A cosa devono servire i servizi semiresidenziali per le persone con disabilità? Come devono funzionare e come devono essere finanziati? A quali modelli organizzativi devono ispirarsi? È possibile abbandonare lo schema che prevede che gruppi di persone con disabilità frequentino lo stesso luogo per fare, più o meno, le stesse attività per un numero di anni imprecisato?
I servizi che hanno avuto la maggiore espansione e il maggiore sviluppo in Lombardia sono senz’altro quelli di carattere semiresidenziale, ovvero i CDD, i CSE e gli SFA [Centri Diurni per Disabili, Centri Socio Educativi e Servizi di Formazione all’Autonomia, N.d.R.]. A seguito della loro definizione, attraverso specifiche Delibere di Giunta Regionale, abbiamo assistito, soprattutto negli anni compresi tra il 2005 e il 2010, a una loro crescita e diffusione molto significativa. Nel 2005 gli allora “CSE”, che rappresentavano praticamente l’unica modalità di servizio esistente, potevano ospitare 3.282 persone, mentre nel 2021 questa filiera di servizi diurni è composta da Centri Diurni per Disabili (CDD) con 6.680 posti, Centri Socio Educativi (CSE) con 4.586 posti e Servizi di Formazione all’Autonomia (SFA) con 3.208 posti. Un modello di servizi, quindi, “di successo”, che assorbe una quota significativa di risorse il cui funzionamento è però oggi messo in discussione.
Il dibattito, che dura in realtà da diversi anni, è nato al di fuori dei contesti istituzionali e oggi trova un riscontro molto significativo in due atti regionali.
La Delibera Regionale n. 5320 del 4 ottobre 2021 fornisce indicazioni per l’accesso e lo svolgimento delle Unità di Offerta Socioassistenziali. Nell’Allegato 2 si occupa di CSE e SFA e indica come necessario «il superamento dei modelli di intervento centralizzati che richiedono l’attivazione di trasporti di gruppo e orari eguali per tutti e che allontanano dai luoghi di vita», affermando che «è il tempo di un’offerta diversificata, diversamente modulabile, per meglio rispondere e orientare a nuovo modello di intervento, fondato sulla progettazione individuale del tempo di vita delle persone. Un modello di intervento orientato più sul contenuto che sul contenitore [grassetti redazionali in questa e nelle successive citazioni]».
La Direzione Generale Famiglia, Politiche Sociali e Disabilità della Regione Lombardia ha inteso in tal modo chiarire e specificare con maggiore forza quanto in fondo già previsto dalla Direzione Generale Welfare, che in una precedente Delibera aveva previsto che il rientro alla piena funzionalità dei Centri Diurni per Disabili potesse avvenire «confermando la possibilità di assicurarle anche con le modalità alternative a quelle ordinarie», ovvero affiancando alla presenza negli spazi dei centri, attività a domicilio, da remoto oppure «presso spazi alternativi anche all’aperto, non esclusivi ma riservati, per favorire eventuali attività specifiche».
Indicazioni che hanno assunto la forma di Legge, quando il Consiglio Regionale lombardo, nel riformare l’articolo 26 (Unità di offerta sociosanitarie) della Legge Regionale 33/09 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità), ha stabilito che nel processo di riordino e riqualificazione della rete sociosanitaria regionale, debbano essere promossi gli strumenti del progetto di vita e del budget di salute e che tra gli obiettivi della valutazione multidimensionale vi sia anche l’emersione dei desideri e delle preferenze della persona.
Quella che viene messa in discussione, dunque, è proprio la standardizzazione dei servizi che è stato uno dei pilastri su cui si è fondato il processo di riforma del welfare sociale per la disabilità nei primi dieci anni di questo secolo. Un modello che oggi mostra i suoi limiti, perché è stato capace di generare buoni livelli di assistenza (certamente migliori di quelli precedenti), ma che si è dimostrato incapace di andare oltre e quindi di essere uno strumento efficace a sostegno della vita adulta delle persone con disabilità e dei loro percorsi di inclusione sociale.
