Gholam Najafi è nato a Ghazni, in Afghanistan, nel 1990. Durante l’infanzia ha lavorato come pastore e contadino. Avendo perso il padre a dieci anni, durante la guerra con i Talebani, decide di fuggire verso il Pakistan e l’Iran e, qualche anno dopo, di proseguire verso l’Europa. Risiede in Italia dal 2006 e vive a Murano (Venezia), presso la famiglia che lo ha accolto. In soli due anni ha conseguito la laurea triennale di Lingua Persiano-Araba, Cultura, Società dell’Asia e dell’Africa Mediterranea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, quindi si è specializzato con la laurea magistrale in Lingua, Politica ed Economia dei Paesi Arabi. Attualmente collabora con il progetto HERA nel contesto della migrazione, presso l’Università di Padova e si dedica a scrivere racconti e poesie sulla situazione afghana.
Con Edizioni la meridiana ha pubblicato l’opera autobiografica Il mio Afghanistan (2016), dalla quale, nel 2017, il regista Marco Agostinelli ha tratto un documentario. Con la stessa casa editrice ha pubblicato inoltre la raccolta di racconti Il tappeto afghano (2019) e Tra due famiglie (2021), anche quest’ultima centrata sulla sua esperienza di rifugiato. Ora, sempre per Edizioni la meridiana, è uscita la versione in CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa) di Il mio Afghanistan, inserita nella collana “Parimenti. Proprio perché cresco”, dedicata specificamente a testi tradotti in CAA.
La CAA è una modalità comunicativa che utilizza simboli accompagnati da parole, rendendo agevole la comprensione del testo. La traduzione, curata dal gruppo di Laboratorio Librarsi*, ha lo scopo di rendere l’opera accessibile ai lettori e alle lettrici con disabilità linguistiche e/o cognitive, a coloro che hanno difficoltà a fruire dei testi con le modalità tradizionali, e magari anche ad altri rifugiati come Najafi.
Lo scorso 23 gennaio Najafi è stato intervistato da Valentina Furlanetto per I figli di Enea, trasmissione di «Radio 24» dedicata alle storie di chi è italiano, ma che ha radici altrove. Come per tutti i rifugiati, anche quella di Najafi è un’esperienza segnata dalla duplice appartenenza e dalla difficoltà di far coesistere il legame con le proprie radici, con i nuovi legami costruiti attingendo ad una cultura profondamente diversa. Nell’intervista racconta dei problemi burocratici che hanno impedito ai suoi nuovi genitori di formalizzare l’adozione. Infatti, oltre ad essere troppo grande per essere adottato, Najafi non era in grado di produrre parte della documentazione richiesta per perfezionare la pratica (gli venivano richiesti i certificati di nascita dei suoi genitori naturali, di cui non disponeva). Ma questo non ha impedito alla sua nuova famiglia di sostenerlo ed aiutarlo in ogni momento della sua vita.
Arrivato nel nostro Paese a 16 anni, ha trascorso i primi due anni in un centro di accoglienza. A 18 anni ha lasciato il centro e ha incontrato questa nuova famiglia che lo ha accolto e lo ha fatto studiare. Nei suoi libri illustra le difficoltà che incontrano tutti coloro che arrivano in una terra sconosciuta, senza amici, senza parenti, senza genitori. «È tutto da rifare, è tutto da ritrovare», spiega. A ciò, nel suo caso, si sommava la difficoltà di dovere imparare una lingua da semianalfabeta, perché avendo trascorso l’infanzia lavorando come pastore e contadino, aveva frequentato poco la scuola. Il tema delle sue origini ricorre spesso nelle sue opere. Racconta che in Afghanistan i ragazzi si sposano a 15 anni, l’età media è di circa 45-50 anni e chi ha una vita lunga arriva al massimo ai 60. Nell’infanzia viveva in modo molto “primitivo”, tanto da ritrovarsi nelle descrizioni che i libri scolastici italiani davano della preistoria, anche se precisa che negli ultimi anni molte cose sono cambiate anche nel suo Paese d’origine.
Come detto, Najafi ha perso il padre durante la guerra ed è fuggito con il fratello. La madre è rimasta lì, non ha più avuto modo di rivederla né di sapere della sua vita, e neppure se sia ancora viva o meno. Il fatto di non sapere alimenta in lui la speranza che sia ancora in vita, e anche questo lo aiuta a vivere. Quando è scoppiata la guerra civile tra diverse etnie e anche all’interno della stessa etnia, nel suo villaggio non erano mai arrivate le macchine, il loro mezzo di trasporto erano gli asini. Dunque, all’arrivo dei “guerrieri”, con le loro armi e i loro rumori, loro sono rimasti spaventati e sorpresi del fatto che uccidessero le persone, d hanno capito che se non fossero fuggiti avrebbero subito la stessa sorte. Racconta che in quella confusione ognuno pensava di salvarsi senza preoccuparsi degli altri. L’unica persona che ha potuto portare con sé era il fratello di 7 anni. Non ha potuto portare via anche la madre, perché per uscire dal villaggio era necessario attraversare le montagne e i deserti, soffrendo la fame, una prova troppo dura per lei.
