Quando venne approvata, nell’ormai lontano gennaio del 2004, la Legge 6, che ha introdotto in Italia l’istituto dell’amministrazione di sostegno, venne accolta con grande entusiasmo e aspettative dall’associazionismo di settore. Chi l’aveva promossa e sostenuta conosceva bene la portata ablativa dei diritti dell’interdizione e dell’inabilitazione che, senza guardare alle reali capacità della persona, e spesso sulla sola base di una diagnosi, stabilivano che alla stessa venisse preclusa la possibilità di compiere un “pacchetto preconfezionato” di atti giuridici. «Per proteggerla e tutelarla», era la motivazione “ufficiale”; per preservare un’idea di «essere umano perfetto se privo di disabilità», rivelerà il senno di poi. Laddove l’interdizione e l’inabilitazione erano istituti (“abiti”) rigidi e costrittivi – “scafandri da palombari” –, l’amministrazione di sostegno sarebbe stata un abito cucito su misura sulle caratteristiche della persona. Un “abito” morbido, comodo e accogliente, adatto a rispettare, assecondandola, l’unicità dell’espressione umana, questo si scorgeva nelle sue finalità. «[…] tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente», così recita l’articolo 1 della Legge in questione (grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni).
Una disposizione, dunque, in qualche modo anticipatrice della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006, in quell’impostazione che suggeriva di approcciarsi alle persone con disabilità a partire da ciò che sono capaci di fare, e proponendo un sostegno solo a fronte di una comprovata difficoltà. Doveva essere un abito su misura e invece… Invece già dai primi anni della sua attuazione divenne evidente che, sotto il profilo applicativo, qualcosa non stava funzionando come avrebbe dovuto.
Nel Dossier – abusi nelle amministrazioni di sostegno: due anni di indagini, i silenzi scandalosi, le domande (pubblicato da «La voce di Trieste» il 16 aprile 2013, e ripreso in estratto nel sito dell’Associazione Diritti alla Follia), Paolo G. Parovel descriveva ciò che stava documentatamente accadendo a Trieste e altrove in Italia, in maniera episodica o sistematica: «Vengono sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi; il provvedimento viene assunto contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate di alcuni operatori sociosanitari; il tribunale non affida il ruolo di amministratore di sostegno a parenti o persone amiche adatte e gratuitamente disponibili, ma ad avvocati, commercialisti od ai predetti operatori, ed anche con onorari a spese dell’amministrato; tali amministratori ricevono dal giudice poteri totalitari, analoghi a quelli dell’interdizione, che giungono a privare l’asserito “beneficiario” non solo dell’amministrazione dei suoi beni ma anche della gestione della propria salute e addirittura della corrispondenza. Si tratta di violazioni radicali ed anticostituzionali dei diritti fondamentali alla difesa ed al giusto processo, destinate a particolari soggetti deboli in violazione del principio di eguaglianza dei cittadini. E tali da consentire anche arbitrii concreti gravissimi che trasformano i “beneficiari” teorici di sostegno [in] vittime inermi di abusi intollerabili».
Tre anni più tardi, nel 2016, anche il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, nelle sue Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’applicazione della citata Convenzione (che, va ricordato, è stata ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/09), si esprimerà sul tema. In particolare, valutando l’applicazione dell’articolo 12 del Trattato (in materia di Uguale riconoscimento davanti alla legge), il Comitato ha raccomandato «di abrogare tutte le leggi che permettono la sostituzione nella presa di decisioni da parte dei tutori legali, compreso il meccanismo dell’amministratore di sostegno, e di emanare e attuare provvedimenti per il sostegno alla presa di decisioni, compresa la formazione dei professionisti che operano nei sistemi giudiziario, sanitario e sociale» (punto 28).
Giusto due anni prima, nell’aprile del 2014, il Comitato aveva dedicato proprio all’articolo 12 il primo dei suoi Commenti generali, preziosi strumenti elaborati allo scopo di dare agli Stati indicazioni circa la corretta applicazione dei singoli articoli della Convenzione.
