Le riflessioni sull’interdipendenza della cura e sulla relazione che intercorre tra i/le caregiver e le persone con disabilità, pubblicate su queste stesse pagine a firma di chi scrive, hanno suscitato un confronto pubblico sui temi considerati al quale hanno preso parte, con due distinti interventi l’Associazione Gilo Care (L’interdipendenza tra caregiver e assistito: un modello in continua evoluzione) e Giorgio Genta, un “vecchio caregiver”, come egli stesso si definisce (Per i caregiver dei “gravissimi” c’è solo la vita dipendente e a casa nostra). Ringrazio entrambi per l’attenzione e per le sollecitazioni proposte, e torno a riflettere su alcuni aspetti nodali.
In particolare mi sembra che nessuno dei due interlocutori abbia affrontato in modo specifico i temi principali che la mia riflessione intendeva focalizzare, vale a dire proporre un modello capace di superare l’impostazione familistica del lavoro di cura, porre a tema l’ingiustizia sociale che scaturisce dalla rigida divisione dei ruoli tra donne e uomini – la quale tende ad attribuire alle prime e in modo sproporzionato ogni responsabilità di cura -, e inquadrare il tema del caregiving nella più ampia “Rivoluzione della cura” proposta in Italia dall’Assemblea della Magnolia, che, a propria volta, si è ispirata alle elaborazioni espresse nel Manifesto della cura (Edizioni Alegre, 2021) dal Care Collective, un collettivo londinese (si veda, in proposito, un mio approfondimento).
Entrando ancor più nel dettaglio, l’Associazione Gilo Care legge la relazione tra i/le caregiver e le persone con disabilità attraverso il sistema NUBAC (Nucleo Base di Assistenza e Cura) proposto da Gianandrea Mossetto, responsabile umanistico scientifico della loro Associazione.
Nel testo il NUBAC è descritto in questo modo: «Si tratta di un vero e proprio sistema relazionale integrato, osmotico, simbiotico e biunivoco. È un modello vivo, variabile, in continua evoluzione, mai uguale a se stesso, differente nella specificità da un caso a un altro, ma certamente essenziale al funzionamento e al successo della “cura”: per questo tanto più le parti ne sono consapevoli, tanto maggiore è l’attenzione che ad esso riservano e tanto migliore sarà il caregiving che ne deriverà, il quale risulterà meno “subìto” e in balìa degli eventi».
Non è chiaro in quale modo questo sistema dovrebbe portare a superare l’impostazione familistica del lavoro di cura, né se l’Associazione ritenga che tale impostazione debba essere superata. La circostanza che il modello sia definito «osmotico, simbiotico e biunivoco» mi fa pensare ad un sistema chiuso, ossia qualcosa di diametralmente opposto a ciò che intendevo proporre col mio scritto. Non sono espresse considerazioni sulla rigida “genderizzazione” dei ruoli di cura, e quando si parla di interdipendenza sembra che essa sia riferita alla sola relazione tra il/la caregiver e la persona con disabilità, e non, come ritengo, che si tratti di un aspetto che ci connota come esseri umani, una caratteristica attraverso la quale risignificare il lavoro di cura nel suo complesso e costruire nuove pratiche di democrazia.
Ho letto poi con estrema attenzione anche le parole – amare – di Giorgio Genta, persona di cui ho grande stima, oltre che per quello cha fa, anche per la prontezza e la pazienza con cui risponde alle mie suggestioni.
Genta si prende cura da oltre trent’anni della figlia Silvia, una donna con disabilità gravissima. Quando parla di disabilità gravissima, egli intende «quella delle persone così dipendenti dal lavoro di cura dei loro caregiver da non poter letteralmente sopravvivere senza il loro “lavoro”, neppure per poco tempo. Questa dipendenza assoluta e continua rende praticamente impossibile che il loro caregiver – o meglio, la loro caregiver – non sia un familiare stretto».
Genta sostiene che sia impossibile trovare persone in grado di sostituire professionalmente il/la caregiver, sia per un discorso economico, ma anche perché la semplice qualifica di infermiere/a professionale sarebbe insufficiente a gestire una complessità assistenziale la quale, per essere svolta in modo adeguato, richiederebbe le competenze di un/a rianimatore/trice. Egli ritiene che nessuna struttura pubblica – tipo le RSA (Residenze Sanitarie Assistite) – sarebbe «in grado di mantenere in vita un ospite di tale gravità». Nella sostanza Genta non si esprime sulla necessità od opportunità di superare l’impostazione familistica del lavoro di cura, e tuttavia, basandosi sulla propria esperienza, esclude che tale superamento possa applicarsi nei casi di persone con disabilità «veramente gravissima», senza che questo metta a repentaglio la vita stessa della persona con disabilità.
