Entro in punta di piedi e con un po’ di timore nel dibattito sulla figura, il ruolo e la tutela dei caregiver familiari, perché mi rendo conto che è un argomento che tocca molti nervi scoperti, che riguarda fatiche, dolori, speranze deluse e stanchezza che tante persone affrontano per molti, troppi anni della loro vita. È un tema che innanzitutto richiede rispetto, che non si può affrontare con tesi precostituite e con la presunzione di avere ricette già pronte.
I primi a entrare in questo dibattito devono essere gli stessi caregiver familiari: nessuno meglio di loro, infatti, ne conosce la realtà, i problemi, le difficoltà che ogni giorno devono affrontare e nessuno meglio di loro potrebbe indirizzare le azioni dei decisori politici che troppo spesso agiscono secondo logiche e linee di pensiero che si discostano dalla realtà e che non rispondono ai bisogni effettivi delle persone.
Mi preme fare un’altra premessa: io sono una persona con disabilità, non sono una caregiver, e quindi probabilmente vedo la questione da una prospettiva un po’ diversa; tuttavia mi interessa questo tema, non solo perché ritengo che i familiari delle persone con disabilità meritino maggiore attenzione e “cura” di quanta ne sia stata data loro finora, ma anche perché penso che il benessere delle stesse persone con disabilità passi necessariamente anche attraverso quello di chi si prende cura di loro. Un caregiver stanco, frustrato, insoddisfatto porterà il proprio malessere nella relazione di cura, anche inconsciamente e malgrado la sua volontà, rischiando di assumere atteggiamenti e comportamenti che nuocciono alla relazione stessa e in ultima analisi alla persona con disabilità stessa.
Lascio ad altri, di sicuro più esperti di me, disquisire su questioni legislative, su come prevedere tutele economiche, anche in materia previdenziale, giuridiche, per chi si prende cura per anni di un proprio familiare con disabilità (che poi è quasi sempre la madre); io voglio porre l’attenzione su aspetti più relazionali, più di cura, di vicinanza a queste persone, di ascolto dei loro bisogni, delle loro emozioni, dei loro vissuti.
Ripensando anche alla mia esperienza e andando per quanto la memoria me lo consenta a quando ero bambina, mi rendo conto che l’attenzione dei servizi educativo-riabilitativi è sempre stata su di me, per me, per cosa fosse meglio per me. Giusto! La persona con disabilità ero io. Di fatto, però, c’erano anche i miei genitori, con i loro vissuti, le loro frustrazioni, paure, la fatica di dover trovare un nuovo assetto familiare, gestire il rapporto con gli altri figli (i cosiddetti siblings di cui finalmente si sta incominciando a parlare): per loro non c’è stata attenzione.
Non è certo mia intenzione parlare delle mie questioni familiari, è solo uno spunto per riflettere sulla scarsa considerazione, cura – nel senso dell’I care di don Milani – che è stata riservata ai genitori e ai familiari delle persone con disabilità e sulla quale invece è urgente fare un ragionamento serio.
Innanzitutto bisognerebbe incominciare a pensare a queste persone non solo e sempre come genitori di…, mamma di…, papà di…, ma anche come individui i cui bisogni, vissuti, esperienze si incrociano con quelli del figlio, ma non si esauriscono con essi. Potrebbe sembrare un’ovvietà dire che i genitori di un bambino o di una bambina con disabilità avevano una loro vita prima della nascita del figlio e continuano ad averla anche dopo, ma in realtà non è così scontato, visto che spesso – e giova ribadirlo per lo più le mamme – si annullano in funzione del figlio, dei suoi bisogni, ritmi, esigenze. Queste mamme rinunciano non solo alla vita lavorativa, ma spesso anche alla vita sociale e vivono ogni deroga a questa rinuncia con senso di colpa verso il figlio. Sono fin troppo evidenti le conseguenze che alla lunga tutto questo può portare: come già detto prima, stanchezza, frustrazione, rabbia, non giovano a nessuno.
Se da una parte bisogna supportare i genitori nella lettura dei loro bisogni, nel capire che non sono “cattivi genitori” se si concedono delle pause, se si prendono del tempo per sé anche come coppia, dall’altra però vanno create le condizioni perché questo sia davvero possibile.
Non si può dire «devi prenderti una serata per te», se poi il genitore non sa a chi lasciare il figlio, perché quest’ultimo ha esigenze particolari che una babysitter qualsiasi non è in grado di soddisfare. Bisogna creare reti formali e informali atte a supportare questi genitori, reti che non possono esaurirsi nella famiglia allargata che rischia negli anni di implodere; vanno costruite sul territorio occasioni di vicinanza, di prossimità, di mutualità. In questo senso, non posso non pensare ai gruppi di auto mutuo aiuto, dei quali mi occupo da più di vent’anni, avendo modo di sperimentarne l’efficacia. Gruppi in questo caso di genitori con figli disabili che si riuniscono per scambiarsi le proprie esperienze, per parlare di sé, come genitori di…, ma anche come persone, con i propri desideri, paure, fragilità. È uno spazio di scambio e di confronto, utile per uscire dalla solitudine e dall’isolamento, per prendersi dei momenti per sé e per il proprio benessere; ed è anche un’occasione per creare concrete possibilità di aiuto reciproco, di prossimità.
