«Il 16 novembre scorso, durante le audizioni in XII Commissione Affari Sociali della Camera, ANDEL, rappresentata da Enrico Seta e Marino Bottà, ha espresso profonda delusione per la sottovalutazione del tema dell’inclusione lavorativa che emerge dal testo del Disegno di Legge Delega sulla Disabilità presentato dal Governo. Il dubbio avuto leggendo tale Disegno di Legge è che il tema del lavoro delle persone con disabilità, e quindi del relativo riassetto normativo, fosse stato tenuto fuori dal testo per essere poi trattato in un futuro Disegno di Legge di iniziativa del ministro del Lavoro Andrea Orlando. Ma nessuna dichiarazione in tal senso è arrivata dal Governo. Siamo quindi costretti a prendere atto che anche questo Governo non ha una percezione concreta di questa realtà e del disagio sociale che essa produce e che anche il Disegno di Legge sulla Disabilità rischia di essere un’ennesima occasione perduta. Abbiamo quindi lasciato agli Atti della Commissione Affari Sociali della Camera alcune proposte di emendamenti al Disegno di Legge, trasmettendo in parallelo una serie di emendamenti al Disegno di Legge di Bilancio per il 2022 ai Senatori appartenenti a tutti i gruppi parlamentari, per evitare che la richiesta di lavoro, e non di assistenza, di centinaia di migliaia di persone con disabilità cada nel definitivo oblio sociale, mentre i Ministeri spendono, non sempre in maniera adeguata, i promessi 200 miliardi di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».
Fin qui i contenuti di un comunicato diffuso nelle scorse settimane dalla nostra organizzazione [ANDEL – Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro, N.d.R.].
Il Disegno di Legge AC 3347 (Delega al Governo in materia di disabilità), rappresenta uno degli adempimenti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza più tempestivamente realizzati dal Governo. Leggendo però sia l’articolato che la relazione illustrativa se ne ricava l’idea che la politica sia molto lontana dalla realtà e dall’inclusione delle persone con disabilità. Eppure nel loro vissuto, dopo l’attenzione all’aspetto sanitario, c’è proprio l’aspirazione al lavoro. Non dimentichiamo, infatti, che il lavoro è sempre più il luogo di incontro e di interazione fra individuo e collettività. Il lavoro è la via principale per accedere alla normalità, alla sicurezza, al successo, e al proprio progetto di vita. Il lavoro è occasione di scambio di esperienze comuni, di condivisione umana, è strumento di confronto con se stessi e con gli altri, è il modo per raggiungere obiettivi e risultati. L’identità personale passa attraverso il ruolo che il singolo ha rispetto alla comunità di appartenenza; la professione e il curriculum lo rappresentano, in una fusione sempre più forte fra essere lavoratore ed essere persona. Il lavoro impone un’organizzazione programmata del tempo, offre una ragione per affrontare il nuovo giorno, produce una routine tranquillizzante che, in quanto tale, inibisce l’ansia e quindi porta ad equilibrio psicofisico. Questo processo rafforza l’autostima e quindi la sensazione di benessere. Il lavoro, infine, è il luogo dove l’uomo incontra se stesso, il fare/lavoro è la sua linfa vitale.
L’assenza di lavoro toglie tutto questo e produce preoccupazione, frustrazione, angoscia e finanche disperazione, cui si accompagna una serie infinita di contraddizioni personali e sociali.
Non ci sono alternative al lavoro! Un assistito non sarà mai uguale ad un lavoratore, ad un individuo socialmente attivo. Ecco perché bisogna occuparsi e preoccuparsi del futuro lavorativo, soprattutto di quello delle persone più fragili. Al contrario, la realtà continua a mostrare un crescente numero di persone con disabilità confinate forzatamente tra le mura domestiche o costrette ad accettare pseudo-occupazioni, spesso occultate da forme varie di tirocinio, tranne pochi casi pubblicizzati dai media, con i “disabili-abili” che si “autocollocano”, mentre gli altri sono destinati a rimanere fuori dal mondo del lavoro, creando così un’ulteriore discriminazione fra i già discriminati, fra i “disabili-abili” e i “disabili- disabili”.
Il dubbio che sorge leggendo il citato Disegno di Legge Delega è che il Governo non abbia una strategia da mettere in campo e lasci il compito alle Regioni che straboccheranno di finanziamenti e di nuovo personale assunto. Ma ritornando al testo del Disegno di Legge di stesso, vi troviamo un riferimento al lavoro al comma 5 dell’articolo 1, lettera c, ove si parla di «progetto di vita personalizzato e partecipato», senza fare alcun riferimento al tema dell’integrazione, né occupazionale, né lavorativa.
Vi si fa invece riferimento nella parallela lettera c dell’articolo 2. In particolare è al punto 5 che fa capolino la parola «lavorativi» nella forma quasi di un “di cui”. E anche nella relazione illustrativa compare una sola volta la parola «lavorativi», ma solo incidentalmente.
