Abbiamo avuto notizia di un gravissimo fatto di cronaca dal quale risultano diverse violazioni dei diritti umani ai danni di una donna con disabilità psichiatrica. Si parla di imposizione di misure tese a impedire/inibire l’espressione della sessualità, di un aborto praticato senza il suo consenso, di diversi episodi di abusi sessuali attuati da due ricoverati delle strutture in cui la donna è stata ospitata. È il caso, per altro, di parlare al condizionale perché la notizia è stata divulgata principalmente da una trasmissione televisiva che in genere predilige modalità sensazionalistiche. Scegliamo comunque di occuparci della vicenda perché le situazioni descritte e narrate sono di una gravità tale da indurci a chiedere pubblicamente che chi di competenza si occupi dei necessari accertamenti per verificarne la veridicità, e avvii i relativi procedimenti penali qualora i reati riferiti siano effettivamente stati compiuti. Ma prima di illustrare la vicenda è opportuno fare qualche sintetica precisazione di carattere giuridico per inquadrare i fatti narrati nella giusta prospettiva.
L’articolo 12 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), in materia di Uguale riconoscimento dinanzi alla legge, riconosce a tutte le persone con disabilità il godimento della capacità legale su base di uguaglianza con gli altri, proponendo un’interpretazione universalistica della capacità stessa. Questo vuol dire che qualunque sia il tipo di minorazione che riguarda la persona con disabilità – e dunque anche in presenza di disabilità intellettive e psichiatriche –, è sempre fondamentale porre in essere tutte le misure necessarie e utili a consentire alla persona stessa l’esercizio di tale capacità, mettendola in condizione di manifestare la propria volontà e i propri desideri riguardo a tutti gli aspetti della propria vita, e dunque di autodeterminarsi.
Se questo è vero per gli aspetti apparentemente meno significanti, come la scelta del gusto di un gelato, lo è a maggior ragione per le scelte in materia di salute sessuale e riproduttiva. Pertanto si configurano come violazioni dei diritti umani sia i tentativi di impedire/inibire l’espressione della sessualità, sia i trattamenti sanitari – come l’interruzione di gravidanza e la sterilizzazione – posti in essere senza il consenso libero e informato della persona interessata. Violazioni dei diritti umani che sono anche forme di violenza e reati che interessano in modo sproporzionato le donne con disabilità.
Sono innumerevoli, a tal proposito, le disposizioni giuridiche che sanciscono la natura criminale dell’aborto e della sterilizzazione forzati. Ne citiamo solo alcune. L’articolo 39 della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), recepita dall’Italia con la Legge 77/13, impone agli Stati di perseguire penalmente l’aborto e la sterilizzazione attuati senza il preliminare consenso informato della persona interessata. Nella citata Convenzione ONU gli articoli chiamati in causa sono ben cinque: il 15° (Diritto di non essere sottoposto a tortura, a pene o a trattamenti crudeli, inumani o degradanti), il 16° (Diritto di non essere sottoposto a sfruttamento, violenza e maltrattamenti), il 17° (Protezione dell’integrità della persona), il 23° (Rispetto del domicilio e della famiglia, che tutela il diritto alla pianificazione familiare, genitoriale e alla conservazione della fertilità) e il 25° (Salute, che contiene specifici riferimenti alla tutela della salute sessuale e riproduttiva, e al genere).
Va inoltre tenuto presente che nel 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, nelle sue Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della Convenzione, ha espresso preoccupazione «per la mancanza di dati sui trattamenti somministrati senza il consenso libero e informato della persona, compresa la sterilizzazione» (punto 63), e ha raccomandato «l’abrogazione di tutte le leggi che permettono di somministrare trattamenti medici, compresa la sterilizzazione, autorizzati da terzi (tutori, genitori) senza il consenso libero e informato della persona, e di fornire in merito formazione di alta qualità al personale sanitario» (punto 64).
Partendo da tali considerazioni, passiamo dunque a illustrare la vicenda in questione come riferita da più fonti reperibili online.
