Caro Nico Acampora, scrivo a lei perché la sua iniziativa è quella che conosco meglio [Acampora è educatore e fondatore di “PizzAut“, pizzeria gestita da persone autistiche a Cascina de’ Pecchi, in provincia di Milano, N.d.R.], ma potrei rivolgermi anche ai fautori del Tortellante [laboratorio socio-occupazionale dell’Associazione Aut Aut di Modena: se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.] e in generale a tutti gli imprenditori sociali che danno un’opportunità alle persone con autismo e che quindi sono interessati al Disegno di Legge sulle start up sociali innovative di cui si è recentemente occupata anche la rivista «Vita».
Il progetto PizzAut è una grande cosa, ma questo lei lo sa già, non ha certo bisogno che glielo dica anch’io. L’attenzione che esso ha ricevuto e continua a ricevere è strameritata. Anche per questo (ma non solo), le chiedo un aiuto, da papà di una giovane donna con autismo a basso funzionamento. Mi aiuta a dire a voce alta, direi altissima, che i ragazzi e le ragazze con autismo non sono tutti come quelli che lavorano a PizzAut? Anzi, che la stragrande maggioranza delle persone, piccole e grandi, che gravitano nello spettro autistico non potrebbe mai e poi mai lavorare nella vostra splendida pizzeria inclusiva? O fare qualunque altro tipo di lavoro?
Forse lei ora spalancherà gli occhi, pensando che le sto chiedendo di unirsi a un’affermazione scontata. O forse no, anche lei magari ha avuto modo di fare il mio stesso ragionamento. Comunque la veda, le assicuro che, anche e soprattutto in questi casi, è indispensabile praticare il distingue frequenter di Sant’Agostino.
Io sento chiarissime le voci di chi dice: «Autismo? Ah sì, quello che hanno i ragazzi di PizzAut. Beh, dai, sono strani ma sono in gamba, se la cavano alla grande!». Ecco fatto: il meccanismo perverso della generalizzazione confortante è scattato, potente come non mai. Una versione sfumata (neanche tanto) del vecchio abilismo, in base al quale la neurodiversità viene ridotta a bizzarria, e la condizione di vita delle persone con autismo vista come «ricca di nuove possibilità».
Qualcosa di vero c’è, intendiamoci, e l’esempio di PizzAut è eclatante a questo proposito. Ma non è sempre così, purtroppo, non è quasi mai così! Come lei sa bene, per moltissimi giovani e meno giovani con autismo lavorare è impossibile. La loro vita si snoda necessariamente tra famiglia e servizi, fino a quando, a un certo punto, arriva a svolgersi interamente nei servizi (residenziali).
Per il sistema socio-sanitario le iniziative come PizzAut sono potenzialmente una manna dal cielo. Ragazzi e ragazze che, in tutto o in parte, escono dal circuito dei servizi, liberando – nel loro piccolo – risorse pubbliche. Il sistema dei servizi, intanto, resta sostanzialmente inamovibile, perennemente uguale a se stesso, con pochissima innovazione.
Possibile che, guardando a come si muove il mondo, questo sistema non possa evolvere? Perché la capacità creativa e innovativa di un educatore-imprenditore come lei non contagia anche le menti del settore pubblico?
Anche i ragazzi e le ragazze con autismo a basso funzionamento (e con disabilità complesse) meritano uno sguardo diverso, una visione che rompa gli schemi delle classi SIDI [Schede Individuali Disabili, N.d.R.] e dei fascicoli FASAS [Fascicoli Sanitari Assistenziali, N.d.R.], un coraggio di sperimentare che scongiuri il pericolo di cadere nel custodialismo.
Che ne dice, caro Nico Acampora, glielo diciamo alla classe politica e dirigente? Glielo diciamo che se per i giovani con autismo a medio-alto funzionamento c’è bisogno di cento, mille PizzAut (o altre, auspicabili iniziative analoghe), per i giovani a basso funzionamento c’è bisogno di uno sforzo creativo altrettanto grande, se non addirittura di più? E che noi genitori e familiari magari possiamo dire la nostra?
Papà di Martina, giovane donna con autismo a basso funzionamento. Il presente contributo è già apparso in «Vita.it» e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti e integrazioni al diverso contenitore, per gentile concessione.
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