Nel suo secondo intervento pubblicato da «Superando.it» e dedicato al lavoro di cura [“Ma quel che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura”, N.d.R.], Simona Lancioni ha ribadito la necessità di un cambiamento nella cultura della cura. Su questa necessità siamo certamente d’accordo: come Associazione [Gilo Care, N.d.R.], tre anni fa, abbiamo portato avanti un progetto insieme al Consiglio Regionale del Piemonte e alle otto Circoscrizioni di Torino, per sensibilizzare proprio su questo specifico argomento.
Questo detto, riteniamo necessarie alcune precisazioni.
Nella nostra precedente riflessione [“L’interdipendenza tra caregiver e assistito: un modello in continua evoluzione”, N.d.R.] ci eravamo soffermati su un punto specifico: l’interdipendenza tra persona assistita e caregiver familiare. Ne avevamo messo in luce la natura e i meccanismi particolari, nonché le potenzialità spesso non colte. Senza voler con questo dire che “la cura” si esprimesse e si esaurisse in essa. Desideriamo quindi chiarire che il “sistema base di cura” che i due soggetti possono venire a costituire (quello che noi chiamiamo NUBAC (Nucleo Base di Assistenza e Cura), e di cui confermiamo le caratteristiche che abbiamo indicato, non è affatto un sistema chiuso, né autoreferenziale, né esclusivo. All’opposto ribadiamo che le dinamiche “virtuose” di esso possono portare all’apertura della relazione verso gli altri, sia da un punto di vista personale che da un punto di vista operativo e sociale.
Noi non siamo assolutamente per un “sistema familistico” della cura. Non abbiamo alcuna visione di una famiglia “modello Mulino Bianco”. Tutt’altro. Sappiamo benissimo che è necessaria una radicale trasformazione del concetto stesso di cura e anche di quello di assistenza, se è per questo. Bisogna però avere il coraggio di dirlo con chiarezza: nei fatti – e purtroppo – il sistema italiano è familistico: anzi ultrafamilistico, iperfamilistico, quasi esclusivamente familistico. Non basta denunciarlo. Di questo occorre tenere conto in modo pragmatico, e quindi partire da lì, per ogni auspicabile riforma. Perché, per modificarlo, occorre un cambiamento radicale: prima di mentalità e cultura, poi politico e sociale, e infine operativo, con un generale processo di riforme strutturali nel sistema pubblico di assistenza e cura. Il che, tradotto, significa tempo, risorse e volontà politica. Tradotto ulteriormente: campa cavallo! Nel frattempo, volente o nolente, magari più nolente che volente, la famiglia (completa di caregiver e di assistiti) resta nei fatti il soggetto unico posizionato al fronte. Constatare questo non è fare una barricata a difesa di chissà quali posizioni di preminenza della famiglia caregiver, è semplicemente essere realisti.
E ancora. Simona Lancioni scrive: «[…] è necessario che i/le caregiver per primi/e inizino a considerarsi dispensabili e sostituibili, lavorando perché anche altri e altre entrino gradualmente nel circuito della cura, imparando a creare le condizioni per affidare a terzi parte delle proprie responsabilità». Perfetto! Ora: perché io mi ritenga sostituibile e dispensabile (cosa che sarei del tutto incline a fare già di mio), occorre necessariamente che io sappia chi mi dispensa e mi sostituisce e quando, cosa, come lo fa. Occorre sapere chi sono gli altri e le altre che entrano nel circuito della cura, perché solo così potrò creare le condizioni per affidare a questi indefiniti essi parte delle mie responsabilità, che sarei ben felice di delegare, sempre che la persona che assisto (giustamente assai attenta all’argomento) ne sia convinta prima di me. Io non ho difficoltà a “lavorare”, in aggiunta alla mole di lavoro che già faccio, per «imparare a creare le condizioni» della delega ad altri. Sono colpito dal fatto che non si faccia cenno al lavoro che questi altri (genericamente intesi) dovrebbero in parallelo fare per «imparare a creare le condizioni» che li rendano in grado di essere miei delegati. Cosa che, incomprensibilmente, viene data per scontata, quando invece non lo è mai: parte della nostra attività di Associazione, infatti, consiste proprio nell’affiancare operatori sanitari, sociali e di ogni genere che si avvicinano a situazioni di caregiving e assistenza completamente digiuni di esperienza pratica di quello che devono andare a fare.