Questo l’appello scritto a mano nel quale Yaska chiede al giudice tutelare di portare a temine la propria gravidanza: «Io sottoscritta Yaska […] chiede al giudice tutelare di permettermi di avere il figlio che è in grembo perché è frutto dell’amore tra me e il mio fidanzato […]. È importante che lei sappia che noi ci frequentiamo da 10 anni e che il nostro rapporto è stabile. Abbiamo parlato del fatto della mia gravidanza ed entrambi lo vogliamo tenere questo figlio pur sapendo delle complicazioni attuali. Noi accetteremo l’aiuto di entrambe le famiglie». È scritto a mano su un foglio di carta a quadretti, l’accorato appello di Yaska, donna ventinovenne interessata da schizofrenia, rivolto al proprio giudice tutelare, dopo avere appreso di essere incinta da sei settimane. Sa quello che vuole, Yaska, lo dice e lo scrive. Ma è ricoverata in una struttura psichiatrica, altre persone decidono per lei, il suo appello rimarrà inascoltato e Yaska subirà un aborto senza aver dato il proprio consenso.
La vicenda, che ha molti aspetti controversi e perturbanti, ha avuto una certa visibilità grazie a due servizi mandati in onda dalla trasmissione televisiva Le iene, un primo servizio andato in onda sulle reti Mediaset il 6 aprile 2021 e un secondo trasmesso il 13 aprile successivo, entrambi curati da Nina Palmieri e Nicola Barraco.
Quei servizi raccontano la storia di Yaska, nata a Bagno a Ripoli (Firenze) nel 1990, mostrando alcuni filmati di lei che, dalle diverse strutture nelle quali è stata ospitata, comunica con i familiari attraverso delle videochiamate. Essi contengono anche le testimonianze della madre Jeanette, del padre Mori, di Neghi, la sorella maggiore, del fratello Maziar e dell’avvocato della famiglia Michele Capano. Nella sua infanzia Yaska ha condotto una vita normale, coltivando diversi interessi artistici: faceva danza classica, suonava il piano, il violino e la viola. Verso i 16 anni qualcosa cambia. Yaska inizia ad avere disturbi psicotici e le viene diagnosticata una forma di schizofrenia. A quel tempo Yaska la mamma e i fratelli vivevano a Roma. Jeanette si rivolge ad uno dei maggiori esperti di neuropsichiatria infantile della capitale. Le fasi acute della malattia si alternano, Yaska inizia una cura farmacologica e subisce diversi ricoveri che le permettono di trovare momenti di equilibrio. Nella struttura ospitante studiava inglese e letteratura, e le era permesso di uscire con i propri familiari, ristabilendosi a casa nei momenti di maggiore stabilità. Al compimento della maggiore età Yaska non può più essere seguita nella struttura romana e la madre decide di trasferirsi a Firenze. Jeanette, infatti, ritiene che, viste le minori dimensioni della città toscana, questa fosse meno caotica e più vivibile per sua figlia. Inoltre il trasferimento a Firenze avrebbe consentito alla figlia di riprendere i rapporti con il padre che, sebbene separato dalla moglie, aveva mantenuto ottimi rapporti con l’intera famiglia. Tuttavia l’impatto con i servizi psichiatrici fiorentini si rivela traumatico. L’approccio farmacologico proposto dai servizi toscani non dà gli esiti sperati. La madre, la sorella e il fratello riscontrano sin da subito il peggioramento delle condizioni di salute di Yaska, che non parla più e perde ogni interesse. Ma i servizi ritenevano che quello fosse il decorso della malattia.
Passano mesi, anni e la situazione non migliora, Yaska trascorre la propria vita tra ospedale e lunghi ricoveri in diverse comunità psichiatriche. Le cambiano frequentemente i farmaci, ha più allucinazioni, ingrassa, dimagrisce, non riesce più a svolgere nessuna delle attività svolte in precedenza. Per manifestare il suo disagio inizia a parlare con un pupazzo, cosa che non aveva mai fatto prima, oppure fugge dalla struttura cercando di tornare a casa sua.
Nel 2011, mentre è in ospedale, conosce un ragazzo col quale stringe amicizia. Anche Fabio, questo è il suo nome, si trova all’ospedale per dei problemi psichiatrici, ma non è interdetto, ha una certa autonomia, vive da solo, ha un lavoro, guida la macchina. La loro amicizia si trasforma in amore. Nel frattempo, però, le condizioni di Yaska peggiorano, quando rientra a casa dopo i ricoveri spacca le cose e manifesta intenti suicidi, tanto da indurre la madre, delusa dai servizi pubblici, a riportarla a casa in modo stabile e a farla seguire da dei medici privati.
Yaska riprende a suonare il violino, va cavallo, ritrova una sorta di normalità. Con il consenso della madre consolida il suo rapporto con Fabio, con il quale ha rapporti protetti (usano il preservativo).
