Adriano passava. Non vedeva nessuno. Spesso rideva. Nessuno sapeva che Claudio dopo l’”esaurimento”, aveva cominciato a bucarsi, fino a quando l’hanno trovato riverso dietro un muro. Armida aveva aspettato il primo treno, nel buio di un gelido mattino d’inverno, dopo avere appoggiato la testa sulla rotaia. Aveva lasciato sei figli piccoli e un marito zoppo. Terenzio spesso usciva nudo in strada. La madre disperata lo cercava per le strade facendosi il segno della croce continuamente. E tanti altri…
La vergogna, l’ansia e la paura di ieri sono le stesse che vivono oggi i genitori, le mogli, i mariti, i figli di chi ha una malattia mentale. Allora i paesani ne parlavano sottovoce. Il passaparola ci informava di quello che era successo. I commenti, i sentimenti e le emozioni erano condivisi. Oggi siamo sempre in corsa, troppo presi da noi stessi per occuparci degli altri, per condividere le sofferenze degli altri. Oggi abbiamo i social. Ci ritroviamo lì! Del resto siamo troppo abituati a vedere, sempre meno a guardare e osservare, ancor meno a comprendere. Viviamo fra gli altri, ma siamo sempre più soli. Gli altri sono sempre più trasparenti. Ci accorgiamo di loro solo quando siamo spinti dai nostri bisogni, dalle nostre necessità, dalle nostre paure.
Fra gli altri, però, ci sono quelli che sono ancora più trasparenti. Quando li vediamo passiamo oltre, fisicamente e con il pensiero. Per la malattia mentale non c’è diritto di cittadinanza! Ma sono fra noi! Loro ci guardano. Scrutano la nostra presenza. Spesso hanno paura di noi e ci guardano sottecchi, sperando di non essere visti. Molti si rifugiano nelle loro solitudini, nelle loro case spente alle emozioni positive.
E ci sono anche quelli che ci disturbano con i loro strani comportamenti, che ci minacciano con i loro atteggiamenti; allora li guardiamo, a volte con disprezzo, a volte divertiti, a volte con diffidenza e paura. Richiamano la nostra attenzione, ma non la nostra comprensione. Costruiamo pregiudizi e stereotipi e li stigmatizziamo. Quasi mai ci soffermiamo a pensare a loro, alla loro vita, alla loro famiglia e alle loro condizioni. Non ci interessano. Non abbiamo tempo.
Eppure non sono pochi! E ci ostiniamo a credere che la malattia mentale non ci riguardi, che sia un rischio che corrono gli altri. Ma non è così! È un’ombra che ci segue, ci spia, pronta a diventare la nostra ombra. Non esiste un’immunità e nemmeno un vaccino. Tutti siamo a rischio. La malattia mentale ci fa paura, ma non è fuggendola che ci salviamo.
Vite strappate, ignorate, accusate, disprezzate, con cui non vogliamo condividere nulla. Ma esistono, e con loro le loro famiglie. Famiglie che vivono un’ansia perenne, nella preoccupazione di vederli uscire di casa, e nell’ansia, a volte paura, di vederli rientrare. Non viene dato loro né sollievo né respiro dalla società e dallo Stato.
«Beh! Hanno servizi socio-sanitari a loro disposizione, percepiscono pensioni, ci sono strutture che li curano». Ci fa comodo pensare questo. Ci sentiamo assolti, e continuiamo non volerli con noi. Non li vogliamo come colleghi sul posto di lavoro, non li vogliamo come nostri dipendenti. Ogni azienda che incontro quando mi chiede lavoratori con disabilità da assumere aggiunge: «Però che non siano psichici»… Le aziende non li vogliono. A volte sono gli imprenditori o i manager che dicono schiettamente di non gradirli, altre volte si giustificano dicendo che sono gli altri lavoratori a non volerli. Comunque sia, le persone con malattie mentali appartengono ad una categoria di disabilità fortemente penalizzata, che difficilmente accede al mondo del lavoro, e, se è già in azienda, spesso viene allontanata alla prima occasione.
La Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) non ha risolto questo problema. L’articolo 9 si essa dice espressamente che: «I disabili psichici vengono avviati su richiesta nominativa mediante le convenzioni di cui all’articolo 11». Quindi, detto in altro modo, solo quando li scelgono i datori di lavoro, ossia mai; fatta eccezione per rarissimi casi. Un articolo così strutturato richiede la presenza di personale professionalmente qualificato, totalmente assente negli attuali servizi pubblici per il Collocamento Disabili. Gli operatori addetti non sono preparati per presentarli alle aziende, non sono in grado di sostenerli, inoltre mancano buone prassi e strumenti adeguati per inserirli nel mondo del lavoro. E ancora, in molte Regioni non ci sono nemmeno le convenzioni con le Cooperative Sociali, previste dalla cosiddetta “Legge Biagi” del 2003 [Legge 30/03, N.d.R.], le adozioni lavorative a distanza, lo smart wuorking integrato, le isole formative ecc.
Non sono loro che non vogliono o non possono accedere al lavoro, ad un ruolo sociale, a una vita partecipata e inclusa, è il sistema del collocamento pubblico che non è in grado e non sa cosa fare in merito. Che tace la situazione, e che tacita l’opinione pubblica dicendo che con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza verranno messe a disposizione ingenti somme di denaro e un “esercito” di nuovi operatori, gestiti però dagli Enti di sempre. È quindi sin troppo facile prevedere che la situazione non cambierà.
Per ottenere dei risultati dobbiamo elaborare proposte concrete, da sottoporre ai politici e ai dirigenti regionali. Spesso, infatti, non sanno cosa fare e come farlo. Aiutiamoli ad aiutarci: è necessario che gli interessati, chi vive e lavora con loro e per loro, ricominci a muoversi, ad avere idee e proposte, e a raccogliere le novità normative e di mercato che possono facilitare il loro inserimento nel mondo del lavoro. Organizziamoci, il nostro silenzio è complice.