Mi fa piacere che il confronto iniziato con quella mia prima riflessione sull’interdipendenza della cura e sulla relazione che intercorre tra i/le caregiver e le persone con disabilità, e proseguito con gli interventi di Gilo Care e Giorgio Genta (ai quali ho già replicato su queste stesse pagine), si sia arricchito di ulteriori contributi: quelli più critici riguardo alle mie argomentazioni di Alessandra Corradi, presidente dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti [successivamente alla stesura del presente contributo di Lancioni, ne abbiamo pubblicato un altro di Corradi, N.d.,R.] e di Lorenzo Cuffini, sempre dell’Associazione Gilo Care, e quelli più in sintonia con le mie posizioni di Salvatore Nocera che, da avvocato, ha proposto un’apprezzabile riflessione di taglio giuridico, e di Luigi Vittorio Berliri, presidente dell’Associazione Casa al Plurale e della Cooperativa Sociale Spes contra spem di Roma il quale, invece, ha riflettuto sulla relazione tra la persona con disabilità e l’operatore sociale, invitando quest’ultimo ad allargare il proprio sguardo.
Un dibattito quanto mai importante se si considera che l’assistenza alle persone con disabilità grave e gravissima è sia un diritto in sé, sia il prerequisito per il godimento degli altri diritti umani sanciti dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. In questo ulteriore testo vorrei soffermarmi su alcuni rilievi critici avanzati da Corradi e Cuffini.
Corradi contesta la mia affermazione che di caregiver si parli di più negli ultimi anni. Io però ricordo che quando nel 2017 organizzai un seminario sul riconoscimento del caregiver familiare, le persone comuni non sapevano neppure cosa fosse questa figura e ogni volta mi ritrovavo a doverlo spiegare; oggi, invece, è meno frequente che non l’abbiano mai sentita nominare.
Corradi mette quindi in discussione che gli studi sui caregiver familiari si siano moltiplicati, ma in realtà è così e il fatto che alcuni di essi siano scaturiti in relazione alla pandemia di Covid-19, non ne sminuisce il valore. Questo, ad esempio, è quello promosso da Eurocarers (Associazione europea a supporto dei caregiver); quest’altro è stato promosso dal CONFAD (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità); questa è una ricerca condotta dall’ARS (Associazione per la Ricerca Sociale), assieme ad altri soggetti; questo, inoltre, è una sorta di diario tenuto dal Gruppo Solidarietà (in provincia di Ancona) degli incontri e dei contatti con le famiglie di persone con disabilità afferenti al loro Gruppo di Auto Mutuo Aiuto nel periodo marzo-giugno 2020.
E ancora, il caregiving è stato trattato anche nell’ambito di Diritti umani in emergenza, un ciclo di seminari online organizzati nel 2020 dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara (dai quali è scaturita una pubblicazione), mentre questa è una campagna online rivolta ai e alle caregiver da Cittadinanzattiva Emilia-Romagna; diverse iniziative sono state poi organizzate dal gruppo Caregiver Familiari Comma 255 (che ha proposto anche un proprio Manifesto), e anche, certo, dall’Associazione di Corradi, di cui ho dato notizia io stessa nel sito del Centro Informare un’h di cui sono responsabile. Potrei continuare, ma mi chiedo: tutto questo è sufficiente? Direi di no, ma mi sembra un fatto oggettivo che se ne parli di più.
Per quanto poi riguarda il Disegno di Legge AS 1461 (Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare), giacente al Senato, Corradi contesta la mia affermazione che esso contenga qualche tutela minima. Ebbene, anche questa contestazione a mio parere non è corretta. L’articolo 5, ad esempio, prevede il riconoscimento al caregiver familiare della copertura a carico dello Stato, limitatamente a tre anni, dei contributi figurativi riferiti al periodo di lavoro di assistenza e cura effettivamente svolto, equiparati a quelli da lavoro domestico, che vanno a sommarsi ai contributi da lavoro eventualmente già versati. Posso convenire che la misura sia decisamente inadeguata, ma non posso affermare che non ci sia. Sono invece d’accordo sul fatto che la sola definizione giuridica non sia sufficiente a descrivere i/le caregiver, che ci sia carenza di dati statistici sul caregiving, e che la promozione dei progetti di Vita Indipendente delle persone con grave disabilità sia complementare al lavoro di cura del/la caregiver e promuova l’autonomia di entrambi i soggetti coinvolti nella relazione.