Venendo ai giorni nostri, sono diversi gli Enti attivi nel contrastare gli abusi commessi nell’applicazione dei tre istituti giuridici che vanno ad incidere sulla capacità legale delle persone con disabilità e in particolare contro quelli agiti attraverso l’amministrazione di sostegno. Ne segnaliamo alcuni.
C’è l’UNASAM (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale), cui si deve una Proposta di Linee Guida per la corretta applicazione della Legge 6/2004 sull’Istituto dell’Amministrazione di Sostegno (5 maggio 2021); c’è la già citata Associazione Diritti alla Follia, che offre consulenza legale e ha intrapreso diverse iniziative di sensibilizzazione sui temi in questione; c’è l’UHRTA (United Human Rights Trieste Association), che promuove il rispetto dei diritti umani e fa divulgazione attraverso le testimonianze delle persone del territorio che hanno avuto la disavventura di scontrarsi con un sistema il quale, lungi dal tutelare i diritti fondamentali, si è rivelato oppressivo e disumanizzante; c’è l’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), cha ha sperimentato e sta tuttora sperimentando modelli e strumenti innovativi di sostegni per la presa di decisioni e per la piena inclusione sociale delle persone con disabilità intellettive (cito, solo a titolo esemplificativo, il progetto del 2018 Capacity: la legge è eguale per tutti, dal quale sono scaturite diverse raccomandazioni per l’attuazione del cosiddetto “processo decisionale supportato”).
La materia è ampia. Per ragioni di sintesi ci soffermeremo solo su alcuni aspetti, tra i tanti individuati, che ci sembra rendano bene l’idea delle tante degenerazioni a cui si presta l’attuale disciplina degli istituti di tutela che il nostro ordinamento giuridico evidentemente non riesce a prevenire e ad arginare.
La Proposta di Linee Guida avanzata dall’UNASAM è volta a sanare le diverse criticità riscontrate nell’attuazione della Legge 6/04, cercando di fare chiarezza sulla corretta applicazione della norma stessa. Nel tempo si sono costituite Associazioni (od Organizzazioni) di amministratori di sostegno «come se si trattasse di una professione e non di un impegno civile volontaristico e gratuito che doveva privilegiare (nella nomina) i familiari della persona beneficiaria o [una] persona di sua fiducia», argomenta l’UNASAM, illustrando le anomalie individuate.
Nei fatti, spiega l’organizzazione, l’istituto si è trasformato «in una “professione” remunerata attraverso il pagamento di una quota mensile (autorizzata dai Giudici Tutelari) che si aggira di norma sui 250/300 euro», una quota che viene autorizzata a carico del beneficiario anche quando questo ha come uniche entrate la pensione di invalidità civile e l’indennità di accompagnamento, e dunque determinando un ulteriore impoverimento dello stesso. «Accade inoltre – proseguer l’UNASAM – che gli stessi beneficiari non ne vengano informati. Si danno casi di amministratori di sostegno a cui sono stati affidati 30, 40, 50, 60 beneficiari e anche più. Le professioni che più hanno beneficiari di cui occuparsi sono costituite da avvocati, commercialisti, persone che operavano o che operano nei servizi sanitari e sociali. Inoltre, vengono nominati amministratori di sostegno sindaci o assessori ai servizi sociali, in aperta violazione dell’articolo 408 del Codice Civile; costoro, a loro volta, delegano altri a svolgere tale funzione».
Ci sono poi troppi casi nei quali «non esiste alcun rapporto fiduciario tra il beneficiario e l’amministratore di sostegno che agisce in piena autonomia sulla gestione delle risorse finanziarie e non si occupa del progetto di vita del beneficiario, delle sue aspirazioni e dei suoi reali bisogni».
E ancora, alcune anomalie si configurano come dei veri e propri conflitti d’interesse, come «il massiccio ricorso, da parte dei servizi pubblici (in particolare i servizi di salute mentale) all’amministrazione di sostegno, con indicazione di persona di fiducia del servizio, per togliere alle persone in cura o ai loro familiari qualsiasi possibilità di discutere, valutare o se del caso contrastare l’operato del servizio, in particolare per quanto riguarda i percorsi di cura personalizzati, la prescrizione e somministrazione di farmaci, l’invio in strutture residenziali, e persino le pratiche coercitive nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura o altri luoghi della cura e dell’assistenza».
