Temi delicati, che richiedono di sospendere il giudizio

di Simona Lancioni*
«C’è un tema - scrive Simona Lancioni - che si ripropone ciclicamente all’interno dell’associazionismo delle persone con disabilità, quasi fosse un fiume carsico che scorre sotto l’acquisizione che ogni donna debba poter liberamente decidere in materia di maternità. Il tema è quello secondo cui l’aborto terapeutico lederebbe il diritto alla vita delle persone con disabilità. In realtà si tratta di tematiche che richiedono sospensione del giudizio e onestà intellettuale, rispettando innanzitutto la libertà di scelta delle donne»
Lucia Hesselink, "Donna che riflette" (©Lucia Hesselink)
Lucia Hesselink, “Donna che riflette” (©Lucia Hesselink)

C’è un tema che si ripropone ciclicamente all’interno dell’associazionismo delle persone con disabilità, quasi fosse un fiume carsico che scorre sotto l’acquisizione che ogni donna debba poter liberamente decidere in materia di maternità. Il tema è quello secondo cui l’aborto terapeutico lederebbe il diritto alla vita delle persone con disabilità. Basta poco per farlo riaffiorare.
L’ultima occasione l’ha offerta la testata «Avvenire», riferendo di una recente Sentenza dell’Alta Corte Inglese che ha dato torto a un’attivista sui diritti umani con sindrome di Down, Heidi Crowter, e a Maire Lea-Wilson, madre di Aidan, 16 mesi (anch’egli con sindrome di Down). Nella sostanza quella Sentenza ha confermato la legittimità della norma, già operante in quello Stato, la quale consente l’interruzione della gravidanza, anche oltre il limite massimo di 24 settimane, fino al momento della nascita, in presenza di gravi anomalie del feto (se ne legga qui: Silvia Guzzetti, «Noi Down discriminati e scartati, ma resistiamo», la battaglia di Heidi, in «Avvenire», 30 settembre 2021). Tale norma, l’Abortion Act 1967, è in vigore in Inghilterra, Galles e Scozia.

La posizione della Chiesa cattolica in tema di aborto è nota. Se ancora ce ne fosse stato bisogno, nel settembre scorso ci ha pensato Papa Francesco, in una conferenza stampa improvvisata su un volo di ritorno dalla Slovacchia, a ribadire che «l’aborto è un omicidio con sicario». «Noi siamo vittime di una cultura dello scarto… Lo scarto dei bambini che non vogliamo ricevere e con quella legge dell’aborto li rimando al mittente. Oggi questo è diventato un modo normale, un’abitudine bruttissima, è un omicidio», ha detto il Pontefice.
«Parole offensive nei confronti delle donne», ha commentato su «Huffington Post» Lucetta Scaraffia, giornalista e storica che ha diretto per sette anni «Donne Chiesa Mondo», l’inserto mensile femminile dell’«Osservatore Romano», ruolo dal quale si è dimessa (assieme alle altre dieci donne della redazione) nel 2019 per il peggioramento delle condizioni di “libertà” e di “rispetto” dentro il quotidiano della Santa Sede, accusato di aver “silenziato” le denunce sugli abusi sulle religiose.
«Papa Francesco ha utilizzato un linguaggio offensivo nei confronti delle donne, come se abortire fosse una passeggiata. Dire che per le donne compiere questo atto è un’abitudine è davvero offensivo nei loro confronti, sia verso il loro dolore fisico, sia verso quello psichico, ed è orrendo», ha aggiunto sulla stessa testata Scaraffia, secondo la quale la gerarchia ecclesiastica del Vaticano non ascolta le donne, finendo per schierarsi con le parti politiche che le vogliono punire.