Mi dispiace che Corradi abbia avuto difficoltà a seguire gli altri aspetti sviluppati nei miei testi, e parli di un «inutile e spesso nocivo fare letteratura e scienza su questo argomento». Io non faccio letteratura, sono stata la compagna di vita di una persona non autosufficiente per quasi 28 anni, di cui 15 di convivenza, e sono stata la sua caregiver sino a quando, pochi mesi fa, le Parche non hanno deciso diversamente.
Ho sempre avuto un po’ di pudore a definirmi caregiver perché non era certo questo il tratto distintivo del nostro rapporto, ma quando non lo faccio, c’è sempre qualcuna o qualcuno che prova a delegittimare le mie argomentazioni accusandomi di «fare letteratura» o «esercizi di studio». Comprendo che chi mette in discussione il sistema di cura familistico risulti disturbante per chi lo ha interiorizzato, ma temo che per silenziarmi ci si dovrà inventare qualcos’altro.
Mi occupo di caregiving da tanto tempo e continuo a farlo ora perché il tema della cura mi interroga come essere umano prima ancora che come caregiver. Ritengo che la questione del caregiving vada inquadrata nell’àmbito della più ampia riflessione sulla riproduzione sociale, e anche che molti mali dell’attuale sistema dipendano dall’impostazione familistica del welfare, per questo mi sono massa a caccia di modelli che la superino.
Tra le cose che ho letto, quella che mi coinvolge di più è stata sviluppata dal Care Collective nel Manifesto della cura (Edizioni Alegre, 2021), ed è per questo che vi faccio riferimento. Non è letteratura, è vita, o, come a me piace dire, manutenzione della vita. Per comprendere meglio bisognerebbe leggerlo, non si può contestare una proposta senza conoscerla. Dopo averlo letto, forse Corradi potrà continuare a dire che è letteratura ed argomentare in merito, ma come fa a dirlo prima di averlo letto?
Vorrei ora rispondere alle critiche espresse da Lorenzo Cuffini. Egli riconosce che «nei fatti – e purtroppo – il sistema italiano è familistico: anzi ultrafamilistico, iperfamilistico, quasi esclusivamente familistico. Non basta denunciarlo. Di questo occorre tenere conto in modo pragmatico, e quindi partire da lì, per ogni auspicabile riforma». Tuttavia, pur affermando che l’Associazione di cui fa parte – mai sia – il welfare familistico proprio non lo vuole, in realtà il loro Manifesto per i caregiver familiari (del 2018 e rilanciato due anni dopo) ne è una celebrazione. In esso, infatti, si riflette sul fatto che gli orientamenti sempre più marcati verso l’assistenza domiciliare renderanno «maggiormente determinante [il ruolo del caregiver, N.d.R.], fino a diventare insostituibile per il funzionamento della complessa rete di rapporti di cura, di terapie e di assistenza costruito intorno alla persona presa in carico dal sistema, ma mantenuta in casa». Pertanto cosa propongono? «La nostra attività, dunque, non va “sostenuta” con il capitolo dei sussidi alle fasce deboli, ma va riconosciuta contrattualmente, regolarizzata, normata e retribuita come qualsiasi altra attività lavorativa. Ad essa vanno riconosciuti i diritti base di tutti gli altri lavoratori: retribuzione, contribuzione, normativa previdenziale e antinfortunistica. Con l’avvertenza che si tratta di lavoro usurante, e con gli opportuni accorgimenti da intraprendersi a tutela della specifica situazione (punto 9)». Loro non hanno «timore di questa crescente responsabilizzazione di fatto, né dei volumi di lavoro e di stress aggiuntivi che ne potranno derivare», si legge nel punto 7, fornendo un meraviglioso appiglio per rinchiudere in casa a doppia mandata sia il/la caregiver che la persona con disabilità.
Oggettivamente è difficile trovare qualcosa di più familistico di questo Manifesto. Infatti, come ha ben spiegato Nocera nel suo intervento, la remunerazione del caregiver «rischierebbe di essere la consacrazione dell’esclusione delle donne-caregiver dal mondo del lavoro e da una vita propria, facendole regredire ai livelli sociali dell’anteguerra, con un arretramento pauroso delle conquiste realizzate in tanti decenni di lotta dal femminismo».
Nel contributo pubblicato su queste stesse pagine, Cuffini riconosce che la maggioranza dei caregiver sono donne, dunque ammette che c’è una questione di genere, ma poi la derubrica a «generalizzazioni da bar», come a dire, «io sono uomo e sono un caregiver, dunque passiamo oltre, se c’è qualche caregiver uomo la questione è superata». E qui sbaglia, perché la questione non è per niente superata. Infatti, nel 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, nelle sue Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della citata Convenzione ONU, ha rivolto un ammonimento al nostro Paese perché ha notato «con preoccupazione le conseguenze generate delle attuali politiche, ove le donne sono “costrette” a restare in famiglia per accudire i propri familiari con disabilità, invece che essere impiegate nel mercato del lavoro» (punto 47, grassetti miei in questa e nelle successive citazioni).
