Vorrei ancora una volta tentare un tentativo di fare un passo verso una nuova cultura delle disabilità, rivolgendomi non tanto agli “esperti” del mondo delle disabilità o a famiglie che hanno uno o una persona con disabilità in casa, e tanto meno a chi vive una situazione disabilizzante, ma piuttosto a tutti coloro che sono ignari di questa realtà. Partendo da un assunto: che il problema non è essere “una persona disabile”, ma il vero problema è essere “persona”, nella propria totalità, trovare un posto peculiare del sé. Anche questa è una scelta.
Quando si pensa a una persona con disabilità, sovente la si pensa come a una limitazione per sé e per chi le sta accanto. La si interiorizza come “una lei o un lui, che non può” o “non potrà mai fare da solo o da sola…”. Perché in quella persona non si intravede la possibilità di poter scegliere o decidere autonomamente. Allora ci si deve chiedere cosa vuol dire o cosa significa “scegliere o scelta?”. Se si sfogliasse la Treccani o il De Mauro, potremmo trovare che libertà di scegliere significa: autodeterminazione, consapevolezza, possibilità, responsabilità. Partendo dal presupposto che ogni libertà trova il proprio limite nella libertà altrui, la libertà trova il suo fondamento nell’autodeterminazione, nella possibilità di scegliere ciò che si ritiene meglio per sé. Se noi tenessimo buono solo questo enunciato, allora la persona che vive in un contesto disabilizzante ci risulterebbe impossibilitata a fare le proprie scelte, dovendo dipendere sempre dagli altri e la considereremmo “diversa” o un’“incapace. Noi invece vorremmo un nuovo pensiero culturale delle disabilità, delle diversità, e per riuscire a fare questo, occorre analizzare il mondo, direi la quotidianità, della persona con disabilità, per destrutturare tutti gli stereotipi esistenti. Solo così, infatti, riusciremo a creare quella “nuova pedagogia della disabilità” di cui scrivo ormai da tempo.
Provo, come dicevo, ad entrare maggiormente nel quotidiano, dipanando azione dopo azione e sviscerando le possibilità di scelta di una persona che vive in un “contesto disabilizzante” (uso questo termine – disabilizzante – per sottolineare ancora una volta che non è la persona ad essere “un disabile”, ma il contesto intorno a sé a creare la sua disabilità).
Per intraprendere questa dissertazione, mi faccio accompagnare da Franz Kafka, e da una delle sue grandi opere, La metamorfosi, dove l’Autore ci presenta Gregor Samsa come se portasse sulle spalle una colpa innata: quella della diversità. Una dimensione che ritroviamo oggi soprattutto nell’emarginazione sociale e culturale dettata dalla paura del diverso, del “non io”, che trasforma le differenze in una responsabilità originaria che ha un peso enorme sull’individuo. Ma questo non è l’unico tema in cui possiamo ritrovare dei riverberi sul nostro contesto attuale. Nell’opera di Kafka, ad esempio, la famiglia della persona con disabilità, pur percependola come un problema, per restare unita sembra in un cero senso avere bisogno di quella persona, o meglio del suo essere disabile. Nel racconto, infatti, più passa il tempo e più genitori e sorella si ritrovano legati da un senso di superiorità, che però non fa che aumentare la loro distanza nei confronti di Gregor ed evidenziare il suo essere diverso, togliendogli ogni possibilità e capacità di scelta. È così che questa pagina diventa attuale.
In altre parole Kafka ci mostra quanto ogni gruppo sociale in alcuni contesti necessiti di una minoranza per riconoscere la propria identità, costruendo così molti contesti disabilizzanti, costruendo diversità di ogni genere e divergenze di ogni natura e di pensiero. Da un lato, dunque, Gregor è il fardello della famiglia, dall’altro lo strumento di unione dei suoi familiari, ma non viene mai interpellato in una relazione in cui può nascere la sua scelta.
Proviamo ora a dipanare e a esaminare le molteplici disabilità che potremmo incontrare. Una persona con disabilità in carrozzina, con paraplegia, facilmente può guidare e scegliere di conseguire l’abilitazione alla guida di un’auto; altre persone con disabilità sempre in carrozzina vorrebbero, ma non possono scegliere di guidare, a causa di una spasticità, di un limite cognitivo, di un disturbo sensoriale grave (cecità ecc.). Allora penso che volendo parlare a persone che non conoscono le disabilità, vada innanzitutto specificato quale disabilità si stia affrontando.