A prescindere dal dibatto interno alla stessa, quello che la Chiesa non ha mai spiegato è per quale motivo si ostini a voler imporre questi precetti anche a chi non aderisce a tale religione, perché ne ha sposato un’altra, o perché non ne ha scelto nessuna.
L’articolo di Guzzetti su «Avvenire» ha un’impostazione “classica” e coerente con quanto espresso dal Pontefice. Sono riportate le parole di Crowter (confidenzialmente chiamata per nome e non per cognome), per la quale quella inglese «è una norma che dice ai disabili che non dovrebbero esistere e vìola i loro diritti umani. Io mi sento rifiutata dalla società cui appartengo».
Si racconta che Crowter ha 26 anni e, dopo alcune difficoltà iniziali, è stata completamente accettata e molto amata dalla sua famiglia, che ha tanti interessi e passioni, che ha una vita piena, che ha sposato James Carter, un giovane di 28 anni, anch’egli con la sindrome di Down.
Sono riportati i dati del Servizio Sanitario Britannico sugli aborti dopo le 24 settimane, si segnala che quelli del 2020 sono in aumento rispetto al 2019, e che questi hanno riguardato più del 90% dei feti con sindrome di Down. E ancora, vengono riportate le parole di Grace Browne, portavoce della Società per la Protezione dei Bambini non nati, la quale afferma che la legislazione inglese sull’aborto tratta le persone con disabilità «come cittadini di serie B» (grassetto nel testo originale).

In tutto l’articolo si dà per scontato qualcosa che in realtà non è per niente pacifico, ossia che ad embrioni e feti debbano essere riconosciuti gli stessi diritti di cui godono le persone, e si lascia intendere che l’unica motivazione per la quale si fa ricorso all’aborto terapeutico sia una valutazione sull’indegnità di vita delle persone con disabilità.

Prendendo spunto dal citato articolo di «Avvenire», l’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) ha diramato un proprio comunicato, i cui contenutri sono stati ripresi anche su queste pagine (Il Caso Crowter e le vite degne di essere vissute, in «Superando.it», 5 ottobre 2021), che si pone sulla stessa linea e rincara ulteriormente il giudizio morale.
Denuncia che le modalità adottate in Inghilterra sono simili a quelle che si registrano in vari Paesi europei e del mondo e che l’Islanda ambirebbe a diventare il primo Paese europeo senza persone con sindrome di Down.
Scrive che «sono molti i bambini che vengono abortiti anche in caso di un semplice sospetto che ci si trovi in presenza di un’alterazione cromosomica come la trisomia 21, la sindrome di Down, appunto»… Per l’ANFFAS, dunque, ad essere abortiti sono i bambini, non più gli embrioni e i feti.
L’Associazione guarda con preoccupazione ai progressi tecnologici che rendono i test diagnostici prenatali più semplici, sempre meno invasivi e più precisi, paventa la prossima sparizione dei bambini con sindrome di Down, quindi cita il progetto nazista Action T4 volto a “sterminare” le persone con disabilità, ed esprime «l’impressione che questa ideologia non si sia mai assopita del tutto e che tutt’oggi, anche se derubricata come evoluzione della ricerca scientifica, di fatto nasconda un approccio prettamente eugenico».
Il testo prosegue sullo stesso tenore, considerando la valutazione sull’indegnità di vita delle persone con disabilità come unico motivo per fare ricorso all’aborto terapeutico, ma precisando: «Quanto detto non significa limitare o sindacare sulla libertà di scelta delle donne, che va sempre rispettata e salvaguardata […]». Caspita, se per descrivere la condotta delle donne che ricorrono all’aborto terapeutico – la cui libertà di scelta, a loro dire, va sempre rispettata e salvaguardata – scomodano persino lo sterminio delle persone con disabilità operato dai nazisti, chissà cosa sono capaci di pensare e scrivere quando vogliono parlar male di qualcuno/a…