Allora le domande sono: ritiene Cuffini, ma anche Corradi (che è sulla stessa linea), che per fare uscire le donne di casa la soluzione sia pagarle per stare in casa? E ancora: chi lavora così alacremente per proclamarsi insostituibile, quali argini ha predisposto se dovesse diventare improvvisamente indisponibile? Infatti, non possiamo proteggere le persone con disabilità dal senso di devastazione che suscita la perdita (non possiamo proteggere neppure noi stessi, se è per questo, figurarsi qualcun’altro/a), ma distribuendo le responsabilità, potremmo almeno evitare loro che si trovino di punto in bianco scoperti di tutta l’assistenza.
Nei testi di Cuffini e Corradi non trovo niente a riguardo. Come pensano che andrebbe gestito questo aspetto? E da ultimo, ma non per importanza: l’idea di remunerare i familiari non rischia di snaturare i rapporti tra le persone coinvolte? Non è un caso se gli/le attivisti/e dei movimenti per la Vita Indipendente sconsiglino caldamente di assumere amici e parenti come assistenti personali.
Vediamo qualche dato per comprendere meglio gli aspetti del genere. Nel presentare lo studio pilota del 2020 Differenze di genere e salute nei Caregiver familiari, l’Istituto Superiore di Sanità ha scritto: «In Italia non si ha un dato ufficiale sul loro numero [dei caregiver, N.d.R.], ma un’indagine multiscopo su campione dell’ISTAT nel 2011, ha riportato una percentuale pari a circa l’8% della popolazione nazionale. Così come nel resto del mondo, anche in Italia è la donna la principale CG [caregiver, N.d.R.] familiare (fino a circa il 75% del totale). Di solito sono donne di età compresa tra 45 e 64 anni, che spesso svolgono anche un lavoro fuori casa o che nella maggioranza dei casi hanno abbandonato la propria attività per dedicarsi a tempo pieno alla cura, nel contesto familiare, di chi non è autonomo». La percentuale delle caregiver che hanno lasciato il lavoro è quantificata nel 60%. Le misure rivolte alle persone con disabilità devono essere conformi alla citata Convenzione ONU e «la parità tra uomini e donne» è uno dei Principi generali di essa (articolo 3, lettera g). Pertanto, se ciò che viene proposto non solo non contiene indicazioni per contrastare la discriminazione di genere, ma anzi la rafforza, prospettando misure che le rinchiudono in casa, direi che stiamo andando nella direzione sbagliata.
Cuffini dice di voler «capire con precisione operativa che cosa, in concreto, si vuole»: voglio che le mansioni di cura non siano più accentrate nelle mani di un’unica figura. Credo che, invece di trovare i soldi per stipendiare i familiari, sarebbe meglio investire in progetti di Vita Indipendente (assistenza autogestita) delle persone con disabilità e in progetti personalizzati che non diano per scontato che l’unica risposta per la persona con disabilità sia comunque la famiglia come la intendiamo comunemente. L’ho già scritto nei precedenti interventi e lo ribadisco, ci deve essere un’alternativa all’assistenza prestata dalla famiglia. Se non c’è, va creata, va inventata. Il modello tradizionale non sparirebbe, chi vuole potrebbe comunque continuare a farci riferimento, ma non si può parlare di libertà, se non ci sono almeno due opzioni eticamente accettabili tra cui scegliere.
Scrive Cuffini: «Perché io mi ritenga sostituibile e dispensabile (cosa che sarei del tutto incline a fare già di mio), occorre necessariamente che io sappia chi mi dispensa e mi sostituisce e quando, cosa, come lo fa». La risposta a questa domanda credo richieda una premessa.
Durante la pandemia molte persone che hanno preso il Covid non sarebbero sopravvissute se altre persone intorno a loro non si fossero preoccupate di sostenerle, procurando loro medicinali, cibo e provvedendo ad altre necessità di cui non potevano occuparsi personalmente a causa del confinamento. Si tratta di una situazione episodica, spontanea, gratuita, legata ad un evento emergenziale, ma mostra che quando ci riconosciamo parte di una comunità e dell’umanità, prestiamo attenzione e cure con criteri diversi dalla parentela: in questo caso ha prevalso il criterio di prossimità.
