Informazione, politica, cultura: c’è un gran “frullo” nel mondo della disabilità. Attenzioni politiche, da destra e da sinistra, che da tempo non si vedevano, vedi anche, ma non solo, il Ministero per le Disabilità. Complici il Covid e lo sparire dalle narrazioni mediatiche dei corpi altri dei migranti. Ma anche molta semplificazione e banalizzazione. Molto fermento legislativo: leggi approvate o in corso di approvazione.
Poche le figure autorevoli di riferimento rimaste in giro, nella politica, nei servizi, nel mondo accademico e in quello associativo. Servono meno polemiche legate alla cronaca, meno “eroi disabili” in cima ai grattacieli quasi a sfidare il divino. Più ascolto. Più competenze. Più sapere interdisciplinare. Meno fede che l’accessibil-inclusiv-sostenibil tutto possa e lo possa per tutti.
La disabilità è un tema/realtà complesso/a e pensare che lo si possa affrontare solo in chiave politico-culturale è un forte limite. Così come è ovviamente necessario affrontarlo anche in chiave politico-culturale e non solo socio sanitaria.
Dentro a questo “frullo” vi è anche un robusto e interessante filone di riflessione culturale e filosofica sulla disabilità e, dentro questa, un riemergere prepotente del tema del corpo, del corpo della persona disabile e del suo stare, il corpo, nel mondo e parlare al mondo.
Un corpo, e prendo a prestito le parole di Umberto Galimberti di tanti anni fa, che mi capita sovente di utilizzare, spesso giudicato o-sceno, fuori dalla scena, del rappresentato e del rappresentabile (1).
Un corpo che è stato nella storia ora paradossalmente crudamente visibile quando era nascosto, imprigionato, chiuso negli Istituti e nelle ferraglie ortopediche, messo uno accanto all’altro nelle lunghe file di carrozzine delle colonie al mare degli Anni Sessanta. Ora paradossalmente meno visibile nell’era della deistituzionalizzazione, integrazione, dei servizi, dello psico-socio-pedagogico, del corpo svincolato dal primato del sanitario e per questo reso meno carne e nudità.
Un corpo che ora ripropone se stesso, riappropriandosi, ad esempio, di alcune categorie da cui era escluso e si era escluso: vittoria, velocità, viaggio. Che mostra nudità non più sanitarie, ma da calendari, social network, che mostra la propria “anima di ferro” invece che nasconderla.
Un corpo raccontato anche da voci femminili e da chi si occupa di legge, un corpo che si “riorganizza” attorno a categorie come uomo/donna, politico/personale, integrazione/discriminazione, servizi/diritti in cui le seconde paiono funzionare, o quanto meno destare attenzioni, più delle prime.
Tra una stagione che non c’è più e una stagione che non c’è ancora
Eppure dentro a questo fervore, dentro a un protagonismo, dentro alle promesse di una vita indipendente e al diritto di un proprio progetto di vita, vedo balenare a volte anche il rischio di trarne considerazioni affrettate, e depotenziare così il processo culturale in corso, per capitalizzare in fretta consenso e mercato. Consenso politico, da una parte, e mercato della non autosufficienza dall’altra, nel mantenere gli anziani consumatori per più tempo (…visto che detengono la maggior parte della ricchezza) e recuperare al mercato, …ai brand inclusivi, almeno le persone con disabilità motoria, in particolare quella acquisita, già precedentemente consumatori. Così come, allargando il discorso, non si può non vedere un certo limite nell’enfasi del politicamente corretto, in particolare verso le «minoranze etniche o sessuali […] che finisce per cancellare la questione sociale e le relative ingiustizie di massa nell’accesso alla ricchezza». (2)
Considerazioni affrettate, riprendendo quanto accennato sopra, molto più probabili là dove, nei territori, negli ultimi venti-venticinque anni, meno si è lavorato sull’evoluzione dei servizi (pur dentro una generalizzata esiguità del dibattito nazionale), sulla relazione con le punte più avanzate culturalmente del movimento associativo della disabilità, sulla necessità di saperi interdisciplinari, sul collegamento con le Università dopo la stagione d’oro degli Anni Settanta-Ottanta (3), sulla reale collaborazione e scambio tra Pubblica Amministrazione e tessuto associativo, consci delle diverse identità e finalità (a lato e oltre le tante ombre della Riforma del Terzo Settore), sull’evoluzione dei modelli e delle composizioni associative e relativo tema della rappresentanza, questione sempre spinosa e non priva di ambiguità nel Terzo Settore e nella Disabilità (4). E probabilmente anche molto altro.
Il rischio è che si ricorra, come sempre, alla cesura tra vecchio e nuovo, e si spendano a mo’ di parole d’ordine termini come accessibile, inclusivo, progetto autonomo di vita, quasi che fossero una filosofia “nuova” da contrapporre ad un “vecchio” fatto di assistenza, servizi, cura e non come un prodotto che proprio grazie anche a cure, assistenza e servizi si è costruito nella società, pur tra limiti e distorsioni e fattori disabilitanti, a volte negli stessi servizi: si pensi, ad esempio, a prese in carico di durata quasi cinquantennale, sospese tra l’uscita dalla Neuropsichiatria e l’entrata controversa nell’alveo degli anziani.
