«Sono le prime ore del mattino del 26 maggio 1940, una domenica di primavera, il treno straordinario in partenza da Pergine (Trento) è diretto a nord. 299 persone, 160 uomini e 139 donne, malate di mente – come si usava dire allora – lasciano il manicomio di Pergine accompagnate da suore, personale infermieristico, personale medico e dal direttore del manicomio in persona. Indossano il vestito più bello, il numero indelebile sulla giacca corrisponde a quello sul bagaglio. Sono in ordine, pettinate con cura le donne, rasati gli uomini.
Sono a disposizione materiali di medicazione e di pronto soccorso e un vagone letto per i pazienti più gravi. Tante le fasce di età rappresentate, dai 20 agli oltre 70 anni. Poche sono le persone sposate. Appartengono quasi tutti/e a ceti sociali umili, 238 di queste persone provengono dal manicomio di Pergine, le altre dagli istituti di Stadio (Alto Adige), di Nomi (Trento), di Udine. Tutta la notte si protrae l’afflusso dei malati, che arrivano alla stazione a piedi, e la loro sistemazione nei vagoni».
Con questa descrizione inizia il lungo articolo scritto da Eliana Frizzera sul sito “L’Adigetto.it”, in cui la giornalista ricostruisce la drammatica vicenda dei malati internati nel manicomio di Pergine, un Comune in provincia di Trento, deportati in Germania dove vennero uccisi.
Quando gli “ospiti” del manicomio di Pergine salgono sul treno diretto in Germania, la seconda guerra mondiale è scoppiata da quasi un anno, ma da quasi un decennio in Germania sono state avviate quelle politiche di “eugenetica” che prevedono la sterilizzazione forzata di persone affette da una serie di malattie ereditarie (o supposte tali), tra cui la schizofrenia, l’epilessia, la cecità, la sordità, la corea di Huntington e il ritardo mentale. Lo scoppio della guerra permette al regime nazista di iniziare anche la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili, sofferenza psichica, disabilità cognitiva. Compresi i bambini e le bambine.
All’inizio dell’ottobre 1939 tutti gli ospedali, case d’infanzia, case di riposo per anziani e sanatori furono obbligati a riportare su un apposito modulo ogni paziente istituzionalizzato da cinque o più anni, i “pazzi criminali”, i “non-ariani” e coloro ai quali era stata diagnosticata una qualsiasi malattia riportata in un’apposita lista. Questa lista comprendeva schizofrenia, epilessia, corea di Huntington, gravi forme di sifilide, demenza senile, paralisi, encefalite e, in generale, “condizioni neurologiche terminali”. Le vittime del programma di eugenetica nazista (passato alla storia con il nome di Action T4) furono soprattutto cittadini tedeschi e polacchi.
Perché, dunque, dei cittadini italiani finirono nei manicomi tedeschi? La risposta si trova negli accordi italo-tedeschi e in una legge approvata il 21 agosto 1939 dal Governo Mussolini (Norme per la perdita della cittadinanza da parte delle persone di origine e lingua tedesca domiciliate in Alto Adige) che prevedeva per i cittadini italiani di lingua tedesca la possibilità di optare per la cittadinanza tedesca e, di conseguenza, di trasferirsi in Germania.
Questo provvedimento ha riguardato anche le persone ricoverate nel manicomio di Pergine Valsugana: che avessero un tutore o meno, che fossero consapevoli o meno della scelta il 26 maggio 1940 299 persone (160 uomini e 139 donne) vennero fatte salire su un treno e trasferite in Germania. Qui vennero poi smistate tra gli altri ospedali a Schussenried e a Weissenau, dove la maggioranza di loro trovò la morte. Nel gennaio 1941 cinque malati vennero rimpatriati a Pergine, perché ne era stata accertata la cittadinanza italiana, mentre altre cinque malate vennero condotte a Zwiefalten.
«Chi ha preso questa decisione di farli partire? I pazienti poterono decidere in modo autonomo della loro sorte? E chi decise per le malate e i malati gravi incapaci di intendere e di volere? – si chiede Eliana Frizzera -. Dagli studi degli archivi dell’ormai ex manicomio di Pergine emergono una serie di irregolarità, omissioni, comportamenti superficiali, illegali, da parte del personale medico e della magistratura: uomini e donne strappati a forza o con l’inganno dal loro ambiente e dai legami affettivi che lì si erano radicati. Fu una deportazione, non una libera scelta».
LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente contributo è già apparso in «Persone con disabilità.it» e viene qui ripreso – con minime modifiche dovute al diverso contenitore – per gentile concessione.
Segnaliamo che a fianco del testo di Stefania Delendati, Quel primo Olocausto (a questo link), è presente l’intero elenco dei numerosi contributi da noi pubblicati sul tema dello sterminio delle persone con disabilità durante il regime nazista e la seconda guerra mondiale.
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