Gli aspetti considerati sono veramente tanti, vediamone qualcuno. Né Guzzetti, né l’ANFFAS sembrano distinguere tra embrioni/feti e persone. L’ANFASS parla esplicitamente di «bambini abortiti». Per chi, come chi scrive, rivendica e difende il diritto delle donne di scegliere liberamente in materia sessuale e riproduttiva, questa posizione in realtà ha più a che fare con la determinazione a disconoscere e limitare tale diritto, che con lo statuto ontologico degli embrioni e dei feti. La gravidanza avviene nel corpo delle donne, embrioni e feti sono un tutt’uno con esso, trattarli come se avessero un’individualità distinta e contrapponibile a quella della donna, e ridurre quest’ultima alla funzione di “un’incubatrice” di cui si può liberamente disporre a prescindere dal suo consenso è una delle declinazioni che può assumere una particolare forma di violenza denominata quale coercizione riproduttiva.
Questa può essere «definita come quell’insieme di “comportamenti che interferiscono con l’autonomia decisionale di una donna a proposito della sua salute riproduttiva”. È un tipo di violenza invisibile, che agisce più a livello psicologico che fisico e che spesso si fa fatica a riconoscere come tale: spesso l’ingerenza sulla gravidanza o la contraccezione viene scambiata come una forma di eccessiva preoccupazione più che come una manipolazione che scavalca il consenso. Si tratta infatti di influenza e si può esercitare in molti modi, ad esempio obbligando una donna a portare a termine o a interrompere una gravidanza, vietandole o imponendole di utilizzare contraccettivi, ma anche esponendola consapevolmente al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmesse. La coercizione può avvenire attraverso minacce di violenza fisica, ma anche attraverso ricatti, abusi emotivi o controlli ossessivi», spiega Jennifer Guerra, nota scrittrice femminista, in un articolo pubblicato sul sito del periodico «The Vision» (Imporre una gravidanza o un aborto a una donna è violenza e si chiama coercizione riproduttiva, in «The Vision», 15 settembre 2021, grassetti di chi scrive nella citazione).

In questa sede è importante segnalare che rientrano nella definizione di coercizione riproduttiva sia le pressioni per impedire l’aborto (come quelle espresse su l’«Avvenire» e dall’ANFFAS), sia quelle, segnalate anche dalla stessa ANFFAS, per indurre ad abortire, che sono spesso utilizzate dal personale sanitario, e che presentano l’aborto come l’unica via percorribile dalle donne in caso di «rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», come previsto, nel nostro ordinamento, dall’articolo 6 della Legge 194/78 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza).
I profili critici sono sostanzialmente due: la norma italiana pone l’accento sulla salute fisica o psichica della donna, mentre sia i primi che i secondi si concentrano solo sulle condizioni del nascituro allo scopo di agire un ricatto morale sulla donna stessa. Semplificando molto, tale ricatto è riassumibile nelle espressioni «se abortisci stai dicendo che le persone con disabilità non hanno diritto di esistere» e «se non abortisci metterai al mondo un individuo condannato all’infelicità».
Il secondo profilo critico riguarda il fatto che viene sistematicamente ignorato che una stessa diagnosi inerente alle rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro può suscitare in donne diverse valutazioni, sentimenti e reazioni molto diverse e soggettive. Quella che deve decidere se portare avanti o meno la gravidanza è la donna (ed eventualmente la coppia), ma chi ha già una propria idea di cosa sia giusto o sbagliato fare in queste situazioni non le presta attenzione, poiché la sua unica preoccupazione è orientarne la scelta in funzione dei propri convincimenti.

Proprio perché non vi è un piano di “sterminio” portato avanti dalle donne ai danni delle persone con disabilità, e anche perché ci sono sensibilità differenti, possiamo escludere che si arrivi alla «sparizione dei bambini con sindrome di Down», come paventato dall’ANFFAS. E tuttavia anche questo timore suona pretestuoso. L’invenzione del vaccino anti-poliomielite può avere – e probabilmente avrà – come conseguenza la sparizione delle persone con esiti da poliomielite, una delle tante espressioni della diversità umana, esattamente come le persone con sindrome di Down, perché l’ANFFAS non protesta? Forse il motivo potrebbe essere che, anche se afferma di non voler «limitare o sindacare sulla libertà di scelta delle donne», in realtà, proprio come il Pontefice, considera l’aborto come un omicidio. Ma una donna che abortisce non sta agendo per “sterminare” qualcuno/a, sta solo dicendo «non mi sento di affrontare questa maternità», e dal momento che divenire madri non è obbligatorio, questa posizione è perfettamente legittima e rispettabile.

Come abbiamo visto, sia «Avvenire» che l’ANFFAS danno per scontato che l’unica motivazione che può indurre all’aborto terapeutico sia una valutazione sull’indegnità di vita delle persone con disabilità. Se così fosse, dovremmo poter escludere che le persone con disabilità vi facciano ricorso, ma questo, semplicemente, non è vero. Basta indagare sulle scelte delle persone con disabilità che hanno patologie geneticamente trasmissibili, per rendersi conto di come non sia affatto infrequente che scelgano l’aborto terapeutico, e questo non perché considerino la propria vita indegna di essere vissuta, ma perché non si vogliono assumere la responsabilità di trasmettere la propria patologia alla propria prole (si veda, a tal proposito, un testo pubblicato su queste stesse pagine, che tratta il tema in relazione alle patologie neuromuscolari).