Càpita inoltre che a volte i servizi abbiano utilizzato gli amministratori di sostegno per gestire situazioni di «utenti particolarmente diffidenti o contrari alle offerte di cura, difficili da motivare e da “agganciare” e, nel complesso, impegnativi. È parso infatti che, in alcune situazioni, fossero delegate a tale figura funzioni più proprie dei curanti, con il risultato di ampliare oltre misura il potere dell’amministratore di sostegno, deresponsabilizzando nel contempo le figure sanitarie».
Finisce così che l’amministrazione di sostegno, nata per distinguersi dall’interdizione e dall’inabilitazione, non se ne distingua affatto. Tanti amministratori di sostegno, sottolinea l’UNASAM, possono «agire in piena libertà, con mandato ampio, sottraendo alle persone che non sono interdette (ma si agisce come se lo fossero) il diritto ad esprimere una propria opinione, assumere una decisione, autodeterminarsi; entrando nel merito e nella decisione di qualunque atto riguardante la vita della persona beneficiaria. Anche in presenza di contrasto e dissenso nelle decisioni da assumere vi è stata una ripetuta violazione dell’articolo 410 del Codice Civile, in base al quale «l’amministratore di sostegno deve tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere nonché il Giudice Tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso».
Un altro aspetto particolarmente grave sono le segnalazioni di nomine avvenute senza avere sentito preventivamente il beneficiario, o la difficoltà da parte dello stesso di essere audito tempestivamente dal Giudice Tutelare nelle situazioni di conflitto con l’amministratore di sostegno.
Le segnalazioni di abusi sono state tante e tali che frequentemente l’UNASAM ha dovuto fornire ai beneficiari e ai loro familiari un supporto, anche legale, finalizzato alla richiesta di revoca della misura o alla sostituzione dell’amministratore di sostegno. Né le cose non vanno meglio sul fronte dei controlli, viste le difficoltà dell’Ufficio della Volontaria Giurisdizione a verificare puntualmente l’operato degli amministratori di sostegno e a mantenere un rapporto diretto con i beneficiari, allo scopo di consentire loro di poter agilmente denunciare inadempienze e abusi.
Interessante è anche la campagna di informazione e denuncia Se la tutela diventa ragnatela, lanciata dall’Associazione Diritti alla Follia per sensibilizzare sugli aspetti problematici frequentemente riscontrati dai beneficiari dell’amministrazione di sostegno e dai loro familiari.
Tra questi vi è la tendenza dell’amministratore di sostegno a sostituirsi al beneficiario, in evidente contrasto con l’articolo 12 della Convenzione ONU secondo cui il supporto al processo decisionale deve essere effettuato nel rispetto della volontà e delle preferenze della persona con disabilità. «Spesso è l’amministratore ad interfacciarsi con i servizi sanitari e/o prestare al posto dell’amministrato il consenso informato alle cure e ad effettuare le scelte al suo posto», spiegano.
Non di rado i Decreti di nomina emanati dai Giudici Tutelari «conferiscono “ampi poteri” agli amministratori di sostegno, spesso estranei alla famiglia, in cui si prevede, oltre alla gestione del patrimonio, anche il consenso informato ai trattamenti sanitari, ai ricoveri, agli esami diagnostici, etc., spesso in presenza di soggetti assolutamente capaci di esprimere un giudizio, parere, consenso o dissenso».
A onor del vero, in molti casi l’amministrazione di sostegno così com’è funziona benissimo, precisa l’Associazione, e tuttavia le disposizioni normative contengono delle «trappole logico-giuridiche» le quali consentono che essa possa essere utilizzata anche come strumento di interdizione impropria su qualsiasi soggetto debole. «Essa estende infatti smisuratamente le categorie di persone sottoponibili al provvedimento, perché stabilisce che il Giudice Tutelare possa sottoporre ad amministrazione di sostegno, su richiesta o segnalazione, la persona afflitta da una “infermità o menomazione fisica o psichica” che la renda “anche solo parzialmente e temporaneamente” impossibilitata a provvedere ai suoi interessi».