Leggiamo inoltre di «delegare parte delle responsabilità», leggiamo che «non si vuole» la deresponsabilizzazione della famiglia, che «non si vuole» la mercificazione della cura, che «non si vuole» l’istituzionalizzazione. A maggior ragione, bisognerebbe capire con precisione operativa che cosa, in concreto, si vuole.
Ammettiamo pure che si arrivi, a livello di decisione compartecipata, a un sistema in cui il “responsabile” della cura debba essere lo Stato. Ottimo. Solo che si apre una prateria di problemi.
Sintetizzando: in quale modo lo Stato giunge ed opera, direttamente e/o indirettamente, agendo, coordinando, garantendo? Certamente, anche in questo caso, non c’è una sola opzione, ma molte diverse, su cui si dovrà dibattere e scegliere. Finché la cosa non è stata per nulla dettagliata, il principio «Caro Stato, è ora che tu faccia la tua parte assumendo la regia della cura universale e promuovendo una redistribuzione egualitaria dei ruoli di cura» non significa, in pratica, granché.
Come già detto, non abbiamo una visione “da Mulino Bianco” della famiglia, figurarsi se possiamo avercela dello “Stato”, così genericamente indicato.
Quando ci si trova di fronte a una situazione di “non autosufficienza”, ferme restando le prerogative e il diritto all’autonomia e alla libertà di scelta delle persone che la vivono, e le prerogative e il diritto all’autonomia e alla libertà di scelta del familiare direttamente coinvolto “a latere”, diventa imprescindibile sapere in quale modalità concrete si declineranno la presenza, l’operatività, la quotidianità e i diritti garantiti dallo “Stato”. Parlarne in astratto è un valido esercizio di studio, ma con scarse applicazioni pratiche.
Un’ultima precisazione: non esiste un caregiving familiare solo. Parlare di «autonomia dalle famiglie di origine» o di «un assistito quando diventa adulto» ha senso – eccome se ce l’ha – in determinate situazioni: per esempio nel caso di caregiver di minori o, in certi casi di caregiving esercitato da genitori di figli adulti. Perde invece di senso nei casi in cui il caregiving è esercitato proprio all’interno di quella famiglia che il soggetto ha voluto, costruito e pensato «perché è normale, quando si cresce, aspirare ad andare via di casa, e formarsene una nuova, di famiglia, in coppia, o con altri “compagni/e di viaggio». In questo caso il problema non è quello di sganciarsi dalla famiglia, perché molto spesso la persona che perde autosufficienza e il suo caregiver e magari i loro figli sono quella famiglia, e quindi la questione si rovescia: come consentire alla famiglia, investita suo malgrado dallo tsunami del caregiving, di poter continuare ad essere nel miglior modo possibile e al meglio delle possibilità la propria “nuova famiglia” che si è voluta costruire?
Sulla questione gender, infine, non abbiamo nulla da obiettare. Che la stragrande maggior parte delle persone coinvolte nel caregiving familiare, per giunta esclusivo, sia donna, è evidente e conclamato, e porta con sé la questione che Lancioni bene individua. Giusto precisare, però, che questo non significa che non ci sia una quantità di caregiver maschi i quali, al pari delle loro colleghe, hanno rinunciato a molte cose, per il loro caregiving, ossia al lavoro, all’autonomia economica e a quella personale normalmente intesa.
Chi scrive è uno di quelli e troppo spesso ho dovuto ascoltare personalmente, nelle “generalizzazioni da bar”, che «i mariti scappano come lepri quando c’è una moglie da guardare».
Ancora una volta, voler separare bene e male con l’ accetta, con un colpo secco, di qua le scelte buone di là quelle cattive, può sembrare molto bello, può essere intellettualmente gratificante, ma rischia di restare nel teorico puro.