenuta da diversi studiosi, come John Dewey, con i termini «trasposizione fantastica nel gioco infantile». Un altro sostenitore di tesi analoghe fu Friedrich Fröbel, che scrisse: «La conciliazione tra vita e forma si raggiunge mediante il gioco. Esso consiste nell’arte di superare la necessità del mondo fisico ed accedere alla libertà creativa che plasma il mondo sensibile senza scopi meccanici».
Provo qui a contestualizzare queste due affermazioni all’interno di un’azione ludica di un bambino o una bambina con disabilità e mi riferisco, ad esempio, a bambole e bambolotti con disabilità.
Il fatto in sé non mi scandalizza di certo, ma pone delle domande: con quale criterio i neo esperti che hanno creato questi giochi sostengono la tesi che la bambola in carrozzina possa aiutare il bambino o la bambina con disabilità ad accettare la propria condizione? E in che modo questo giocattolo aiuterebbe una bambina a prendere coscienza della propria disabilità? Non è perché la bambina gioca con una sedia a rotelle e con una bambola seduta sopra che esclama: «Che bello, anche la bambola è in carrozzina!». Non ne deriva forse più rabbia? Non genera frustrazione scoprire che quella bambola la si può togliere dalla carrozzina, le si possono allungare le gambe e si può metterla in piedi, cosa che lei, invece, non potrà mai fare?
Se davvero il gioco consiste, come ci hanno insegnato i pedagogisti citati, nel cercare di superare ogni limite fisico, a cosa serve una bambola in carrozzina con un deficit? Forse sarebbe meglio e meno frustrante per il bambino o la bambina se quella bambola non si potesse mettere in piedi, esattamente come lui o lei. Neanche in questo senso, però, trovo opportuna la bambola in carrozzina, perché i bambini devono avere una relazione e inter-azione nel giocare e inventare da sé il loro gioco, che riesca a superare ogni paura, ogni difficoltà per accettare il proprio sé, costituendo la dimensione della propria personalità e identità di persona, in questo caso, con disabilità.
E ancora: quale genitore comprerebbe alla propria figlia una bambola in carrozzina? E quale bambina o bambino “normodotato” vorrebbe in regalo una bambola con un deficit? In questo modo non si rischia di sottolineare ancora una volta quell’atteggiamento pietistico che ha caratterizzato gli ultimi decenni della relazione tra “normodotati” e non?
Il mio auspicio è che ci sia un momento in cui i bambini giocano insieme perché sono bambini, perché hanno voglia di incontrarsi e interagire l’uno con l’altro e sottolineo questo con, che non crea nessuna etichettatura. Forse mi si taccerà di utopia, ma l’utopia ci dà modo di sperare e di sperimentare nuove teorie in questo stagno epocale che viviamo giorno dopo giorno.
I bambini e le bambine, nel loro esprimersi attraverso il gioco, ci possono sembrare spietati, ma nella loro natura non ci sono pregiudizi e la comprensione di ciò che può ferire o non ferire l’altro dipende sempre dal contesto che li circonda e che li educa. Se il bimbo viene lasciato libero di vivere la propria crescita e natura, sarà egli stesso a cercare l’altro e a relazionarsi con lui, anche se l’amico o l’amica è disabile; è così che il gioco può diventare pedagogico e relazionale, con la relazione che è il fondamento della crescita e dell’abbattimento di barriere psicologiche e strutturali.
Questa modalità del gioco e del giocare la si può riscontrare anche nei parchi cosìddetti inclusivi che stanno nascendo in tutta Italia e potrei continuare la mia riflessione, ma non voglio nemmeno qui essere frainteso. Non sono contrario a questa tipologia di giochi, ma chi mi conosce sa bene che mi pongo mille e mille domande. Il bambino o la bambina con disabilità, prima di avere bisogno di un parco a sua misura, sono certo che abbia bisogno di una cultura dove i bambini giochino con lui o lei.
Vorrei dunque rivolgermi a tutte le organizzazioni promotrici di questi parchi: formiamo attraverso una “nuova pedagogia della disabilità” la cultura assieme ai parchi, e con essi un pensiero nuovo volto a fornire parchi e giochi per tutti. Formiamo una società che non debba “includere” o “escludere” più nessuno, ma che sia lungimirante verso una nuova “inter-azione” e costruiamola noi, quella “strada” per arrivare al parco. Allora serve educare i bambini, attraverso la scuola, a giocare tra di loro, inventando un gioco con il compagno/a con disabilità, andandolo/a a prendere a casa per portarlo al parco e non solo al parco. Una cosa non esclude l’altra e in questo modo si può tentare di dar vita ad un pensiero tutto nuovo, insolito, educando così i coetanei ad accompagnare eventualmente l’amico con disabilità e aiutarlo a creare la propria indipendenza, la propria autonomia; allora sì che avrà senso costruire anche i parchi cosiddetti inclusivi, perché la società sarà pronta a vivere “l’altro” nei suoi bisogni e nella sua interezza.
Non è solo la barriera architettonica a dover essere abbattuta, ma quella culturale, alta ben oltre un muro. Bisogna fare attenzione ai termini, perché sono essi che creano il pensiero e la cultura: non è la parola “inclusivo” che serve, ma è un parco pubblico per tutti e per tutto; non è la parola “inclusione” che fa l’eccezione, ma piuttosto la parola “inter-azione”, in modo tale da permettere ai bambini di interagire giocando tra loro, senza più il bisogno di includere o escludere l’altro.