Rispetto alle questioni sollevate da Genta è opportuno fare alcune precisazioni. La prima è che ripensare il caregiving in una prospettiva che vada oltre la famiglia d’origine non significa deresponsabilizzare le famiglie, significa, caso mai, promuovere una cultura e un’etica della cura nella quale ogni soggetto si relazioni agli altri, partendo dalla consapevolezza di essere al contempo destinatario e prestatore di cure. La qual cosa non comporta minori responsabilità individuali e familiari, ma vorrebbe portare ad attivare maggiori responsabilità collettive, lavorando affinché anche altri soggetti, oltre ai familiari, possano contribuire alle cure. Soggetti con competenze adeguate alle diverse situazioni, non soggetti a caso.
Un altro aspetto da focalizzare è che superare il modello familistico del welfare non significa promuovere l’istituzionalizzazione o altre soluzioni segreganti, né tanto meno assecondare il processo di mercificazione della cura che è già in atto (per chi può permettersi di acquistarla). Ovviamente non sto proponendo niente di tutto questo.
Ma prima di considerare se sia possibile o meno pensare ad una risposta di assistenza diversa anche per le persone con disabilità gravissima, è necessario comprendere bene le criticità che presenta il modello familistico di welfare.
A tal proposito, possiamo iniziare con l’osservare che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09) attribuisce la tutela e la garanzia dei diritti umani delle persone con disabilità agli Stati, non alle famiglie, questo non perché disconosca il ruolo di queste ultime, ma perché i diritti umani non possono essere subordinati al fatto che la persona con disabilità abbia o meno una famiglia, né che quest’ultima sia o meno in condizioni di fornire alla persona in questione tutti i supporti necessari al pieno sviluppo della persona stessa e a condurre una vita dignitosa, soprattutto nei casi di disabilità gravissima presi in considerazione da Genta. I diritti umani vanno garantiti a tutti e a tutte, ogni individuo deve sentirsi responsabile e coinvolto in questo progetto e contribuirvi come può, mentre allo Stato spetta il compito di fornire strutture, servizi e risorse per evitare che ci siano buchi nel sistema e che nessuno e nessuna sia tagliato fuori.
Ciò premesso, è vero quello che dice Genta: allo stato attuale non ci sono reali alternative alla famiglia per una persona con disabilità gravissima, e ve ne sono poche anche per quelle con disabilità grave. Il problema però è che lo stesso Disegno di Legge A.S. n. 1461, contenente le Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare – attualmente fermo presso l’XI Commissione Lavoro del Senato –, continua a perpetuare la logica che a garantire i diritti della persona con disabilità debba essere in prima battuta la famiglia. Dunque questa proposta non sta creando un’alternativa reale alla famiglia, sta solo offrendo qualcosa che consenta alla stessa di reggere meglio, senza tuttavia incidere sulle criticità del sistema.
Ma quali sono le criticità del sistema? La mancanza di una reale alternativa alla famiglia impedisce alla persona con disabilità grave di scegliere se vuole o meno continuare a stare in famiglia anche in età adulta: se non vuole, che fa? E come non può scegliere la persona disabile, allo stesso modo non può farlo il suo familiare: se questi ritenesse di non potersi assumere tutte le responsabilità che ora gli/le vengono automaticamente attribuite, potrebbe sottrarsi ad alcune di esse senza mettere a repentaglio la vita della persona con disabilità, e senza subire la condanna morale propria e quella della società? Direi proprio di no. Provocatoriamente possiamo convenire che in Italia l’unico modo sicuro per una persona con disabilità grave di essere riconosciuta nella propria individualità e adultità sia quello di sterminare la propria famiglia d’origine. E, si badi bene, non necessariamente perché questa sia una cattiva famiglia (potrebbe anche essere la famiglia migliore del mondo), ma perché è normale, quando si cresce, aspirare ad andare via di casa, e magari formarsene una nuova, di famiglia, in coppia, o con altri “compagni/e di viaggio”. In mancanza di un’alternativa, stare in famiglia è un’imposizione che la nostra società si ostina a far subire alle persone con disabilità.
La stessa idea di libertà richiede che ci siano almeno due opzioni tra cui scegliere (e, ovviamente, se sono di più è anche meglio). Se l’opzione è una sola, possiamo aggiustarcela come ci pare, ma la libertà non c’è.
Oltre a questo, mi occupo da diversi anni di violenza nei confronti delle persone con disabilità – e in particolare delle donne – e ho ben presente che molte delle violenze che esse subiscono avvengono proprio in famiglia; dunque anche solo questo dettaglio dovrebbe indurci a comprendere che la famiglia non è sempre esattamente come quella rappresentata nella pubblicità “Mulino Bianco”.
Pertanto, se è vero che, come dicevamo, allo stato attuale non ci sono reali alternative alla famiglia per una persona con disabilità grave o gravissima, le alternative vanno costruite iniziando a demolire il mito che la famiglia sia la risposta migliore; infatti, non è necessariamente la risposta migliore, è, più banalmente, l’unica risposta.
Per farlo è necessario che i/le caregiver per primi/e inizino a considerarsi dispensabili e sostituibili, lavorando perché anche altri e altre entrino gradualmente nel circuito della cura, imparando a creare le condizioni per affidare a terzi parte delle proprie responsabilità.