I gruppi di auto mutuo aiuto, per altro, sui quali ci sarebbe moltissimo da dire, sono solo una delle possibili vie per creare reti di aiuto e vicinanza; è importante, infatti, che la famiglia, i caregiver familiari non siano lasciati soli, che si sentano parte di un territorio, di una comunità, di una rete che li supporta.
Un altro punto che mi sembra molto importante, anche per le implicazioni che porta con sé, è che i caregiver familiari, nel limite del possibile e del ragionevole, imparino a delegare, a fidarsi di altri che possono temporaneamente sostituirli nella cura del proprio congiunto, a non pensare di essere i soli che possono assicurare il benessere al proprio familiare. Si tratta di un discorso molto complesso e articolato, impossibile da esaurire in questa sede, ma sul quale, secondo me, vale la pena fare qualche riflessione.
Vorrei partire da un dato di fatto: se il rapporto tra madre e bambino è simbiotico nei primi anni di vita del bambino e questa simbiosi va poi diminuendo ma mano che il figlio cresce, nel caso di un figlio con disabilità tale legame risulta enormemente rafforzato e si protrae nel tempo. Le ragioni di questo fatto sono evidenti, ma non si possono tacere le conseguenze negative che possono esserci per entrambe le persone coinvolte e per tutto il nucleo familiare, se non si vigila su questa relazione e non si cerca di mantenerla nei giusti limiti.
Pensare che il proprio figlio con disabilità non possa essere temporaneamente affidato alle cure di altri, quindi sperimentare anche altre relazioni significa non solo, come detto prima, negarsi tempo e spazi per sé, ma non permettere al figlio stesso di crescere come persona autonoma, anche se bisognosa dell’aiuto di altri.
È importante che il bambino con disabilità, che poi diventa ragazzo e adulto, si percepisca come un individuo che può avere relazioni rassicuranti, positive, soddisfacenti anche al di fuori dell’àmbito familiare, anche se chi solitamente si prende cura di lui è temporaneamente assente. D’altro canto, il genitore deve imparare a fidarsi degli altri e anche del figlio stesso, a pensare che quest’ultimo possa star bene anche in situazioni diverse da quella nella quale è abituato a vivere e che tali esperienze siano fondamentali per la sua crescita. È un percorso difficile per tutte le persone coinvolte, non è sempre facile tenere a bada paure e ansie, è forte la tentazione di non sperimentare e rimanere in situazioni conosciute e rassicuranti; quello che è in gioco, però, è il benessere anche futuro di chi si occupa della persona con disabilità, nonché di quest’ultima.
Non a caso ho parlato del benessere anche futuro: è inevitabile, infatti, che arrivi il momento in cui i genitori non possano più occuparsi del figlio o semplicemente quest’ultimo, come tutte le persone una volta diventate adulte, abbia voglia di emanciparsi dalla famiglia. Questo momento va preparato, se non si vuole che sia qualcosa di traumatico e doloroso; in questa sede non mi riferisco tanto alle soluzioni pratiche dell’abitare, che rappresentano un’altra grossa questione, quanto a un percorso che genitori e figlio o figlia con disabilità devono fare, direi fin da quando il figlio o la figlia sono piccoli, per pensarsi certo interdipendenti e uniti, ma anche indipendenti gli uni dall’altro, per riconoscersi e riconoscere all’altro la propria autonomia, i propri spazi, e soprattutto sentirsi rassicurati rispetto al benessere dell’altro.
È terribile la frase che ho sentito più di una volta da parte di genitori in occasioni di incontri sul “Dopo di Noi”: «Spero di morire cinque minuti dopo mio figlio…». A parte la grande sofferenza che una frase del genere svela, vuol dire che questi genitori non solo non riescono a immaginare un futuro per il proprio figlio che non sia legato al loro, ma non si concedono neppure il diritto di invecchiare serenamente, di pensare alla fase finale della propria vita come a un periodo libero da cure e preoccupazioni legate al figlio.
Questa, a mio parere, è una cosa terribile, al di là di ogni demagogia; i genitori vanno aiutati, così come va aiutata la persona con disabilità, a preparare il futuro, per quanto il futuro sia pianificabile, a pensare, a immaginare le proprie vite indipendenti le une dalle altre, anche se sempre legate, proprio come avviene in tutte le famiglie, quando i figli diventano adulti. È un percorso, voglio ribadirlo, che deve iniziare fin da quando il figlio è piccolo e i genitori sono giovani; deve infatti maturare in tutti il senso della propria autonomia, pur nell’interdipendenza reciproca e dei doveri che evidentemente legano i genitori al figlio. L’autonomia del figlio rispetto ai genitori deve crescere gradualmente, egli deve poter sperimentarla in tutto il percorso della sua crescita e spetta a tutti coloro che a vario titolo si occupano di lui creare le condizioni perché ciò possa avvenire.