Com’è noto, il 5 febbraio scorso è caduta una ricorrenza molto significativa per il mondo della disabilità e non solo: sono passati infatti trent’anni dall’approvazione della Legge 104/92, altrimenti detta Legge Quadro sull’Handicap. Anche precedentemente erano state promulgate norme molto importanti in materia, pensiamo ad esempio alla Legge 482/68 sul collocamento obbligatorio, mai prima di allora, però, si era affrontata la tematica della disabilità nella sua globalità, prendendo in considerazione i diversi aspetti e le diverse sfaccettature del problema, all’interno di una visione unitaria il cui obiettivo fosse il benessere della persona con disabilità e il suo inserimento nella società.
Possiamo dire che la Legge 104/92 rappresenti una sorta di spartiacque, una pietra miliare nel cammino fatto dalla nostra legislazione a favore delle persone con disabilità: vi vengono infatti affermati in modo inequivocabile il diritto alla cura, allo studio, all’inserimento al lavoro, a vivere in un ambiente privo di barriere, ad accedere alle informazioni ecc.
Il trentennale, tuttavia, diventa l’occasione non solo per celebrare un avvenimento importante, una tappa fondamentale per la nostra legislazione e in generale per l’evoluzione della nostra società, ma anche per chiedersi quali passi in avanti siano stati fatti da allora e se, purtroppo, non ci sia stata anche qualche involuzione o quanto meno una battuta d’arresto in qualche aspetto.
Come sempre, non si può pretendere di esaurire in un articolo un argomento così vasto, che tocca molteplici aspetti della vita delle persone con disabilità, di coloro che a vario titolo interagiscono con loro, dei servizi e delle strutture dedicate. Prenderemo dunque in considerazione alcuni aspetti che possono essere significativi per capire, ragionare su cosa è stato fatto, cosa resta ancora da fare e soprattutto dove e come si debba eventualmente correggere il tiro.
Ciò che mi è balzato subito all’occhio andando a rileggere la Legge 104 è che le persone con disabilità vengono sempre chiamate «persone handicappate». Quello che mi ha fatto riflettere – e mi scuso per il gioco di parole – è stato proprio il fatto che questa cosa mi abbia colpito. Cerco di spiegarmi meglio.
Ho sempre pensato che cambiare le definizioni – “handicappato”, “disabile”, “diversamente abile”, “persona con disabilità” – cambiasse poco o nulla la realtà: mi si definisca come si vuole, ma la mia condizione, la mia realtà non cambia! Ricordo che quando si è incominciato a usare la definizione di “diversamente abile” ho provato quasi un moto di rabbia, mi sembrava infatti un volere edulcorare la realtà, addolcire la pillola. Dove sta la diversa abilità – mi chiedevo – nel camminare o nel parlare male? Col passare del tempo, però, mi sono ricreduta, mi sono accorta, cioè, che, se è vero che le definizioni, i nomi che diamo alle cose, alle realtà non cambiano la loro essenza, incidono però in modo non indifferente sul come noi le percepiamo e ci rapportiamo a esse. In questo senso l’essere passati da “persona handicappata” a “persona con disabilità” non è una mera operazione di bon ton, che lascerebbe il tempo che trova, ma un tentativo di spostare l’attenzione, di far sì che il deficit non diventi il solo elemento caratterizzante la persona, che ci si concentri sulla persona, la quale ha anche una disabilità, ma non si identifica con essa.
Se è vero dunque che le parole creano cultura e che nello stesso tempo sono espressione di una cultura, di un modo di sentire, di un preciso approccio alla realtà, allora è facile capire come l’essere passati da “persona handicappata” a “persona con disabilità” sia segno di un’evoluzione culturale positiva, di un’attenzione alla persona in quanto tale, prima ancora che al suo deficit.