Traduzione: non è che si cedano responsabilità di cura a chiunque, solo che invece di partire dall’idea che il/la caregiver sia insostituibile, si parte dal principio che la famiglia non deve mai essere la sola datrice di cura, e che altri soggetti competenti la devono affiancare creando i presupposti per una progressiva emaciazione della persona con disabilità.
Le famiglie di persone con disabilità grave e gravissima sono pronte a fare questo? La mia impressione è che lo siano meno di quanto sono disposte ad ammettere. Il già citato Disegno di Legge sui/sulle caregiver familiari e la cosiddetta “Legge sul Durante e Dopo di Noi” (la Legge 112/16) non ci raccontano di famiglie che dicono: «Caro Stato, è ora che tu faccia la tua parte assumendo la regia della cura universale e promuovendo una redistribuzione egualitaria dei ruoli di cura», piuttosto sembrano dire: «Caro Stato, aiutaci a non soccombere, rendendo più vivibile la nostra situazione, noi ci siamo, e finché ci siamo va bene così». Non sembra l’atteggiamento di chi un’alternativa alla famiglia la vuole davvero, sembra quello di chi si rende conto che le famiglie non sono eterne.
A ciò si aggiunga che c’è una questione legata al genere femminile che viene sistematicamente elusa e che continua a produrre iniquità. Certo, le Leggi non le scrivono i comuni cittadini/e né le associazioni, dunque non si può attribuire loro una responsabilità diretta dei loro contenuti, e tuttavia le proposte che provengono dal basso in genere non si spingono sino a mettere in discussione il sistema.
Ad esempio, nei giorni scorsi si è concluso il progetto dell’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) denominato Liberi di scegliere… dove e con chi vivere, che sembrerebbe voler correggere alcuni elementi della “Legge sul Durante e Dopo di Noi” focalizzandosi sugli aspetti dell’autonomia abitativa delle persone con disabilità intellettiva, ma lo fa senza prendere le distanze dal “Dopo” del “Durante e Dopo di Noi”. Ne vedremo in ogni caso gli sviluppi.
Al momento, all’interno dell’associazionismo delle persone con disabilità, la posizione più esplicitamente critica sull’impostazione familistica dell’assistenza è espressa dai movimenti per la Vita Indipendente (con le iniziali maiuscole) delle persone con gravi disabilità, ma con qualche limite. Penso ad esempio sia un limite non avere inquadrato la loro riflessione nell’àmbito di una complessiva revisione di tutto il lavoro di cura; infatti, sembra quasi che l’assistenza alle persone con disabilità grave costituisca un caso a sé, Ed è un limite anche il fatto che non ci sia, almeno qui in Italia, particolare attenzione agli aspetti delle disuguaglianze di genere, che rimangono sostanzialmente inalterate. Inoltre, tali movimenti, essendosi sviluppati come reazione all’abilismo imperante, hanno difficoltà ad emanciparsi dalla dicotomia abile/disabile che invece il sopracitato modello del Care Collective si propone di superare (ponendosi in linea, sotto questo profilo, con l’impostazione universalistica dell’ICF – Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). Infine, se le teorizzazioni sull’assistenza personale autogestita sono eccellenti, sembrano invece un po’ deboli quelle proposte per i casi in cui questa via, per motivi diversi, non è praticabile.
Riprendendo il filo del discorso, ritengo che mettere in discussione il welfare familistico sia proprio quello che bisognerebbe fare. Se poi ci sono persone con disabilità che vogliono continuare a vivere nella famiglia di origine anche da adulte, questa è certamente una scelta rispettabile, ma, lo ribadisco, deve trattarsi di una scelta, e non dell’unica opzione sul piatto.
Quando dico queste cose, alcuni/e caregiver si sentono attaccati, sembra che io non riconosca il loro lavoro, che sminuisca le loro fatiche e le loro difficoltà, che non colga l’importanza e il valore (inestimabile) delle cure familiari. Posso assicurare che non è così. Non è questo il senso delle mie osservazioni. Le mie critiche non sono rivolte alle persone, ma ad un sistema che, nell’esaltare l’autonomia e l’indipendenza individuale, ha finito col rimuovere la vulnerabilità e la fragilità umana, facendoci credere che il bisogno di cura sia una debolezza che riguarda solo alcune persone. Si tratta dello stesso sistema che svaluta il lavoro di cura e lo considera un’attività improduttiva da delegare alle donne, ingabbiando sia queste che le persone con disabilità.
Quello che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura. Il Manifesto della cura del collettivo londinese propone un’idea di cura reciproca, universale, “indiscriminata” (che non discrimina), democratica, non paternalista, né assistenzialista. Potrebbe sembrare un’utopia, se non fosse che qualche esperienza simile è già stata realizzata. Ma pur non essendo un’utopia, potrebbe non avverarsi mai su larga scala, se ci ostiniamo a considerare la cura come una faccenda privata, familiare e femminile. Non è privata, non è (solo) familiare, e non è (solo) femminile.