Ancora vittime del buono e del bello in TV, anzi del “perfetto”!

«Un tale concentrato di stereotipi, impreparazione e cattivi segnali trasmessi alla società – scrive Antonio Giuseppe Malafarina, riferendosi a un recente programma televisivo – è raro a trovarsi in TV. Oppure esiste e circola in maniera più subdola. Siamo ancora vittime del buono che deve per forza essere bello. Anzi, perfetto! Se dici infatti che una persona torna perfetta dopo aver rischiato di diventare disabile, dici che la disabilità è imperfezione, stabilendo una linea di demarcazione fra ciò che è buono è ciò che non lo è e respingendo la disabilità a un livello inferiore di vita»

Realizzazione grafica con un crepaccio che divide una persona con disabilità da tutte le altre

«Se dici che una persona torna perfetta dopo aver rischiato di diventare disabile – scrive Malafarina -, definisci che la disabilità è imperfezione, stabilendo una linea di demarcazione fra ciò che è buono è ciò che non lo è e respingendo così la disabilità a un livello inferiore di vita»

Portiamo con noi la cultura del bello uguale buono, come patrimonio ancestrale per la nostra sopravvivenza di ominidi pronti a cibarsi di ciò che appariva attraente, perciò sano. Kalòs kai agathòs, cioè bello è anche buono, è uno dei capisaldi della cultura classica. Poi l’eugenetica dell’Ottocento e quella più bieca del Novecento, con la spregevole deriva nazista della selezione e della supremazia della razza perfetta. Oggi c’è Enrico Papi a Big Show che ci dice che una ragazza che dopo un incidente è uscita dal coma senza essere sorda, muta e similia è ritornata perfetta. Perfetta, ho capito bene?

La carenza di lessico non dovrebbe rientrare fra le caratteristiche di un conduttore televisivo. Esibire un briciolo di cultura invece sì. Non si può essere onniscienti e sul corretto linguaggio della disabilità in TV siamo alla preistoria, anche se prima eravamo alle ere geologiche.
Destreggiarsi nel linguaggio corretto – e non “politicamente corretto”, perché il “politicamente corretto” è maschera dell’ignoranza – non è facile benché dovuto, in quanto se lavori nel campo della comunicazione devi sapere come parlare di un argomento sempre più diffuso come la disabilità. Ma le basi, almeno le basi, quelle sì!
Abbinare la perfezione allo stato di salute è inopportuno, retrogrado e perfino malsano. Minuto 22 della prima puntata della nuova edizione di Big Show, programma andato in onda l’8 aprile scorso in prima serata su Canale 5 (visibile a questo link). Al centro della scena, il conduttore in platea accanto a una signora e famiglia. Si inquadra la storia di una ragazza, Pamela, vittima di un incidente una sera con i genitori che vengono informati dell’accaduto dai soccorritori, per telefono. Narra la madre sollecitata da Papi. La donna, raccontando di quei giorni da cui la ragazza si è poi completamente ripresa, parla di handicap paventato dai medici come se nulla fosse, ma glielo perdoniamo perché la società non ha ancora assimilato l’attuale cultura della disabilità in sostituzione di quella dell’handicap. Diamoci una mossa, però. E se siamo lenti è anche colpa di una certa TV. Di questa TV.

I toni sono quelli classici della televisione del piagnisteo che tanto piacciono agli autori, convinti che piacciano a un pubblico solo perché il loro pubblico di riferimento è quello della prima serata generalista. Gente “alla buona”, da non spiazzare con progetti linguistici troppo inusuali.
E allora, raccontando della tragica sera, il momento in cui la giovane entra in coma è menzionato da Papi come quello che interrompe la vita: terribile e fuorviante, perché la vita di quella famiglia sarebbe continuata comunque. Inoltre la vita, perfino quella come la intende Papi, non è affatto finita. Infatti la ragazza poco dopo sarà sul palcoscenico a cantare.
Perché tanta grossolanità? La vita di una famiglia termina quando un elemento entra in coma? Non c’è vita nel coma? Argomenti troppo difficili da decifrare, da liquidare con un «La vita di Pamela si interrompe».

Papi, ripercorrendo i giorni più drammatici dopo l’incidente di Pamela, parla di una normalità cui la ragazza non tornerà più e così fa sua madre. A lei sarebbe concesso parlarne, a lui no. Di mio non mi trattengo dal parlare di normalità, ma la normalità va contestualizzata, altrimenti finisce che diventa quella della società fatta di persone ideali. Persone in piena salute da cui le altre miseramente si discostano. A difesa di Papi va detto che non si capisce se la normalità di cui parlano lui e la mamma della ragazza sia ripresa dalle frasi pronunciate dai medici dopo l’incidente oppure sia farina del loro sacco. Lasciamo che sia quella menzionata dai medici. Che, però, andrebbe vagliata.
Ma il peggio è in arrivo. La mamma racconta che i medici dicono che la figlia potrebbe «diventare sorda muta o riportare qualche handicap…». E qui Papi la interrompe entusiasta: «Invece oggi Pamela è perfetta. Anzi si è anche fidanzata con Carmelo» e indica il ragazzo seduto a fianco. Il conduttore enfatizza la perfezione facendo un gesto con le mani, come a tirare una linea immaginaria fra l’una e l’altra. È un gesto di linearità, di perfezione, appunto.

Papi non è Hitler, certo che non lo è. Neppure gli passa per la mente l’eugenetica. Ma se dici che una persona torna perfetta dopo aver rischiato di diventare disabile, definisci che la disabilità è imperfezione. Stabilisci una linea di demarcazione fra ciò che è buono è ciò che non lo è. A tuo modo respingi la disabilità a un livello inferiore di vita. Per comunicare l’insperata ripresa della ragazza, bastava dire che «Pamela si è completamente ristabilita». E se comunichi un’idea di perfezione che corrisponde alla pienezza della salute, a parte che tagli fuori una fetta abbondante della popolazione che porta occhiali, sente male, digerisce peggio oppure ha i brufoli, suffraghi il pensiero che esista una magnifica perfezione cui tendere. E la gente ci crede: qualche chilo di troppo, dei centimetri in meno, il carattere chiuso e sei fuori norma.

In balia della sua disconoscenza sull’alterità disabile Papi conclude questa porzione di intervento ammirando il fidanzamento della ragazza con quel: «Anzi si è anche fidanzata!». Pamela non solo è perfetta, ma si è anche fidanzata, come se da ragazza disabile non avesse potuto fidanzarsi…
Un tale concentrato di stereotipi, impreparazione e cattivi segnali trasmessi alla società è raro a trovarsi in TV. Oppure esiste e circola in maniera più subdola. Siamo ancora vittime del buono che deve per forza essere bello. Anzi, perfetto!

Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Il mito della perfezione persevera in tv”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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