Un modello sostanzialmente bloccato: da diversi anni, infatti, non assistiamo più all’apertura di nuove “Unità di offerta” (per ragioni di bilancio), ma dato che il numero di “uscite” dai centri è molto basso, le nuove generazioni di ragazzi e giovani con disabilità che escono dal sistema educativo non possono trovare qui una risposta ai loro bisogni.
La scelta, più volte invocata e che ora troviamo indicata nelle norme, è quella di abbandonare la vecchia e abituale strada, che però non sembra più portare da nessuna parte, per tracciare nuove vie, sperimentare nuovi percorsi. Si tratta di prendere finalmente sul serio quanto, in realtà già dal 2009, la Legge italiana ha fatto proprio [Legge 18/09, N.d.R.], ratificando la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità: il mandato e compito del sistema di welfare sociale per la disabilità è solo ed unicamente quello di consentire alle persone con disabilità di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione.
Il principio messo in discussione è quello, implicito, su cui si fonda l’esistenza di ogni luogo speciale destinato alle persone con disabilità, sia esso una scuola speciale, un centro diurno o un servizio residenziale, ovvero che vi siano alcune persone che, per via delle loro menomazioni e compromissioni, non possano vivere insieme alle altre persone e che debbano essere accudite e protette da professionisti.
Per riconoscere, promuovere e rispettare il diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale che è di tutte le oltre 14.000 persone oggi accolte nei CDD, CSE e SFA lombardi, è pertanto necessario che gli operatori che lavorano in questi servizi (a partire da chi ricopre ruoli di responsabilità) utilizzino tutta la flessibilità che oggi le Delibere Regionali riconoscono loro, per avviare processi di “scentramento dei centri”.
È oggi necessario e possibile pensare ad un’organizzazione che non basi più il proprio baricentro sul luogo (il centro diurno) e sulle sue regole e attività, ma sulle persone, sui loro progetti, desideri, richieste e mete esistenziali, e consideri come suo spazio di elezione dove svolgere il proprio lavoro tutti gli spazi di vita sociale della comunità.
È necessario e possibile considerare le nostre comunità sociali come oggetto delle attenzioni educative degli operatori sociali ai quali deve essere chiesto di formulare progetti pedagogici volti a superare pregiudizi e stigma sociali nei confronti delle persone con disabilità e a fornire competenze relazionali, oggi carenti, affinché siano sempre più numerose le persone che sappiano come comportarsi, come comunicare con tutti e non solo con chi ha un certo bagaglio di abilità.
Il “Centro” può e deve diventare semplicemente la sede del servizio: un luogo di riferimento e anche di ritrovo, ma non più il luogo prevalente ed esclusivo dove si svolgono le “attività delle persone con disabilità”. Attività che devono essere sensate e significative, perché inserite e coerenti con il progetto di vita delle persone che non può più essere “proprietà esclusiva” dei responsabili del servizio, ma deve diventare il frutto di un’attenta e impegnativa attività di ascolto e di confronto e di cui la persona con disabilità dev’essere l’unica titolare.
Si tratta di una piccola, grande rivoluzione che in realtà è già in atto, perché non mancano gli enti gestori e i loro operatori che hanno deciso di utilizzare tutte le opportunità offerte dalle diverse Delibere Regionali che hanno “riaperto” i servizi dopo il periodo di lockdown, per provare a lavorare in modo nuovo e diverso, a servizio delle preferenze delle persone con disabilità, valorizzando le risorse “inclusive” già presenti nei nostri territori che, in molti casi, aspettano solo di essere sollecitate. I prossimi mesi sono quelli che avremo a disposizione per fare in modo che queste esperienze non siano più delle eccezioni, ma che diventino la nuova normalità dei servizi per le persone con disabilità.
Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Il presente contributo è già apparso in “Lombardia Sociale.it” e ripreso da “Persone con disabilità.it”. Lo riprendiamo a nostra volta, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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