A fronte di questa vasta platea di beneficiari, e delle altrettanto ampie prerogative accordate al Giudice Tutelare, «la legge non offre la minima certezza giuridica sulla tipologia ed il grado dell’infermità e dell’incapacità necessarie e sufficienti a limitare le libertà della persona (perché di questo si tratta), sottoponendo la vita di un qualsiasi soggetto fragile, ed i suoi beni, ad un amministratore di sostegno, che molto spesso si sostituirà alla volontà del soggetto, negandone così il diritto costituzionale ad autodeterminarsi nel rispetto delle leggi vigenti».
Secondo Diritti alla Follia, inoltre, la Legge 6/04 presenta una certa ambiguità, «laddove il Giudice Tutelare competente può, discrezionalmente e senza garanzie particolari, imporre un amministratore di sostegno diverso da quello scelto e pre-designato dallo stesso beneficiario». Infatti, spiegano dall’Associazione, «non costituisce condizione necessaria per l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno la circostanza che il beneficiario abbia chiesto, o quanto meno accettato, il sostegno e abbia indicato la persona da nominare, nel senso che il rifiuto non preclude l’istituzione della protezione giuridica nei suoi confronti». Eppure «la legge 6/2004, non può e non deve assumere connotati di ulteriore menomazione, limitazione personale e violenza psicologica nei confronti dei soggetti deboli e/o delle loro famiglie, poiché non è con, e per quello scopo, che è stata istituita», sintetizzano i promotori della campagna, arricchita da diverse testimonianze, proposte, raccomandazioni e approfondimenti.
Un altro aspetto spesso sottolineato dall’Associazione, anche in occasione di convegni, riguarda l’atteggiamento nei confronti dei familiari e parenti della persona sottoposta ad amministrazione di sostegno che, se chiedono spiegazioni, o comunque vigilano sull’operato dei Giudici Tutelari e degli amministratori di sostegno, frequentemente diventano bersaglio di molteplici denunce con capi d’imputazione anche molto fantasiosi. L’Ente ritiene che tali pratiche siano poste in essere a scopo ritorsivo e per affermare una sorta di “principio di non ingerenza” nell’operato della diade Giudice Tutelare/amministratore di sostegno.
Un ultimo elemento degno di nota riguarda la proposta, avanzata da Diritti alla Follia, di superare gli attuali istituti giuridici di tutela attraverso l’istituzione in Italia del “supporter personale”, ispirato al modello svedese dell’Ombudsman Personale. Una figura, questa, impiegata esclusivamente su richiesta degli utenti psichiatrici, che ne sono i clienti, e che usufruiscono del servizio in modo gratuito.
Si tratta di una figura che in qualche modo ricorda quella dell’assistente personale autogestito proposta dai Movimenti per la Vita Indipendente delle persone con grave disabilità. Per comprendere meglio le caratteristiche e le prerogative del “supporter personale”, è possibile consultare gli approfondimenti pubblicati nel sito dell’Associazione, nella sezione dedicata alla campagna Se la tutela diventa ragnatela.
È difficile stabilire se le criticità esposte siano sanabili “semplicemente” stringendo le maglie della discrezionalità accordata ai Giudici Tutelari e intervenendo sulla Legge 6/04, per renderla maggiormente aderente alle disposizioni sulla capacità legale universale introdotta dall’articolo 12 della Convenzione ONU, oppure se sia necessario accogliere la proposta di introdurre nuove figure giuridiche deputate a tale scopo. Direi che “trovare il modo” sia materia da giuristi. Ma se è vero che, come abbiamo visto, l’attuale dispositivo giuridico si presta anche a configurare situazioni di arbitraria compressione dei diritti di soggetti vulnerabili, quando non delle vere e proprie violenze, diventa evidente che l’introduzione di qualche correttivo si connota come urgente.
Per approfondire ulteriormente il tema trattato, suggeriamo anche la consultazione di: Sara De Carli (a cura di), L’amministratore di sostegno non è in linea con la Convenzione ONU, intervista a Donata Pagetti Vivanti , in «Vita», 28 settembre 2016; Paolo Cendon, Parla il “padre” dell’amministratore di sostegno: va applicato, non eliminato, in «Vita», 10 ottobre 2016.