Un altro aspetto che la Legge Quadro prende in considerazione e a cui dedica diversi articoli riguarda il diritto all’istruzione e all’inserimento lavorativo ed è su quest’ultimo punto che vorrei soffermarmi, perché mi sembra sia in atto un’involuzione rispetto allo spirito di questa legge e della stessa precedente Legge 482/68. Se infatti negli Anni Settanta, Ottanta e nei primi Anni Novanta c’è stata la volontà di recepire quanto previsto dalla normativa in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità e si è quanto meno tentata una loro integrazione nel mondo del lavoro profit pubblico e privato, l’impressione è che successivamente ci sia stata sempre più una delega al non profit, alla cooperazione sociale, perché supplisse a una sempre maggiore latitanza del profit. Si preferisce cioè offrire occasioni di lavoro alle imprese sociali, che a loro volta occupano le persone con disabilità, piuttosto che assumere direttamente la persona con disabilità.
Qui non si tratta di essere pro o contro il non profit; anche se non sempre, ci sono molti esempi di imprese sociali che hanno creato eccellenti occasioni di impiego per persone con disabilità e questo va riconosciuto, supportato; il loro modello di azione andrebbe fatto conoscere maggiormente e replicato. Detto questo, però, non si può non vedere il rischio – mi si passi l’espressione forse un po’ forte – di una “nuova ghettizzazione”, per cui si rinuncia a un inserimento nel mondo del lavoro vero e proprio (non che i lavori del non profit non lo siano), e si cercano soluzioni più protette.
Non c’è dubbio che in realtà il discorso sia molto più complesso: per tante persone con disabilità – e io sono una di quelle – c’è un’oggettiva difficoltà a trovare una collocazione lavorativa idonea; non è facile, infatti, conciliare le abilità e le difficoltà; è evidente, secondo me, che negli ultimi anni si sia un po’ gettata la spugna su questo aspetto, complice anche il farsi strada di un’idea che io giudico molto pericolosa: quella per cui la persona con disabilità non abbia bisogno di lavorare, ma di “occupare il tempo”.
È un argomento sul quale ho già scritto su queste stesse pagine per cui non voglio ripetermi. Mi sembra tuttavia opportuno ribadire come il lavoro, quello vero, utile a qualcuno, dia dignità alle persone, la stessa dignità che deriva ad esempio dal rapporto con i colleghi, i superiori, dall’avere responsabilità, non importa se piccole o grandi, doveri, dal poter giocarsi come persona adulta in un contesto che non deve essere necessariamente protetto.
Se quindi sulle tematiche del lavoro si è, a mio parere, un po’ tirato il freno, complice anche una congiuntura economica non certo favorevole a creare occupazione, su altri aspetti penso si siano fatti notevoli passi avanti: mi riferisco alle questioni legate al “Dopo di Noi”, l’abitare, la vita indipendente. È innegabile che fino a cinquanta-sessant’anni fa, ma forse anche meno, l’alternativa per una persona con un’importante disabilità fosse o la famiglia o l’istituto, per cui, se una persona era fortunata, passava parecchi anni in famiglia prima di entrare in istituto; se invece fortunata non era, entrava da piccolo in istituto e vi trascorreva la vita. Negli Anni Ottanta si è incominciato a parlare di comunità alloggio, ambienti molto più a misura d’uomo, dove poter ricreare o quanto meno cercare di ricreare un ambiente familiare, domestico, dove le relazioni interpersonali fossero meno alienanti. Ancora in questi anni tuttavia si era lontani dal pensare che la persona con disabilità potesse progettare la propria vita, che potessero farlo le famiglie per e con i loro congiunti, la stessa 104/92 non ne parla; erano ancora le Istituzioni le sole che dovevano dare le risposte, risposte che gioco forza erano prestabilite e che spesso venivano date a fronte di una situazione di emergenza.
Lentamente, alle soglie del nuovo millennio, grazie anche ad Associazioni come Oltre noi… la vita, in quegli anni molto attiva nel Milanese, si inizia a pensare al “Dopo di Noi”; le famiglie vengono aiutate a immaginare, a progettare il futuro del proprio congiunto con disabilità, che non deve essere necessariamente in un istituto o in una comunità alloggio; nascono reti di professionisti che offrono alle famiglie consulenze in materie giuridiche e finanziarie, con lo scopo di assicurare oltre che una tutela giuridica per la persona con disabilità che ne abbia bisogno, un patrimonio, una rendita che consenta al proprio congiunto di vivere da solo o con altre persone in un proprio appartamento e di provvedere alla propria assistenza. Nascono i primi condomìni solidali, nuove forme di abitare diffuso, in cui si incontrano diversi bisogni e si trovano risposte innovative e inedite.