Proviamo a immaginare Luca, 27 anni, in carrozzina senza un deficit cognitivo, una persona costretta a vivere in un contesto (estremo) che lo rende disabile: il suo appartamento è al terzo piano senza ascensore, vive con i genitori anziani e l’assistente tutte le mattine lo va a lavare e mettere in carrozzina. L’assistente entra nella vita di Luca con professionalità, ma omettendo di conoscere la volontà del ragazzo; infatti non gli chiede «come vuole essere lavato?» o «come vuole essere vestito?» e così via. Soffermiamoci un attimo su queste due domande, perché chi aiuta la persona con disabilità, assistente o parente e via discorrendo, se non prendesse tali quesiti in seria considerazione, rischierebbe di annullare Luca e di conseguenza la sua possibilità di scelta. Dunque quelle domande vanno fatte ogni volta, per rendere vivo, attivo e protagonista della vita il nostro Luca.
Guardiamo ora la scena da un’altra angolazione. Una persona così definita “normodotata” la mattina si alza quando vuole, va in bagno, decide/sceglie di lavarsi, di farsi una doccia da solo, nella sua intimità, rispettando i suoi tempi, stando col proprio corpo, in una modalità che chiameremo “corpo-tempo”. Ebbene, una persona con disabilità, quando è presente l’assistente, difficilmente godrà del suo corpo-tempo. Ma cosa intendo esattamente per “corpo-tempo”? Un corpo, per essere considerato vivo, deve agire le proprie azioni e per poterlo fare ha bisogno del suo tempo, di quel “tempo” e di tutto quello “spazio” che lo rende vivo in quelle sue “scelte”: in una persona con disabilità le scelte si attuano nella risposta che vorrebbe ascoltare “nelle domande” del “corpo-tempo”.
Proviamo allora a immaginare una giornata tipo di Luca, ma nel concetto che dicevamo poc’anzi di “corpo-tempo”, quel corpo vissuto e fatto vivere. Vissuto dall’assistente, perché lei lo tocca, lo sveste, lo riveste, e che contemporaneamente dovrebbe trovare spazio e modi perché anche Luca potesse vivere il proprio corpo. Basterebbero poche parole: «Come vuoi essere alzato?», «Come vuoi essere lavato?», «Come vuoi essere vestito?», «Cosa vuoi fare oggi?», «A che ora vuoi andare a letto?». Attraverso tutte queste domande e altre ancora, in maniera trasversale con il “tempo adeguato”, il “corpo” di Luca vive, perché lui ha la possibilità di fare le sue “scelte”. Ma oggi non si vuole avere più tempo, né per noi stessi e tanto meno per le “scelte” di Luca, al punto che la persona non viene più chiamata per nome, ma la si fa diventare “l’utente” o “il caso”; disumanizzando persino la sua disabilità nel suo deficit, dedicandogli solo il tempo pattuito dai servizi sociali o dalle cooperative che lo hanno in carico.
Anni fa scrissi un intervento su «Tempo-Spazio», per il mio caro amico Gianfranco Zavalloni, dirigente scolastico, che pubblicò nel suo libro La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e nonviolenta, dove già in modo celato anticipavo il concetto “corpo-tempo”, dichiarando: «Oggi possiamo vedere che anche la relazione ha un suo “tempo”, una sua velocità, la velocità della relazione, dove si brucia l’esperienza dell’altro». A questo punto farei una distinzione tra “il tempo uomo” e “il tempo ore”; nel primo la persona con disabilità può vivere perché non ha limitazioni, non ha barriere, è il tempo del ricordo, del sogno, della speranza. Nel secondo, invece, non c’è posto per il disabile, per la carrozzina; è il “tempo” della fretta, della competizione, di chi deve arrivare alla sua meta. Con un disabile questo non funziona, perché la disabilità stessa lo obbliga a una sua lentezza. Pone a chi si relaziona con una persona disabile un “tempo uomo”, una corporeità, e questo nella dimensione della fretta può spaventare; perché una persona con disabilità va toccata, vestita, svestita, accudita, e questo richiede tempo e calma. Un tempo e una calma, che ti portano a una riflessione del tuo “io”, a cui ti hanno insegnato a non dare ascolto.
