A proposito del recente Festival di Sanremo, vorrei proporre alcune considerazioni differenziate dalle critiche che hanno sommerso l’attrice Maria Chiara Giannetta, co-conduttrice della quarta serata.
Maria Chiara Giannetta c’entra con la disabilità come me con la pasta all’amatriciana: non sono un cuoco, ma se imparo posso sembrare d’esserlo. Giannetta è stata protagonista della serie su Rai 1 Blanca, dove ha interpretato una consulente cieca della polizia dal pensiero divergente, cioè capace di intercettare segnali che sfuggono ai punti di vista comuni.
Se da una parte questo ruolo trascina nel luogo comune delle persone che non vedono che però “vedono oltre” (lo stesso Omero era identificato cieco e per questo capace di vedere oltre), dall’altra rimanda alla considerazione che le persone con disabilità sono talora dotate della capacità di vedere diversamente il mondo, proprio perché lo affrontano in maniera disassata rispetto alla massa, da cui e per cui è orientato. Cito Daniele Regolo: «Chi vive una condizione di disabilità deve trovare quotidianamente soluzioni differenti (rispetto alla popolazione senza disabilità) per raggiungere un determinato obiettivo. Ciò comporta il dotarsi di una modalità di pensiero e di ragionamento diversi dal pensiero dominante». I luoghi comuni, dunque, non sempre sono solo luoghi comuni.
Cliccando dunque a questo link, si accede da Raiplay al video della Giannetta che parla della sua esperienza con la disabilità. Il suo è uno degli interventi che intervallano la rassegna canora di Sanremo. È un po’ intrattenimento, un po’ servizio pubblico, un po’ autopromozione. Per i più ingenui: nessuno in TV parla da solo, quindi lei ha parlato di disabilità visiva perché la RAI, l’organizzazione e Amadeus lo hanno voluto.
Sul palcoscenico più fiorito d’Italia l’attrice ha raccontato di come si è preparata a interpretare il suo personaggio cieco. Per farlo ha invitato sul palco le persone con deficit visivo che l’hanno aiutata a comprendere il mondo della cecità.
La televisione, oltre ai suoi riti, ha i suoi codici e il suo linguaggio. È un teatro, nessuna luce è puntata a caso e dietro le quinte c’è una macchina inimmaginabile. La televisione non parla al pubblico, ma ai telespettatori, assolvendo la funzione di far salire lo share, anche sacrificando la qualità dei contenuti. La confezione convoglia la scelta, il contenuto è ausiliario.
La capace Giannetta, introdotta da Amadeus, inizia a raccontare la sua esperienza portandoci sul suo sorriso e sulla sua disinvoltura. Ci deve catturare perché la platea prima si seduce e poi si incanta.
Catalizzando con magistrale abilità scenica, introduce nel suo racconto con il “padre di tutti gli errori della comunicazione sulla disabilità”: cambia atteggiamento, si fa deferente, struggente. Persino quando sorride, usa la mimica dell’oratore prostrato. È una scelta, non un errore.
Poi via via cambia tono di voce, si fa sempre più vibrante, emozionata e rapita. Patetica per chi conosce la disabilità. Quello che con la voce di prima sarebbe stato cronaca diventa melodramma. È il linguaggio della TV. Di una certa TV.
L’attrice chiama le quattro persone che l’hanno aiutata “guardiani” e questo le è valsa la critica di trasmettere che le persone con disabilità abbiano bisogno di guardiani. I guardiani non ci fanno male e ognuno chiama i suoi assistenti come vuole. Sono la prossemica e il tono di voce a presentare quei guardiani quali angeli irrinunciabili delle persone con disabilità, togliendo loro facoltà di autonomia.
I “guardiani” non parlano da sé, parla lei per loro: altra accusa. Sembra che le persone con disabilità non abbiano voce. Siamo al centro di una narrazione con il linguaggio televisivo e non nella cronaca di un fatto, che altro avremmo dovuto aspettarci? Il fatto ormai è mutato in melodramma, nessuno lo ferma più.
Giannetta dice di avere imparato da quelle persone a riappropriarsi del senso del tempo. Nulla da eccepire: anch’io vivo una percezione del tempo che alcuni mi invidiano. È il tono della narrazione, quasi Tito Stagno che annuncia l’allunaggio, che può far pensare che le persone con disabilità vivano senza l’ansia del tempo. Dirottandole in un immaginario di persone sconnesse dalla realtà: abilismo puro.
E si complimenta l’attrice con una dei suoi “guardiani”. L’ammira perché è donna coraggiosa che non può avere paura. Nella visione decontaminata dal contesto narrativo non ci sarebbe nulla di male perché quella può essere una persona impavida, chapeau. Ma la narrazione melodrammatica è ormai un’inarrestabile valanga, quindi la vince il messaggio che le persone con disabilità siano tutte coraggiose. Nulla di più falso.
Concludendo la liturgia, l’attrice dice che la sua esperienza è stata una “figata”. La sua esperienza sì, se lo dice lei. La disabilità non è una “figata”, se non per un piccolo numero di persone che ne sono proprio convinte. Mi dà fastidio Bebe Vio quando dice che la vita è una “figata”, figuriamoci lei. Che eppure stimo, sia chiaro.
Giannetta, insomma, ha detto un sacco di cose giuste nel modo sbagliato. Ed è prevalso il messaggio sbagliato. Ma le ha dette oppure le ha recitate? La televisione ha le sue dinamiche. Ha detto quello che serviva dire.