Non è certo mia intenzione dire che da questo punto di vista viviamo in un “paradiso terrestre”, c’è ancora molto da fare, non tutti, infatti, hanno la possibilità di scegliere davvero dove e con chi vivere e specialmente per le persone con una disabilità grave e molto complessa l’istituzionalizzazione è ancora l’unica soluzione. Quello che però mi preme sottolineare è il cammino che in questi trent’anni è stato fatto che, secondo me, è notevole anche da un punto di vista culturale. Sta, seppure lentamente, entrando nel sentire comune l’idea che la persona con disabilità abbia il diritto di autodeterminarsi, di scegliere dove e con chi vivere e che dunque anche gli interventi e i provvedimenti dei decisori politici debbono andare in questa direzione.
Luci e ombre… L’ultimo argomento che voglio affrontare è quello dell’accessibilità, intesa non solo come abbattimento delle barriere architettoniche e tutto ciò che riguarda la mobilità, ma anche come possibilità di tutti di accedere alle informazioni, diritto cui la 104/92 fa esplicito riferimento. Per fare un discorso serio, bisognerebbe avere dei dati sui quali ragionare, che io non ho; mi sembra comunque di poter dire che sul versante dell’abbattimento delle barriere architettoniche, quindi sull’accessibilità agli edifici pubblici e privati, ai monumenti, ai luoghi di culto, di svago, anche se c’è ancora tanto da fare, siano stati fatti notevoli passi in avanti. Se però pensiamo alla disabilità sensoriale, quindi a persone ipovedenti, non vedenti, non udenti, non possiamo non rilevare che siamo ancora molto lontani dall’avere realizzato quando previsto dalla Legge 104.
Faccio solo alcuni esempi: è molto raro – almeno a Milano – l’impiego di semafori che abbiano anche un segnale sonoro, così come non si capisce perché non si possa prevedere l’uso dei sottotitoli nei film proiettati nei cinema. Un’altra cosa che mi fa riflettere: andando negli uffici pubblici, o anche nelle strutture ospedaliere, mi è capitato di vedere diversi cartelli informativi, ora anche sul Covid, tradotti in diverse lingue, tra cui l’arabo e il cinese. La trovo una cosa giustissima, segno di civiltà e volontà di inclusione, visto che siamo una società ormai multietnica; alcune domande però mi sorgono spontanee: perché gli stessi cartelli non sono scritti anche in Braille? Forse perché si dà per scontato che la persona non vedente o ipovedente sia sempre accompagnata? Dov’è l’accessibilità alle informazioni prevista dalla Legge 104?
E vogliamo spingerci ancora più in là? È bello vedere nei convegni la presenza degli interpreti nella Lingua dei Segni, ma poi c’è la vita di tutti i giorni, dove le persone devono andare negli uffici pubblici, nei centri medici, in banca ecc. Ovvio che non si possa assicurare ovunque la presenza di interpreti, penso tuttavia che sarebbe opportuno e doveroso iniziare a porsi il problema in modo serio, cercando soluzioni sostenibili e attuabili e che assicurino il più possibile a tutti la fruizione di servizi e informazioni in autonomia.
Penso in conclusione che in questi trent’anni sia stato fatto un buon cammino nella direzione dell’emancipazione e dell’inclusione delle persone con disabilità; ritengo tuttavia che esista il rischio di battute d’arresto, se non di involuzione, su qualche aspetto che è invece molto importante per la qualità della vita delle persone con disabilità. È allora utile avere sempre presente quanto stabilito dalla Legge 104/92, non meno che da documenti più recenti come la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilita, ratificata dal nostro Paese nel 2009 [Legge 18/09, N.d.R.], fare memoria dei princìpi, degli intenti che hanno guidato la loro stesura e far sì che essi trovino piena attuazione nei provvedimenti e nelle azioni future in favore delle persone con disabilità.