Ho letto con molto interesse la lunga riflessione di Simona Lancioni pubblicata su queste pagine [“Caregiver e persone con disabilità: cogliere l’interdipendenza della cura”, N.d.R.] e la ringrazio per avere acceso i riflettori su un argomento che mi è molto caro e non da un punto di vista meramente “scientifico” o “di studio”, ma proprio perché io sono una caregiver familiare, è la mia vita e il mio lavoro da ormai ben sedici anni. Inoltre, sono anche attivista per i diritti del caregiver familiare e quindi con molto piacere vorrei contribuire al dibattito, grazie alle pagine di questa testata giornalistica, l’unica che permette questa utile e intelligente pratica.
«Negli ultimi anni in Italia – scrive Simona Lancioni – si parla molto di più della figura del caregiver, la persona che presta assistenza in modo globale, continuo e gratuito ad un familiare non autosufficiente a causa di una disabilità o di patologie/situazioni legate a specifiche patologie o all’invecchiamento». In realtà non penso che se ne parli di più: i quotidiani non ne parlano, nei programmi televisivi non se ne parla e posso assicurare che se si contatta una redazione, si chiama direttamente un giornalista o si invia, più banalmente, un comunicato, nessuno risponde. Se poi si ha la ventura di conoscere di persona qualcuno e di sottoporre l’argomento, la risposta più educata che arriva è che «l’argomento caregiver familiare non interessa». Su questo posso produrre innumerevoli e-mail, messaggi e whatsapp a “certificare” le mie affermazioni.
Per quanto poi concerne il Disegno di Legge A.S n. 1461 (Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare) giacente al Senato,, gli ultimi lavori che lo riguardano risalgono al 22 luglio 2020, termine ultimo per l’invio degli emendamenti. Quel testo, per come lo conosciamo, non prevede però nessuna tutela minima perché manca sostanzialmente dell’unico, fondamentale, imprescindibile, requisito da cui a parere di chi scrive si deve partire, per elaborare una legge davvero utile ed efficace, ovvero chi è il caregiver in Italia. La definizione giuridica, infatti, non basta, il Legislatore deve avere ben chiaro chi è nella vita reale il caregiver familiare e quindi quanti caregiver familiari esistono. Il dato statistico non esiste e, nonostante i solleciti, nessuno ha inteso procurarselo, chissà come mai. Purtroppo moltissimi erroneamente identificano il caregiver familiare nella persona adulta che, di colpo, si trova ad assistere il genitore anziano, ormai minato dalle condizioni/malattie della terza età. Cioè una condizione di default, perché tutti abbiamo genitori che invecchiano e si ammalano. Di conseguenza il Disegno di Legge è stato cucito – checché ne abbiano detto tutti – sui caregiver di persone anziane. E gli altri caregiver?
E ancora, se si fossero «moltiplicati gli studi sul caregiving familiare», come scrive Lancioni, avremmo tantissimi convegni e da questi si originerebbero appunto altre occasioni. Allora sì che la tematica avrebbe dominio pubblico; in realtà, in questi quasi ventiquattro mesi sono usciti alcuni lavori fatti su questionari che rilevano quanto la pandemia abbia peggiorato la condizione dei caregiver, ma ci chiediamo: se non ci fosse stata la pandemia, a qualcuno sarebbe venuto in mente di chiedere qualcosa ai caregiver familiari, che vivono una condizione d’emergenza sempre?
Lancioni scrive poi di «gruppi specifici di caregiver impegnati nel rivendicarne una tutela giuridica». In realtà nel nostro Paese esistono non “alcuni” ma due soli gruppi specifici impegnati su questo e a tal proposito duole e fa riflettere che in tutto quell’articolo non venga citata l’unica Associazione regolarmente registrata – la nostra – e non quindi un gruppo spontaneo, che dal 2013 si batte per il riconoscimento del caregiver familiare in Italia e che anzi ha impostato tutta una campagna per il riconoscimento di questa figura come lavoratore. E lì sì che parliamo di tutele di concrete come la malattia, le ferie, lo stipendio e quindi la pensione, e non di “pannicelli caldi” come tre anni di contributi figurativi o lo sconto in bolletta!
Se stiamo poi ancora oggi, in Italia, a parlare della sovrapposizione delle due figure (assistito e assistente), allora temo che siamo davvero messi male. Uno dei punti, infatti, sui quali insistiamo da sempre come Associazione è proprio la complementarietà del lavoro di caregiver con la Legge 162/98, e cioè con la cosiddetta vita indipendente che, se fosse applicata a dovere e quindi finanziata decorosamente, solleverebbe davvero noi familiari assistenti, perché i nostri cari avrebbero la possibilità di starsene qualche ora ogni giorno lontano da noi, sviluppando, ognuno in base alle proprie possibilità, l’autonomia, finalmente!