In questo periodo continua ad avere delle crisi, ma in qualche modo la famiglia riesce a gestirle, disponendo l’ambiente domestico in modo che Yaska non si faccia male. Chi invece inizia a manifestare insofferenza verso le sue intemperanze, e ostilità verso la famiglia, sono i vicini di casa che, disturbati dai rumori e dalle urla della giovane, la insultano apostrofandola come «pazza», e chiamano ripetutamente le forze dell’ordine e il servizio psichiatrico locale. Quest’ultimo, già in attrito con la famiglia, farà diversi sopralluoghi nella loro abitazione.
Il 4 agosto 2015 medici, carabinieri e infermieri irrompono a casa di Yaska, la sottopongono ad un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), la sedano, la ammanettano e, fattala salire su un’ambulanza, la portano in ospedale. Contro la madre viene aperto un procedimento per disturbo della quiete pubblica, maltrattamenti e sequestro di persona. La stanza con le grate alla finestra perché Yaska non potesse farsi male rompendo il vetro, e la porta antisfondamento sostituita dopo che lei aveva rotto quella precedente, invece che come accorgimenti di protezione, vengono considerati elementi che testimoniano la volontà della madre di tenere Yaska segregata.
Nel primo grado di giudizio la madre viene assolta dai primi due capi d’accusa (disturbo della quiete pubblica e maltrattamenti), ma viene condannata per sequestro di persona. A Yaska, trattenuta in ospedale, dopo appena due giorni di ricovero viene assegnata un’amministratrice di sostegno, l’avvocata Cescatti. Spiega a Le iene l’avvocato Capano, legale della famiglia di Yaska, che pur essendo presenti una sorella, un fratello e un padre che non risiedevano nella stessa abitazione della madre inquisita, e dunque non potevano essere considerati come coinvolti nei reati ascritti alla genitrice, questi non sono mai stati presi in considerazione per l’assegnazione del ruolo di amministratore di sostegno, e nemmeno a Yaska nessuno ha mai chiesto chi volesse come amministratore.
Il ricovero si protrae per diversi mesi. L’unico modo per la famiglia di continuare a vedere Yaska è andare a trovarla in ospedale, dove lei continua a manifestare il desiderio di tornare a casa con i familiari, e denuncia di essere stata anche legata al letto.
Uscita dall’ospedale, viene trasferita in una comunità psichiatrica, interdetta, e la sua amministratrice di sostegno viene nominata tutrice. Da quel momento Yaska avrà difficoltà a incontrare i componenti della sua famiglia. Tutte le visite sono soggette a macchinose trafile burocratiche e, ancora una volta, nessuno prende in considerazione la volontà dell’interessata.
I limiti alle frequentazioni non riguardano solo la famiglia, anche Fabio, infatti, può vedere Yaska solo un’ora alla settimana. I due possono avere un po’ di intimità nelle rare volte in cui a Yaska è consentito di recarsi da sola a trovare la madre.
Quando nel 2018 Yaska compie 28 anni, Fabio le regala l’anello di fidanzamento. La tutrice sembra accorgersi solo ora di questo rapporto che in realtà durava da sette anni, e di cui sapevano tutti, visto che nessuno ne aveva mai fatto mistero. Davanti a questa “scoperta”, la tutrice stessa dispone che la giovane debba fare una visita ginecologica. Ma alla visita ginecologica la stessa tutrice non sarà presente, assieme a Yaska, invece, ci sarà la madre.
La ginecologa affronta con Yaska il tema della contraccezione, spiegandole che può scegliere tra il preservativo o la spirale. La giovane dirà di preferire il primo. Questa volta nessuno interferisce con la sua decisione, ma subito dopo la visita in questione la tutrice dispone che Yaska possa vedere le persone solo all’interno della struttura e solo nelle aree comuni. Lo scopo della disposizione è impedirle di avere rapporti sessuali con il fidanzato.
La segregazione si protrae per mesi, e costringe i due fidanzati a “rubare” i loro momenti di intimità. A marzo del 2019 viene rilevato che Yaska è incinta da sei settimane. Pur non essendo lei la tutrice, contro la madre di Yaska viene intrapreso un procedimento per concorso in abuso sessuale. Nella sostanza la madre viene accusata di avere istigato Fabio ad avere rapporti sessuali con Yaska, rapporti ai quali, stando all’accusa, la giovane, essendo interdetta, non poteva esprimere un valido consenso. Lo stesso Fabio viene perseguito per violenza sessuale.
