Nei giorni scorsi, sulla testata «Vita.it», Pietro Barbieri, attivista per i diritti delle persone con disabilità, ha voluto mettere in evidenza come, anche nel racconto delle Paralimpiadi, molti giornali e media siano caduti nel solito pendolo «tra pietismo ed eroismo».
Nel suo articolo si sottolinea come si sia dato risalto, spesso, più alla storia personale con al centro il “dramma” (incidente, malattia ecc.), che non alla stessa prestazione sportiva.
Il clamore mediatico offerto quest’anno dalle Paralimpiadi, così ricche di vittorie per gli italiani, è come sempre una palestra importante per il giornalismo mainstream [“generalista”, N.d.R.], che di solito si occupa di disabilità solo per raccontare appunto tragedie personali o, come in questo caso, grandi traguardi non solo sportivi.
Barbieri sa bene che i campioni paralimpici sono, loro malgrado, grandi icone per il mondo della disabilità e non solo. Prova ne sia la dichiarazione spontanea rilasciata da Bebe Vio dopo la vittoria nel fioretto individuale a Tokyo, dove la campionessa ha raccontato di avere subìto di recente una delicata operazione e di avere rischiato la morte, e quindi di essere per questo doppiamente felice di stare sul gradino più alto del podio.
Le Paralimpiadi sono non solo una grande manifestazione sportiva, ma anche un’occasione per inviare messaggi positivi ad un pubblico più ampio possibile. È questo il modo giusto per farlo? Sicuramente no se, come scrive Barbieri, lo scopo di queste manifestazioni dovrebbe essere quello di “normalizzare la disabilità” cioè farla rientrare nell’ordinario. Oggi, però, il rapporto tra comunicazione e disabilità punta alla trasformazione della società, all’abbattimento delle barriere e la celebrazione di esempi positivi, di persone che “ce l’hanno fatta nonostante tutto” serve a mettere in evidenza le difficoltà che ancora oggi ci sono nell’inclusione sociale delle persone con disabilità.
Il giornalismo si sente in dovere, in modo paternalistico, di essere portatore dei nuovi valori che cambiano una cultura, una mentalità. So bene anch’io, come giovane attivista e operatrice della comunicazione su questi temi, che concentrare l’attenzione sulla “tragedia personale” è contrario ad ogni regola e principio della nuova visione della disabilità, ma forse l’unico modo per cambiare e migliorare il modo di comunicare è cambiare la realtà stessa, cosicché, con tutta probabilità, solo quando le barriere saranno eliminate, almeno quelle più evidenti, e non solo quelle archietttoniche, non vedremo più brutti titoli di giornale dove non si parla di una vittoria sportiva, ma dell’incidente di dieci anni prima.
Purtroppo fin quando queste barriere ci saranno e condizioneranno la vita di milioni di persone, non solo in Italia, avremo bisogno non di “eroi”, ma di campioni paralimpici come Bebe Vio e Alex Zanardi che si presteranno responsabilmente ad essere da esempio, per una società che non riesce a vedere oltre le Paralimpiadi.
Al di là dei risultati agonistici delle Paralimpiadi di Tokyo, di cui «Superando.it» riferisce quotidianamente, segnaliamo anche, quali contributi di discussione sul significato dell’evento, sempre pubblicati sulle nostre pagine: Simona Lancioni, Rappresentano a Tokyo 82 milioni di persone in fuga da guerre e persecuzioni e Vincenzo Falabella, Le medaglie delle Paralimpiadi e le medaglie dei diritti.