È fuggito senza neanche sapere cosa fosse e dove fosse l’Europa. In questo modo ha raggiunto prima il Pakistan e poi l’Iran, senza documenti perché non aveva idea che servissero per spostarsi. Ma il momento più terribile lo ha vissuto in Turchia, perché per pagarsi il viaggio doveva lavorare e viveva con la costante paura che lo rimandassero indietro. Dunque, quando non lavorava, si nascondeva in sotterranei freddi, chiusi e infestati dai topi. Tanto che, pur essendoci stato per sette mesi, non ha mai visto Istanbul. Ha tentato più volte di attraversare il confine del Paese senza riuscirci. Ogni volta finiva i soldi, e si ritrovava a rischiare di morire di fame in qualche bosco o comunque in solitudine. Finalmente al terzo tentativo è riuscito a giungere in Grecia. Ha viaggiato con il fratello fino in Turchia, ma successivamente si sono separati e si sono risentiti solo dopo un anno, quando il fratello è arrivato in Inghilterra e lui in Italia. Per venire in Italia ha dovuto pagare un contrabbandiere e nascondendosi sotto un camion, rerstando incurvato, senza cibo né acqua per diversi giorni. In questo modo è riuscito ad arrivare a Venezia.
Essendo sempre vissuto tra le montagne, Najafi non conosceva il mare. All’inizio aveva paura dell’acqua e di prendere il vaporetto, temeva affondasse, e lui non sapeva nuotare. Dunque si spostava sempre a piedi. Poi, attraverso la scrittura, è riuscito ad elaborare il suo percorso, a rivivere la sua infanzia e il suo viaggio. La scrittura ha salvato gran parte della sua vita, racconta. Fondamentale è stato il rapporto con la nuova madre Susanna, che l’ha aiutato letteralmente a “rinascere”. Susanna è un’artigiana e ha un negozio di vetro, ma in passato è stata insegnante alle scuole medie. Dunque mentre lei faceva le collane di vetro, lui le si sedeva accanto esercitandosi a scrivere in corsivo e in stampatello. Poi lei ha voluto che andasse a scuola, e nonostante lui abbia sempre continuato a lavorare, ha provveduto ad aiutarlo anche economicamente. Susanna si è presa cura e ha creduto in lui dandogli la massima fiducia.
Un’altra donna che lo ha aiutato tanto è stata l’insegnante di scuola superiore. Grazie a lei ha imparato ad amare la letteratura, Manzoni, Dante, Pascoli e Pirandello. Era affascinato da Pirandello, rivedeva in sé le “maschere” che aveva dovuto indossare durante il viaggio, quando era clandestino. Per aiutarlo a comprendere i testi, la sua insegnante usava un linguaggio molto semplice, ma che restituiva la ricchezza della materia. Un metodo che dovrebbe essere preso ad esempio, osserva.
Nella scorsa primavera Najafi è tornato in Afghanistan per prendere dei documenti, e lo ha trovato molto cambiato. Racconta che gli abitanti non credevano che gli Stati Uniti avrebbero lasciato il Paese, e che non erano preparati a questo. Se pensa al suo futuro, continua a vedersi a Venezia. L’acqua che prima gli faceva paura, oggi ispira le sue poesie. Ma al contempo Gholam Najafi coltiva il sogno di aprire un giorno una scuola in Afghanistan, per costruire la cultura e la pace nel Paese in cui è nato e a cui è legato. Scrive: «Viva la cultura! Aprirei una scuola anche segretamente in casa mia, in una stanza. Finché vivo lotterò per la cultura». E scrive anche questi versi: «Gli uccelli andavano via, seppellendo qui i loro sogni / Io ho parole da dire, a ognuno».
In quest’epoca in cui la guerra si è fatta più vicina anche a noi, poter disporre di opere accessibili che aiutano a conoscere e comprendere i vissuti delle persone rifugiate può certamente contribuire a costruire quella comunità inclusiva di cui si parla spesso in relazione alle persone con disabilità, ma che deve saper accogliere anche persone connotate da altre diversità. (Simona Lancioni)
*Gruppo di lavoro inclusivo attivo presso il CDH di Bologna (Centro Documentazione Handicap) ad opera della “storica” Cooperativa Accaparlante, che con le stesse Edizioni la meridiana cura la collana AccaParlante, dedicata a temi legati all’accessibilità.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso – con alcune modifiche dovute al diverso contenitore – per gentile concessione.