Per tutto il resto della riflessione di Lancioni (che poi prende velocità e decolla per sparire all’orizzonte: chiedo scusa, io non riesco più a seguire, ma è probabilmente un mio limite), dico solo che forse è inutile e spesso nocivo fare letteratura e scienza su questo argomento: si tratta della vita e della condizione delle persone, di qualche milione di persone in Italia. Solo chi la vive sa. E chi non sa e deve scrivere una legge ha il dovere di ascoltare i diretti interessati.
Veniamo quindi a un discorso che ritengo serio e importante, quale quello della rappresentatività delle categorie in Italia: non è possibile che alle audizioni siano ammessi rappresentanti che non siano caregiver familiari (quelli veri, intendo) o che non abbiano esperienza di questa realtà.
Lo abbiamo visto alle audizioni per la Legge Delega sulla Disabilità: si deve normare una cosa delicata come la vita indipendente appunto o l’inserimento lavorativo e non si di dà udienza a tutte le Associazioni di persone con disabilità e/o dei familiari? Dove sono i giovani con disabilità che magari stanno faticosamente (date le condizioni offerte) studiando all’università o in possesso già di laurea, che ci raccontano la loro vita, offrendo spunti concreti al Legislatore? Dove sono i genitori che ci dicono com’è la vita di questi giovani che magari non riescono nemmeno ad uscire di casa, non solo per le barriere architettoniche, ma anche per la mancanza del requisito essenziale della socialità umana e cioè almeno un/a amico/a? E questa è una criticità culturale e sociale! Per tacere delle discriminazioni che patiscono quando si affacciano al mondo del lavoro.
Così come è inconcepibile che negli Osservatori sulle Condizioni delle Persone con Disabilità o su quelli per la Scuola, non siano comprese queste categorie, così come dicasi per gli altri livelli amministrativi (Regioni, Province Comuni).
E da ultima ma non ultima, un’ulteriore importante considerazione: riconoscere il caregiver familiare come lavoratore nulla toglie a tutto il resto. Non abbiamo in Italia un apparato e una capacità finanziaria tali per dare ricovero e personale assistente a tutte le persone in stato di non autosufficienza (ossia tutte quelle persone che da sole non riescono a fare nulla e quindi non solo gli anziani, non fatemi fare l’elenco…). Riconoscere il caregiver familiare è innanzitutto una questione etica, perchè lo sfruttamento è un reato. Sostenere la tesi del lavoro volontario scelto per “amore”, inoltre, è un ragionamento ipocrita, fatto da chi non è mai stato costretto a fare questa scelta, da chi ha un lavoro che gli rende uno stipendio e può sopperire alle lacune istituzionali e pagarsi terapie e sostituti.
Riconoscere che ci sono persone che dedicano la loro vita all’assistenza di un familiare significa rafforzare il welfare del Paese, organizzando per bene i servizi senza sprechi.
Rivolgo dunque un invito a quanti ne hanno la possibilità, la forza e la competenza: organizzate convegni, seminari, scrivete ai giornali, facciamo decollare veramente il dibattito sull’argomento, ma al di fuori dei circuiti degli addetti al settore! Tutti ne trarranno giovamento perché il caregiving familiare impatta su molteplici settori, tutti complementari. E l’impatto è anche sull’economia del Paese: pensiamo ad esempio agli ausili necessari al lavoro di cura (se i caregiver fossero affiancati e formati, scoprirebbero una marea di ausili che ne snellirebbero il carico assistenziale), ma anche alla domotica, all’abbattere le barriere nelle case o nei luoghi, per permettere alle persone di circolare. Se poi io, caregiver familiare, ho bisogno di un sostituto, significa che qualcun altro lavora e percepisce uno stipendio oltre a me. Se io ho potere d’acquisto, posso a mia volta pagare un servizio o pagarmi uno sfizio, come ad esempio quello del parrucchiere che per molte donne caregiver è qualcosa cui si rinuncia.
Mi permetto, per chiudere, di segnalare (a questo link) un questionario da noi lanciato, che serve a fotografare con precisione il fenomeno e i suoi protagonisti: aiutateci a ottenere il maggior numero di risposte possibili. Ormai siamo sulle 3.000, ma se da una parte sono moltissime rispetto al campione standard dei questionari, effettuati magari dalle università o dagli istituti di ricerca, dall’altra parte sono poche in relazione ai milioni di caregiver familiari italiani esistenti.
I risultati di questo questionario vengono costantemente forniti a politici, giornalisti, studiosi e crediamo siano davvero utili, per tutti.