In tutti questi passaggi la voce di Yaska non viene presa in minima considerazione. La sua testimonianza non viene ritenuta attendibile, nonostante il perito di parte, il dottor Giuseppe Tibaldi, psichiatra di chiara fama, non avesse alcun dubbio in merito alla circostanza che Yaska fosse in grado di testimoniare sui fatti in questione. Lo stesso Tibaldi afferma che Yaska ha riferito di avere subìto abusi sessuali da due ricoverati nelle strutture ospitanti, mostrando di saper ben distinguere tra i rapporti sessuali consensuali (quelli con il fidanzato) e le violenze.
Tibaldi chiarisce che Yaska ha identificato sia i ricoveri in cui questi abusi sono avvenuti, sia i soggetti che li hanno posti in essere, e tuttavia non risulta che a tali dichiarazioni abbiano fatto seguito azioni e procedimenti. Gli unici procedimenti che risulta siano stati intrapresi sono quelli a carico di Jeanette e di Fabio.
Dopo la scoperta della gravidanza, Yaska viene ricoverata in ospedale. In un primo momento pare avesse manifestato la volontà di non voler proseguire la gravidanza, imputando la stessa ad un personaggio della sua fantasia allucinatoria; ma in un secondo momento avrebbe cambiato idea, scrivendo al giudice tutelare il messaggio che abbiano riportato precedentemente. Tuttavia il giudice ha ritenuto che tali dichiarazioni fossero frutto dei condizionamenti attuati dalla madre della giovane.
Altri elementi che avrebbero indotto il giudice tutelare a ritenere che Yaska non fosse in grado di portare a termine la gravidanza, sono il rischio malformativo del feto legato all’assunzione di farmaci e il gravissimo quadro clinico psicotico della donna.
In ragione di tali considerazioni viene disposta l’interruzione di gravidanza senza il consenso dell’interessata, che viene eseguita il 9 aprile 2019. Anche Fabio, il padre del bambino – che, lo ricordiamo, ha qualche problema psichiatrico, ma non è interdetto –, si dice contrario all’aborto, e chiede al giudice tutelare di essere sentito, ma quest’ultimo non riterrà di ascoltarlo.
Tutta la vicenda è stata seguita dall’Associazione Diritti alla Follia. Ed è stata proprio tale organizzazione romana ad avere dato notizia dell’assoluzione di Fabio dall’accusa di violenza sessuale nei confronti di Yaska. Assoluzione pronunciata a seguito del procedimento abbreviato tenutosi lo scorso 18 novembre, con la motivazione che «il fatto non sussiste». Rimane tuttora pendente il procedimento (distinto da quello di Fabio) a carico di Jeanette, accusata di concorso in violenza sessuale a danno della figlia. Tuttavia, qualora la sentenza di assoluzione di Fabio dovesse consolidarsi in difetto di appello da parte della Procura, anche il procedimento a carico della madre di Yaska ne risulterebbe in qualche modo “svuotato”, visto che il reato attuato in concorso è stato considerato “insussistente”.
Sul caso di Yaska la stessa Associazione Diritti alla Follia sta preparando un esposto rivolto al Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, per violazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Questi i fatti divulgati pubblicamente dai quali risulterebbe la sistematica violazione dei diritti umani di Yaska. Violazione che, pur assumendo forme diverse, in realtà scaturisce sempre dal medesimo disconoscimento dell’interpretazione universalistica della capacità legale proposta dalla Convenzione ONU. Tanti soggetti si sono sostituiti a Yaska, decidendo al suo posto quale fosse “il suo bene”, senza chiederle quali fossero i suoi desideri e la sua volontà anche su questioni personalissime come la disposizione del proprio corpo.
Si tratta di fatti gravissimi e ripugnanti sui quali auspichiamo e chiediamo una verifica, ed eventualmente una sanzione, da parte delle Autorità preposte.
Per approfondire i temi riguardanti le donne con disabilità, e in particolare quelli legati alla vicenda di cui si parla nel presente contributo, oltre a fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, suggeriamo di accedere, nel sito del Centro Informare un’h, alle Sezioni Donne con disabilità: diritti sessuali e riproduttivi, La violenza nei confronti delle donne con disabilità e Donne con disabilità.