Certe volte mi chiedono: «Come si parla in maniera neutra di una persona con disabilità con una storia coinvolgente?». In questi giorni scrivevo una storia di quelle che ti acciuffano e ti trascinano dentro, con mamma Sara e figlio Simone inseparabili in una situazione di complesso abbandono all’amore e alla società: usi l’aggettivo sbagliato e l’articolo diventa fulgido esempio di TV del dolore.
Una delle prime cose che ti insegnano ai corsi sul giornalismo in materia di disabilità – quando quei corsi li trovi e quando sono buoni – è che il linguaggio deve essere neutro per non essere abilista. In pratica, se parli troppo bene di una persona con disabilità per via della sua disabilità, le ricavi un posto “eroico” nella comunità, quindi la recludi in una nicchia, e se ne parli in maniera emotiva, la destini alla categoria “lacrime assicurate”, spingendola nel cliché della disabilità patetica.
Il primo trabocchetto in cui non cadere sta nel non enfatizzare la condizione di disabilità. Di una persona che fa certe cose bene, o male, si parla nella sua interezza, senza stare troppo a indugiare sul fatto che sia disabile (disabile come attributo, si capisce, no? Come sostantivo non si usa mai).
Di Bebe Vio ormai si parla giustamente più della campionessa e del personaggio che non degli arti che mancano. Se si può fare per lei si può fare per tutti.
Bebe Vio, Alex Zanardi, Stephen Hawking mostrano che si può parlare di moderni eroi senza indugiare sulla disabilità. Ma questo se lo sono guadagnati aspettando che il mondo comprendesse che la disabilità non era che una parte di essi, benché determinante, forse, fino a essere motivo del loro stesso essere personaggi. Una prima osservazione: ci è voluto del tempo.
E il bambino siriano senza arti accolto in Italia di cui ha parlato su queste stesse pagine Alessandro Cannavò, come può d’acchito non travolgerti emotivamente? Come non parlare della sua disabilità dacché anche il giornalista è un essere umano e in quell’assenza di arti accolta con benevolenza da un Paese generoso non può non ritrovare quel senso di umanità che tutti stiamo cercando in questa era pandemica più che mai? Bisognerebbe essere cinici. Quantunque i “cinici” non fossero greci privi di cuore, ma filosofi che esercitavano deliberatamente il distacco della società.
Non bisogna essere cinici per fare bene il proprio mestiere, benché esistano giornalisti cinici, come esistono persone ciniche in qualunque ruolo. Per scrivere un articolo neutro bisogna soppesare, essere ragionevoli, conoscere il mestiere, sapersi guardare dentro e avere senso critico. Un buon romanziere sa come narrare il suo eroe e se non vuole esaltarlo lo racconta sottovoce. Rispetto al romanziere il giornalista non è chiamato a esaltare le gesta di alcuno: deve fare cronaca, raccontare una storia e lasciare che la storia parli da sé. Penseranno i protagonisti a tracciare il loro profilo eroico o compassionevole.
Con tutto il rispetto per il personale sanitario, bisogna essere un po’ come loro. Non si può non rimanere insensibili, anzi la sensibilità guida a scoprire nuove esperienze di vita e ad affrontare meglio ogni successiva testimonianza di vita. Sì, perché quelle che comunemente chiamiamo storie sono testimonianze di vita. La storia è l’accadere dei fatti, non il loro studio, che si chiama storiografia. Quando parliamo di storie, come noi giornalisti spesso facciamo, non dobbiamo dimenticare che non stiamo trattando raccontini da intrattenimento da bar, ma stiamo operando sulla vita di persone vere.
Dinanzi alla stesura delle storie si deve essere un po’ distaccati, ponendosi mille domande, scegliendo un aggettivo, la costruzione di una frase, l’uso di un sostantivo. Parlando di Sara, nella storia che citavo all’inizio, a un certo punto dell’articolo che stavo scrivendo, mi è scappato un “mamma Sara”. Mi è venuto spontaneo. Poi ho tolto la parola mamma: usare “mamma Sara” vuol dire che usi con il Lettore e con il protagonista un linguaggio troppo affettuoso, che può dirigere l’interpretazione della figura di Sara verso un eccessivo attaccamento a Simone.
Nell’apertura di questo pezzo, invece, ho volutamente usato l’espressione mamma Sara perché dovevo far capire che quella era una storia che coinvolgeva drammaticamente. Le parole non si scrivono a caso.
Un mio professore diceva che si scrive con due mani: con una scrivi, con l’altra trattieni. Non era una scuola di giornalismo, ma il primo anno di liceo, dove pure mi hanno bocciato.
Dobbiamo avere come riferimento i buoni medici, i buoni infermieri. Dobbiamo far sentire la nostra presenza senza fuorviare nessuno. A costo di una grande fatica, perché è impegnativo non lasciarsi trascinare dalle storie emozionanti. Lasciamo parlare i protagonisti, accompagnandoli come un buon maestro i suoi alunni.
Serve esperienza, esercizio, e qui torniamo alla pazienza di Bebe e Zanardi. Non dobbiamo essere abilisti, esaltando, sminuendo o impietosendo, e dobbiamo imparare a farlo bene, esperienza dopo esperienza. Dobbiamo insomma essere capaci di essere senza sembrare di esistere.
Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Come si scrive un articolo senza lasciarsi travolgere dalle emozioni?”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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