Ci sono poi altre ambiguità. Chi sostiene posizioni antiabortiste tende a far credere che l’alternativa sia tra “aborto sì” e “aborto no”, la qual cosa non corrisponde al vero; ìl’alternativa è semmai tra “aborto legale” o “aborto illegale/clandestino” (con tutto quello che ne può conseguire per la salute e la stessa vita delle donne). Infatti, è ampiamente documentato che la penalizzazione di questa pratica non è mai riuscita ad impedire che le donne trovassero altri modi per interrompere le gravidanze indesiderate (si veda, solo a titolo esemplificativo, Chiara Lalli, A. La verità, vi prego, sull’aborto, Fandango Libri, 2013).
Sotto questo profilo va segnalato che per il Guttmacher Institute, il più importante centro di studi al mondo sulla salute riproduttiva, «anche tutte le pratiche che impediscono l’aborto laddove esso è legale sono una forma di coercizione riproduttiva, dal momento che mettono le donne nella condizione di non avere scelta tra il portare avanti e l’interrompere una gravidanza», come riferisce Jennifer Guerra nell’articolo sopra citato. Questa modalità è molto praticata qui in Italia dove il 69% dei ginecologi è obiettore di coscienza, cioè si rifiuta di praticare le interruzioni volontarie di gravidanza (si veda a tal proposito Domenico Riccio, L’Italia ha un problema di obiettori di coscienza tra i ginecologi, in «Il Post», 29 marzo 2021).
È inoltre sbagliato considerare il diritto delle donne di scegliere liberamente in materia di maternità in conflitto con i princìpi sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), altra argomentazione utilizzata quando si parla di questi temi. In particolare l’articolo 10 della Convenzione (Diritto alla vita) è riferito alle persone con disabilità “in atto” e non ad embrioni o feti; l’articolo 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia) riconosce «il diritto delle persone con disabilità di decidere liberamente e responsabilmente riguardo al numero dei figli e all’intervallo tra le nascite e di avere accesso in modo appropriato secondo l’età, alle informazioni in materia di procreazione e pianificazione familiare, e siano forniti i mezzi necessari ad esercitare tali diritti», e all’articolo 25 (Salute) impegna gli Stati Parti a «fornire alle persone con disabilità servizi sanitari gratuiti o a costi accessibili, che coprano la stessa varietà e che siano della stessa qualità dei servizi e programmi sanitari forniti alle altre persone, compresi i servizi sanitari nella sfera della salute sessuale e riproduttiva».
Se, giustamente, i diritti contenuti negli articoli 23 e 25 sono riconosciuti alle persone con disabilità, non sembra molto coerente che queste ultime esprimano i giudizi sopra citati quando quegli stessi diritti li esercitano le donne (con o senza disabilità).

Esistono due “belle invenzioni” che si chiamano sospensione del giudizio e onestà intellettuale; possiamo convenire che siano queste le prospettive più adeguate a trattare una tematica delicata e importante come quella in esame. Sospendere il giudizio vuol dire riconoscere che le donne hanno sufficiente competenza di se stesse per decidere in modo libero e autonomo se desiderano e si sentono in grado di portare a termine una gravidanza oppure no, e che qualunque percorso scelgano è “giusto” perché adeguato al loro sentire. Essere invece intellettualmente onesti vuol dire non avere problemi a riconoscere e raccontare sia gli aspetti luminosi che quelli oscuri di questa materia: dire che anche le persone con importanti disabilità possono essere felici e vivere una vita piena, dire che comunque esiste un tema della prevenzione delle patologie invalidanti su cui ci sono posizioni differenti, ma comunque plausibili e, infine, segnalare che qui in Italia il lavoro di cura informale non è riconosciuto, che questo è ancora scaricato in larga prevalenza sulle donne e che ciò può comportare una sistematica violazione dei diritti umani delle caregiver.
Ecco, rispettare la libertà di scelta delle donne vuol dire relazionarsi con loro in questo modo.

Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo è già apparso. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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