«Un sistema che, nell’esaltare l’autonomia e l’indipendenza individuale, ha finito col rimuovere la vulnerabilità e la fragilità umana, facendoci credere che il bisogno di cura sia una debolezza che riguarda solo alcune persone», scrive Simona Lancioni (5), e ha ragione da vendere.
Ecco allora che tutte queste considerazioni mi fanno pensare a questa frase «…dimenticami Miguel, ma non scordarti di me», letta nel libro Io sono di legno di Giulia Carcasi (6). Di-menti-care, togliere dalla mente. S-cor-dare, togliere dal cuore. La cito perché mi fa pensare che il discorso sul corpo debba parlare alla testa e al cuore. Debba parlare ai vincitori e ai vinti, veri o supposti che siano, alla felicità e al dolore. Alla possibilità e al limite e al loro impalpabile confine. Debba voltarsi indietro sfuggendo alla suggestione del traguardo e vedere che dietro c’è un grande gruppo che, come nel ciclismo, arriva tutto con lo stesso tempo, il che è una convenzione, ma non sale sul podio e non è per questo perdente.
Di corpi senza medaglie. Utilizzando il linguaggio di allora
Io conosco, per certi versi ho impresso nella carne, i particolari della disabilità, pur non essendo io una persona disabile. Forse è la mia formazione anche sanitaria che avvicina alla disabilità con un atteggiamento diverso verso quel corpo o-sceno da chi ha una formazione – o comunque un imprinting – solo sociale o educativo, e lo legge diversamente. Forse è la mia esperienza di vita, familiare e lavorativa, ripetutamente intrecciata dalla disabilità.
Ricordo le mani di Alberto, tre dita tese, come nel numero tre, e due piegate. Il braccio che si avvicinava ondeggiando all’oggetto da prendere, la vista come un timone da dover raddrizzare ogni momento. E il ritrarsi ad un centimetro, come un pilota che pensa di essere atterrato lungo e riprende il volo.
Particolari di Alberto, esiti di paralisi cerebrale infantile, che a calcetto cominciava a tuffarsi quando il tiro era ancora a metà campo. Ma doveva farlo per pararla. Alberto ci metteva un’eternità ad arrivare disteso all’angolino. Con Alberto la moviola era inutile, lui era un calciatore con moviola incorporata.
Ricordo i seni di Claudia, piccoli. Il suo ridere, anche se cadeva per terra. Gli occhi verdi che brillano sicuri di sé quando mi sorrideva emergendo dall’acqua, libera dalla paura di cadere. Avrei voluto abbracciarla, ma anche se il mio corpo la desiderava era insieme anche una minaccia al suo equilibrio instabile. L’ho vista l’ultima volta sulla spiaggia di Viareggio, era esattamente il 28 agosto 1989. Bagno Franco, numero 56. Corpi con codici diversi, con tempi diversi, con armonie diverse.
Ricordo per ultima la barba di Francesco. Un tumore gli comprimeva il midollo spinale. Una vita da sceneggiatore di teatro, da “intellettuale vecchio PCI”. Finito appeso al tubo della doccia. Finito appeso perché un giorno non ha più retto alla sua fatica. Via da Roma. La madre che invecchia. Chissà, forse anche il travaglio della sinistra italiana…
Particolari di Francesco, le mani sulle ruote che girano lente. Le mutande quasi ascellari sfilate sul water. Il profumo della sua colonia. I polpacci magri. Le pedane della carrozzina che non si sfilavano mai. E soprattutto l’orrore da talebano di chi non voleva ricordarne la morte perché, suicida, non era un bell’esempio di “diversamente-abile”.
Francesco, amico mio, vorrei quel tuo tubo di doccia e metterlo tra i tuoi infiniti libri e darlo da leggere a questo mondo che vuole solo il “profumo degli handicappati”.
Ogni vita, inevitabilmente, non è solo profumo. Diffidate di una cultura tutta Chanel al 100%.
Tre dita tese, un corpo immobile, un tubo di doccia.
Particolari di uomini, di donne, dei loro corpi, dei loro amori, delle loro morti.
Delle loro storie tutte da rispettare, anzi, mi verrebbe da dire, da amare.
Ma io posso parlare solo per me.
Note:
(1) Umberto Galimberti, La legge lo giudica osceno: erotico o paralizzato è sempre corpo del reato, in «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», 9 aprile 1988.
(2) Federico Rampini, Suicidio occidentale, Mondadori, 2022.
(3) Basti pensare allo storico ruolo svolto dai Dipartimenti di Scienza dell’Educazione, sul versante scolastico, ma non solo (tra tutti non si può non citare quello di Bologna con Andrea Canevaro) o ai Dipartimenti di Sociologia, che a partire dalla fine degli Anni Novanta si sono occupati in larga misura principalmente di Terzo Settore e tematiche affini. Entrambi, di volta in volta, con impatti diversificati rispetto al proprio territorio di appartenenza.
(4) Il mondo associativo della disabilità, al di la dei livelli nazionali e delle relative presenze mediatiche, partecipa parzialmente alle dinamiche del Terzo Settore, mantenendo anche un suo distinto specifico àmbito di azione.
(5) Simona Lancioni, Ma quel che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura, in «Superando.it», 20 dicembre 2021.
(6) Giulia Carcasi, Io sono di legno, Feltrinelli, 2007.
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