Nel citato Manifesto della cura si propone di sperimentare reti e legami di cura capaci di espandersi oltre le relazioni intime e i confini della famiglia nucleare, sviluppando sistemi di cura e strutture di «parentela alternativa» simili a quelle sperimentate negli Anni Ottanta e Novanta nella lotta contro la diffusione dell’AIDS, o a quelle autorganizzate per la cura condivisa dei bambini e delle bambine realizzate negli Anni Settanta. Questa nuova pratica della cura è denominata «cura promiscua», poiché si pone fuori dalle reti familiari e dalle logiche di mercato, e fa riferimento al modello delle “famiglie per scelta” nate in seno ai movimenti LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali), sperimentate negli Anni Settanta. La comunità di cura che ne scaturisce si basa su quattro elementi fondamentali – il mutuo soccorso, lo spazio pubblico, la condivisione di risorse e la democrazia di prossimità –, e richiede che sia supportata dallo Stato.
Tornando alla domanda iniziale, io non so dire a Cuffini il nome e il cognome di chi potrebbe supportarlo, temo però che se ci ostiniamo a ragionare sempre e solo in termini di parentele convenzionali e di famiglie nucleari, il sistema non sia in grado di reggere, e anche se reggesse (ma ne dubito), lo farebbe al prezzo di una grave compressione dei diritti umani di chi presta cura, e mettendo a rischio la stessa vita della persona con disabilità se il/la caregiver divenisse improvvisamente indisponibile. A ciò si aggiunga che il modello familistico non dà risposte soddisfacenti a chi non ha una famiglia tradizionale che possa prestare assistenza. Se invece proviamo a fare tesoro delle pratiche poste in essere durante la pandemia, se prendiamo in considerazione che tali modalità potrebbero essere riconosciute e organizzate con criteri di redistribuzione egualitaria della cura in funzione di altre esigenze, se tutta la comunità iniziasse a sentirsi responsabile per i suoi componenti, se iniziassimo a pensare che si può andare oltre l’individualismo e il familismo, anche i servizi e i supporti per le persone con disabilità potrebbero essere progettati e realizzati in modo diverso, con più punti di riferimento, in modo partecipato, non paternalistico, né assistenzialistico. È una sfida, lo comprendo perfettamente. Ma mi fa intravvedere un mondo migliore, e se iniziassimo a crederci in tanti e tante, magari, insieme, riusciremmo anche a costruire qualcosa di diverso.
Cuffini mi spiega che non ci sono solo le famiglie di origine, che a volte le famiglie sono quelle che il soggetto ha voluto, alle quali il tema di sganciarsi dalla famiglia non si applica. Lo informo che io rientro in questa seconda casistica. La mia riflessione è centrata principalmente sul tema di sganciarsi dalla famiglia d’origine proprio perché la “famiglia voluta” la persona con disabilità se l’è scelta, dunque è più improbabile che la subisca, così come è meno probabile che in essa sia esposta ad infantilizzazione, come talvolta accade, purtroppo, nelle famiglie d’origine. Però è ovvio che anche nelle “famiglie di approdo” deve essere data sia alla persona con disabilità che al/la caregiver la possibilità di decidere cosa condividere e cosa no, ad esempio finanziando progetti di assistenza autogestita dove l’assistente personale non è un familiare o il/la partner della coppia, o servizi con altre figure se quel percorso non è praticabile. Se non c’è un’alternativa all’assistenza prestata dalla “famiglia di approdo”, nemmeno questi rapporti sono realmente liberi, e non hanno argini alla scopertura dell’assistenza se l’unico/a caregiver viene a mancare.
Cuffini, infine, non riesce a capire come dovrebbe configurarsi il ruolo dello Stato nel modello che io propongo. Come ho già fatto con Corradi, lo invito a leggere il Manifesto della cura del Care Collective. Come può pretendere di capire cose che, con ogni evidenza, non ha letto?
«Siate il peso che inclina il piano. Siate sempre informati e non chiudetevi alla conoscenza perché anche il sapere è un’arma. Forse non cambierete il mondo, ma avrete contribuito a inclinare il piano e avrete dato vita a un seme che non sarebbe mai cresciuto», scriveva, a suo tempo, il filosofo britannico Bertrand Russell. L’impostazione familistica del welfare non è un dato immutabile, e se sovvertirla richiederà molto tempo, intanto possiamo provare ad “inclinare il piano”, imparando almeno a distinguere le proposte che la rafforzano da quelle che la contrastano.