Se si vuole cercare a tutti i costi una differenza tra la persona con disabilità e il “normodotato”, essa consiste nel fatto che il disabile è costretto a fare i conti con il proprio “sé”, un “sé” corporeo, limitato.
Giunto a questo punto mi soffermo su un ulteriore concetto: ogni tipo di “relazione” comprende due aspetti collegati: quello della “scelta” e quello del “corpo”, e quindi del “corpo-tempo”. Qui si entra in un aspetto ancora più fondamentale dell’argomento. Il nostro Luca, oltre a non essere più considerato solo “un corpo in balia dell’attesa” dell’altro, o messo ugualmente in condizione di poter “scegliere”, dovrà essere scelto. Proviamo ora a dipanare questo concetto non solo dalla prospettiva di Luca, ma da un punto di vista più esteso, e non esclusivamente pensando al mondo della disabilità. Se ci pensiamo bene, in qualsiasi tipo di “relazione” che si vive c’è sempre un “corpo-tempo” e un “essere scelto” e forse può essere più semplice pensare a questi due concetti prendendo in considerazione una relazione affettiva, familiare, o tra amici, o anche una relazione sentimentale, amorosa, o di qualsiasi altro tipo.
Quindi osserviamo cosa vuol dire “essere scelto” e questa volta lo facciamo attraverso una ragazza e un ragazzo. In una coppia chi “sceglie” veramente “l’altro”? “Sceglie” chi fa il primo passo e si dichiara, con gesti, e ammiccamenti vari? O piuttosto “sceglie” chi è corteggiato? Di primo acchito, diremmo che “sceglie” chi corteggia. Ma qui serve un’ulteriore premessa: tutte le nostre “scelte” saranno e sono sempre condizionate dal contesto in cui siamo e in cui viviamo, non esistono infatti “scelte veramente libere”, prive di influenze esterne alle nostre volontà o decisioni. Detto ciò tentiamo di rispondere alla nostra domanda: «in una coppia chi “sceglie” veramente “l’altro”?». Ovviamente tutti e due, ma non basta, perché si intravvede una successiva scelta, forse la più decisiva, quella di “essere scelto”. La persona a cui viene fatta la corte, a sua volta deve scegliere, deve rispondere a quella lusinga, a quella domanda del ragazzo o della ragazza e deve scegliere di essere stato “scelto o scelta”.
Andiamo ora a collocare questo concetto nella vita di Luca. Quante volte è stato “veramente scelto”, Luca? Scelto nel suo essere persona, nel suo vivere un deficit, nel suo essere sessuato, nella sua sfera emotiva, affettiva? Approssimarsi a una persona vuol dire instaurare una relazione; perciò vediamo tutte quelle persone che ruotano attorno al mondo e al corpo di Luca. Probabilmente avranno scelto di stare con lui a scuola, in un centro diurno o in un centro di riabilitazione o in famiglia. Ma pochissimi “sceglieranno” di “essere scelti” da Luca. Per quello che dicevo poc’anzi: l’“essere scelto” nella “relazione” implica fare un’azione-verso, un’azione rigeneratrice che sappia creare e che nel suo voler essere porti a un corpo vivo.
Potremmo quindi concludere dicendo che la persona con disabilità, quando interpella la cerchia di coloro che lo circondano per aiutarlo e accudirlo, chiede loro di “essere scelto”. Scelto di essere ascoltato nei suoi tempi, lavato, pettinato o semplicemente di guardarsi allo specchio con i tempi che scandisce lui e non più gli altri; o di essere ascoltato nei suoi tempi intimi, “essere scelto” nella complicità di poterli vivere.
Perciò si può dire che la scelta di chiunque di noi, persona con disabilità o meno, si può trovare al bivio del libero arbitrio e tutti abbiamo il diritto di giungere a quel bivio, per quanto ci sia possibile, nelle nostre libertà di poter “scegliere”.