L’Italia che ha dovuto far fronte alla pandemia era quella che negli ultimi dieci anni aveva tagliato 37 miliardi alla Sanità Pubblica, perdendo 70.000 posti letto e chiudendo 359 reparti. E tuttavia l’atteggiamento nei confronti degli operatori e delle operatrici sanitari – quelli inizialmente osannati perché in prima linea nel contrasto al Covid – ha cambiato segno con l’evolversi dell’emergenza pandemica, trasformandoli da “eroi” a “dimenticati”. E insieme a loro sono state dimenticate anche le tante altre figure che hanno svolto compiti fondamentali: lavoratrici domestiche, fattorini, rider, addetti/e alle pulizie, il personale dei supermercati, baby sitter, badanti, assistenti personali, caregiver.
La pandemia ci ha mostrato l’essenzialità dei lavori di cura, ma ora che l’emergenza, pur non essendo risolta, è in qualche modo diventata gestibile, il tema della cura sembra essere nuovamente scomparso dal dibattito pubblico italiano, rivelando, per l’ennesima volta, la miopia politica di cui siamo capaci.
In questo panorama suscitano grande interesse alcune elaborazioni prodotte su questi temi nel Regno Unito. Un percorso del quale possiamo leggere in una pubblicazione ora tradotta anche in lingua italiana, il Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza (Edizioni Alegre, 2021).
Si tratta di un’opera del Care Collective, un collettivo londinese costituitosi nel 2017 come gruppo di studio, allo scopo di comprendere e affrontare le diverse forme di crisi del concetto di cura. Le Autrici e gli Autori sono cinque persone provenienti da differenti discipline che sono state attive, sia collettivamente che individualmente, in diversi contesti personali, accademici e politici, e che hanno maturato le proprie competenze in differenti Paesi: Grecia, Australia, Stati Uniti e Regno Unito. Ne fanno parte Andreas Chatzidakis, Jamie Hakim, Jo Littler, Catherine Rottenberg e Lynne Segal.
La pandemia ha rivelato la centralità sociale dei lavori di cura, osserva il collettivo londinese, ma ciò nonostante l’incuria continua a regnare sovrana.
Il concetto di cura cui fa riferimento il collettivo è esteso sino ad includere la cura delle persone, degli animali, delle relazioni, dell’ambiente, del clima e del pianeta. L’opera propone un’idea di cura intesa come visione altra del mondo da contrapporre a quella posta in essere dalle società neoliberiste.
Il neoliberismo ha trasformato la cura in una pratica individuale e mercificata, in larga parte riservata solo a chi ha i mezzi per pagarsela, che si è concretizzata nella privatizzazione e nell’esternalizzazione dei servizi sanitari e sociali. L’antidoto a questa impostazione dei servizi, nella quale la povertà è diventata “una colpa” e il bisogno di cura è considerato “una debolezza”, consiste in un’etica della responsabilità e della condivisione dei lavori di cura, e individua nell’interdipendenza che ci caratterizza come esseri umani il valore fondante su cui costruire nuove pratiche di democrazia.
Le elaborazioni del collettivo prendono le mosse dalle intuizioni di alcune pensatrici femministe, tra le quali la teorica politica Joan Tronto, che ha distinto i concetti di “prendersi cura di” (caring for), riferito agli aspetti più concreti della cura, “interessarsi a” (caring about), che descrive l’investimento emotivo e l’attaccamento agli altri, e “prendersi cura con” (caring with), riguardante la mobilitazione sul piano politico per trasformare il mondo.
La circostanza che la cura sia stata sempre considerata appannaggio delle donne, una loro “capacità innata” e un’attività “improduttiva”, ha contribuito alla svalutazione di essa sotto il profilo economico e del prestigio sociale. Così svalutata, la cura si è mantenuta per lo più all’interno della famiglia nucleare, sfruttando il lavoro non pagato delle donne o quello sottopagato delle donne migranti dai Paesi più poveri, e lasciando scoperte le fasce più svantaggiate della popolazione.
La centralità attribuita dalle società neoliberiste all’autonomia e all’indipendenza individuale trova il proprio corollario nella rimozione della vulnerabilità e della fragilità delle persone, e porta a disconoscere che l’interdipendenza e la dipendenza dalle cure siano tratti distintivi della condizione umana. Pertanto, per scardinare questo sistema, è necessario «ammettere la nostra reciproca interdipendenza, accettare le ambivalenze al cuore della cura, assicurare una retribuzione egualitaria dei ruoli di cura e superare l’idea che si tratti di lavoro improduttivo o di una naturale predisposizione femminile, che sia una lavoro per donne prevalentemente povere, immigrate o non bianche» (opera citata, pagina 33). Il lavoro di cura nella sua accezione più ampia va portato fuori dall’ambiente domestico e socializzato attraverso comunità di cura che travalichino la famiglia nucleare.
