Ho conosciuto Rita Barbuto vent’anni fa in occasione del progetto europeo Daphne, dedicato alle donne con disabilità, multidiscriminate e vittime di violenza. Un incontro decisivo, coincidente con l’inizio del mio impegno associativo nelle organizzazioni di persone con disabilità.
Numerose sono poi state le opportunità di partecipare a convegni, seminari, focus group organizzati da DPI (Disabled Peoples’ International), di cui Rita era stata presidente e che ha diretto fino a ieri.
Molte le sue pubblicazioni, in particolare per favorire l’implementazione di metodologie quali l’empowerment e la consulenza alla pari, indispensabili per svolgere azioni di advocacy (tutela) e generare innovazione sociale.
La sua era una militanza, un impegno politico per la promozione dei diritti di tutte le persone con disabilità, che non si è limitata alla realtà italiana e che l’ha vista protagonista in vari progetti di cooperazione internazionale per lo sviluppo, tra cui la creazione del Centro per la Vita Indipendente a Gaza in Palestina.
Avevo sentito Rita la scorsa settimana – da alcuni anni sono anche componente della Segreteria Operativa di DPI -, avevamo parlato di un progetto sul quale si stava lavorando insieme e durante la breve telefonata non aveva mancato di raccomandarmi di mantenere alta l’attenzione sulle differenze di genere (Gender Gap) e di come fosse importante coinvolgere nelle attività del progetto le donne con disabilità. Ciò che Rita temeva era il silenzio sulle discriminazioni multiple che spesso circonda chi subisce maltrattamenti, abusi, violenze di genere, magari in contesti di cura e di assistenza oppure in àmbiti relazionali. Ciò che avrebbe voluto realizzare era porre fine a ogni forma di segregazione e creare le condizioni necessarie al diritto di libera scelta sul come, con chi e dove vivere.
Certamente il Gruppo Donne della FISH farà tesoro dei suoi insegnamenti, un importante lascito che non sarà disperso e manterrà vivo il ricordo di lei.