Proprio nella relazione illustrativa la sottovalutazione del tema “disabilità-lavoro” appare evidente in alcuni passaggi, nei quali si fa più volte riferimento alla Missione 5 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, dimenticando che il Piano raccomanda di dare particolare rilievo all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità all’interno delle politiche attive per il lavoro.
Tutto questo, unito ai deludenti risultati occupazionali conseguiti in due decenni dal Collocamento Disabili, non può che preoccuparci. È impensabile, infatti, ottenere risultati positivi, se non si riforma il sistema del Collocamento Disabili il quale che non solo si è rivelato inefficace nell’attività di collocamento, ma non è stato nemmeno in grado di creare buone prassi e politiche attive adeguate, oltre ad avere burocratizzato gli uffici, anziché trasformarli in servizi per le persone con disabilità e per le aziende, spingendo queste ultime ad un vero e proprio arroccamento difensivo, fatto di evasione ed elusione degli obblighi di legge.
Eppure, lo stesso ministro del Lavoro, Orlando, poco dopo il suo insediamento, nella seduta del 22 aprile di quest’anno in XI Commissione della Camera, dopo avere rilevato «la fortissima disomogeneità territoriale» in materia di inclusione lavorativa delle persone con disabilità, usò parole chiare nel descrivere lo stato delle cose: «Sono consapevole che partiamo da un quadro critico, se non, addirittura, molto critico, perché solo una minoranza delle persone con disabilità è inserita nel mondo del lavoro».
Infatti, la realtà evidenzia una serie di contraddizioni che hanno complicato il processo inclusivo delle persone con disabilità. Il personale degli Uffici Provinciali preposti, scarsamente preparato e aggiornato, ha portato i servizi, come accennato,. verso un’eccessiva burocratizzazione degli Uffici, vanificando così il concetto di “collocamento mirato” che era alla base della riforma del precedente Collocamento Obbligatorio.
A tutto questo si sono aggiunti quindici anni privi di una governance nazionale e regionale attenta e competente. Si sono pertanto sviluppati Uffici Provinciali di tipo “feudatario”, dove gli usi e costumi locali hanno preso il sopravvento rispetto alle norme in materia; si sono inoltre sviluppate procedure che variano da Regione a Regione e da Provincia a Provincia, producendo un “sistema arlecchino” incomprensibile per le persone con disabilità, per le aziende e per i servizi territoriali.
Eppure, già nel Decreto Attuativo della Legge 68/99 (Decreto del Presidente della Repubblica-DPR 333 del 10 ottobre 2000) si raccomandava di «porre la necessaria attenzione al disomogeneo funzionamento degli essenziali e necessari servizi pubblici della Lg 68/99» nelle varie Province, dovuto anche «alla mancanza di servizi territoriali di inserimento lavorativo che dovrebbero essere realizzati da vari enti». Uffici che in solido con l’INL (Ispettorato Nazionale Lavoro) consentono un’evasione e un’elusione dagli obblighi superiore al 50%, stima, questa, non suffragata da dati certi, come tutto ciò che si riferisce al rapporto disabilità/lavoro, in quanto siamo ancora privi di una Banca Dati Nazionale e di un aggiornamento statistico in tempo reale (pure previsti dall’articolo 9, comma 6 bis della Legge 68/99, ma mai attuati).
Sappiamo però che gli avviamenti al lavoro sono circa 20-30.000 all’anno rispetto al milione degli iscritti, una percentuale tra le più basse d’Europa. E ora la pandemia non farà che aggravare ulteriormente la situazione.
Pertanto le persone con disabilità, soprattutto quelle più deboli (con invalidità superiore al 79%, disabilità psichica, intellettiva, sensoriale e i malati rari) stimati in quantità di circa il 70% del totale degli iscritti, saranno maggiormente esposti al rischio di disoccupazione permanente.
Tutti sono al corrente della situazione, ma nessuno sembra volere un cambiamento del sistema pubblico di collocamento. Ora si pensa a un potenziamento delle risorse economiche e del personale incaricato, ma lo Stato è in forte ritardo e si avvale di consiglieri impreparati e non in grado di fornire un contributo innovativo, concreto ed efficace. Ne consegue che nel prossimo futuro, nella migliore delle ipotesi avremo il rafforzamento dello status quo. Si pensa infatti, attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, di versare un fiume di risorse economiche, di incrementare il numero del personale dedicato, e di varare le obsolete e inutili Linee Guida previste dal Decreto Legislativo 151 del 2015. Se così fosse, saranno sufficienti due anni per constatare l’inefficacia di queste scelte. Del resto non si può avere un cambiamento offrendo unicamente più risorse a chi ci ha portato al fallimento del sistema pubblico di collocamento. Se non vogliamo pertanto mancare l’appuntamento con un’occasione storica e non deludere le aspettative di un milione di famiglie, serve la riforma del Collocamento dei Disabili, la revisione della Legge 68/99 e un approccio culturale veramente inclusivo.
A questo link sono disponibili gli emendamenti presentati da ANDEL alla Legge Delega sulla Disabilità.