Nel Manifesto sono illustrate molte esperienze di comunità di cura, con spazi e risorse comuni, poste in essere nell’àmbito dei movimenti femministi e ambientalisti.
Partendo dalla concretezza di queste esperienze, come pure da quelle realizzate in risposta all’emergenza Coronavirus (come alcune pratiche di mutuo soccorso senza le quali le persone più fragili e sole non sarebbero sopravvissute), il collettivo londinese propone un modello sociale di cura universale, nel quale la cura stessa sia al centro di ogni aspetto della vita, tutti e tutte si sentano responsabili nel prendessi cura degli altri e delle altre, informando la propria azione ai princìpi di reciprocità, condivisione e accesso egualitario. In questa prospettiva la cura dovrà necessariamente essere reciproca, universale, “indiscriminata” (che non discrimina), democratica, non paternalista, né assistenzialista.
Nello specifico si tratta di sperimentare reti e legami di cura capaci di espandersi oltre le relazioni intime e i confini della famiglia nucleare, sviluppando sistemi di cura e strutture di “parentela alternativa”, simili a quelle sperimentate negli Anni Ottanta e Novanta nella lotta contro la diffusione dell’AIDS, o a quelle autorganizzate per la cura condivisa dei bambini e delle bambine realizzate negli Anni Settanta.
Questa nuova pratica della cura è denominata “cura promiscua”, poiché si pone fuori dalle reti familiari e dalle logiche di mercato, e fa riferimento al modello delle “famiglie per scelta” nate in seno ai movimenti LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali), sperimentate negli Anni Settanta.
La comunità di cura che ne scaturisce si basa su quattro elementi fondamentali – il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità –, e richiede che sia supportata dallo Stato. A quest’ultimo, infatti, è affidato il compito di fornire ampi spazi pubblici, infrastrutture architettoniche e ambientali dedicate, supporti strutturali, risorse materiali e sociali equamente distribuite e condivise, servizi socializzati basati sull’autogoverno e forme di democrazia partecipativa.
La cura universale si realizza dunque nello Stato di cura che dovrebbe provvedere ai bisogni delle singole persone “dalla culla alla tomba”, creando infrastrutture non burocratiche né paternalistiche, promuovendo servizi solidaristici accessibili a tutti e tutte, facilitando progetti orizzontali di comunità, e incoraggiando la partecipazione ai processi decisionali. Contemporaneamente è necessario contrastare la privatizzazione dei servizi essenziali e attuare una nuova radicale regolazione dei mercati. Infatti, per il collettivo londinese l’accesso ugualitario alle risorse materiali, sociali e ambientali essenziali per la realizzazione della cura universale può essere conseguito solo riorganizzando i settori chiave dell’economia al di fuori dei parametri del mercato capitalista, e creando un mercato e un’economia eco-socialisti.
La creazione dello Stato della cura richiede anche un superamento del welfare e dello Stato Sociale keynesiano, eliminando le disuguaglianze di genere e di razza che lo hanno contraddistinto nel secolo scorso, e riformulandolo su basi universalistiche, ugualitarie ed ecologiste.
La proposta del Manifesto della cura sembra così ambiziosa da risultare quasi utopica, se non fosse che molte delle pratiche solidaristiche e delle esperienze di condivisione della cura prese in considerazione sono già state realizzate e si tratterebbe “solo” di incoraggiarne la diffusione, destinando risorse e creando infrastrutture perché si estendano a livello planetario.
Lo sforzo richiesto è dunque quello di disporsi a ragionare in una prospettiva sistemica, cosa che qui in Italia siamo poco abituati a fare. Se ad esempio ci soffermiamo a riflettere sull’impostazione del Disegno di Legge 1461, relativo alle Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare, rileviamo che questo si configura come un intervento volto a valorizzare il lavoro di cura informale (una cura non mercificata), e tuttavia esso non contiene dispositivi volti a superare le disuguaglianze di genere, né tanto meno contempla modalità di cura che vadano oltre la cerchia familiare, escludendo preliminarmente forme di “cura promiscua” (nell’accezione utilizzata nel Manifesto).
Pertanto, se anche il Disegno di Legge dovesse passare così com’è, ciò che ne scaturirà sarà una cura intesa come una faccenda femminile e familiare. Per contro viene in mente il lavoro di Gino Strada, il chirurgo fondatore di Emergency scomparso lo scorso 13 agosto, che prestava le proprie cure negli scenari di guerra senza distinguere tra Paese e Paese o tra “amici” e “nemici”.
Quanta strada da fare, dunque, per raggiungere Strada, sarebbe ora di mettersi in cammino!