Nello scorso mese di giugno, Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili ha firmato un Decreto grazie al quale le persone con DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) saranno facilitate nella prova di teoria della patente di guida [se ne legga già ampiamente anche sulle nostre pagine a questo link, N.d.R.].
Il provvedimento prevede che si metta a disposizione il 30% in più del tempo per svolgere il test, cioè si potranno consegnare le risposte entro 40 minuti anziché 30. Dal prossimo autunno, inoltre, i quiz saranno più accessibili, ossia formulati in un linguaggio più semplice e chiaro, privi, ad esempio, delle doppie negazioni che possono creare disorientamento nelle persone con DSA.
Si tratta certamente di un segnale positivo, di fiducia. Sensazione che certamente non ebbi nella mia esperienza personale, oltre trent’anni fa.
Durante un consulto medico in Svizzera per la mia disabilità motoria, quando avevo 19 anni, lo specialista elvetico in questione rimase stupito dal fatto che non avessi ancora la patente e mi stimolò a superare questo mio limite. Pochi giorni dopo, entusiasta di quest’opportunità, con i miei genitori decidemmo di rivolgerci alla Commissione della Motorizzazione di competenza della Provincia di Novara, dove risiedo, per ottenere l’abilità a guidare.
Il giorno in cui venni sottoposta alla visita fu una delle giornate più terribili della mia esistenza, la frustrazione e la rabbia me le ricorderò finché avrò vita.
Da subito l’impatto con la struttura dove fui convocata non fu per nulla confortevole. La sala d’aspetto era un lungo corridoio affollato da persone con diverse disabilità, c’era chi urlava, chi compiva gesti compulsivi; un ambiente non certo consono e rassicurante per chi, come me, stava aspettando un verdetto così importante da cui dipendeva gran parte della propria indipendenza.
Dopo un paio d’ore d’attesa sentii pronunciare il mio cognome, in tono alto senza la minima cortesia e senza che qualcuno si affacciasse alla porta. Mi alzai e con la mia andatura barcollante mi diressi nella direzione da dove mi ero sentita chiamare, seguita dai miei genitori.
Sicuramente, come in ogni situazione simile a quella che stavo vivendo, quando mi sento sotto osservazione, cammino e faccio tutte le cose peggio del solito. Una volta varcata la soglia della stanza da cui ero stata chiamata e viste schierate dietro a un tavolo una decina di persone che mi stavano scrutando, tutte con facce severe, le gambe mi tremarono più del solito. I miei esaminatori non considerarono minimamente questa componente psicologica. Uno di loro, senza alcun preambolo e senza cercare nel modo più assoluto di mettermi a mio agio, mi ordinò di sedermi e di togliermi gli occhiali. Per la stessa ragione di quando, pochissimi istanti prima entrai nella stanza, compii quei due gesti, gli unici che mi furono richiesti, in maniera molta insicura e tremante.
Cosi nel giro di un paio di minuti la visita si concluse con la seguente sentenza: «Lei la patente non l’avrà mai!», senza la minima aggiunta. Una vera e propria doccia fredda. La rabbia e la delusione furono causate più per la modalità con cui mi era stato dato il giudizio che non per la sentenza stessa. Ciò che più faticavo ad accettare era che in pochi minuti mi fosse stato pronunciato un verdetto cosi definitivo.
Un paio d’anni più tardi in Svizzera, in un centro di riabilitazione, dopo che raccontai l’episodio, decisero di farmi intraprendere un lungo iter per raggiungere lo stesso scopo. Il percorso fu molto diverso da quello italiano, contro i pochi minuti descritti; per quasi un anno, infatti, fui sottoposta a una serie di valutazioni, comprendenti la vista, la capacità di reazione dei movimenti, il tono muscolare ecc.. Appurata la mia idoneità a guidare, iniziai a prendere le lezioni al volante. In un tempo relativamente breve conseguii la patente con il cambio automatico.
Questa conquista di indipendenza è stata per me fonte di grandissima soddisfazione. D’altro canto, però, da cittadina italiana mi sentii molto rammaricata di questa forzata emigrazione.
Ma questo è solo un episodio nella mia vita di persona con disabilità in cui mi sono dovuta confrontare con il ritardo delle Istituzioni italiane, spesso ancora dominate da una cultura assistenzialistica. Saprà anche il citato Decreto del ministro Giovannini aiutare un cambiamento?