Qualche settimana fa mi è arrivata un’e-mail in cui un marito mi scriveva che al suo sedicesimo anno di matrimonio la moglie era entrata in un contesto di disabilità, a causa di una grave malattia neurologica che la sta portando in poco tempo a non essere più autosufficiente e a doversi muovere in carrozzina. Quest’uomo si sente scaraventato in un mondo non suo e che non conosce minimamente; anzi, come ha aggiunto, egli non ha mai avuto a che fare con «certe persone handicappate» e potendo le ha sempre evitate.
Lo si può comprendere bene questo mio interlocutore, quando mi scrive che si sente scaraventato in un mondo non suo e che non conosce minimamente. Addentrandosi in questa strada sinuosa e asfaltata di burocrazie varie, che rappresenta un ulteriore ostacolo alla persona con disabilità e tanto più a quelle che le stanno accanto, egli dovrà iniziare a prendere confidenza con moduli di richiesta di ausili per la moglie e per la vita di tutti i giorni, come carrozzine, sollevatore, comoda per il bagno, che possono semplificare la convivenza a entrambi, senza parlare delle richieste di aggravamento di invalidità, visite di accertamenti e mille altri annessi e connessi che si scoprono man mano.
La sua e-mail prosegue, ma per il momento mi fermo qui, perché possiamo trovare già in queste poche righe una serie di elementi da analizzare, capire e da vagliare. Per riuscire a farlo, dobbiamo prendere nelle nostre mani la storia e il vissuto di quell’uomo che ci chiede di fare un ulteriore sforzo, un successivo salto indietro nella sua storia, dentro a quelle sue aspettative di ragazzo innamorato. Lo dobbiamo pensare nel contesto dove è cresciuto e come il giovane che era. Perché ognuno di noi è – e diventa – tutto ciò che ha vissuto e tutto ciò che “non” ha vissuto. Sono sempre quelle nostre aspettative, attese e disilluse, che ci fanno diventare quelli che siamo e che “non” siamo e che formano il nostro mondo, la nostra indole. Anche quell’uomo, quel marito, avrà vissuto tutto ciò e di questo noi non possiamo non tenerne conto.
Certamente si saranno incontrati in qualche contingenza dove lui l’avrà corteggiata o lei avrà corteggiato lui, come succede in questi frangenti; dove i loro sogni avranno preso forma nelle loro aspettative, nel loro progettarsi già coppia, famiglia. Forse sono anche caduti nella consueta abitudine logorante all’amarsi, così come siccede e molte coppie che rimangono per anni sul filo dell’indecisione, per varie motivazioni che non sto qui ad elencare.
Allora mi voglio far provocare dalla sua e-mail, chiedendomi cosa c’è realmente in quelle righe, dove trovo e sento un urlo di dolore, un grido d’aiuto di un uomo solo che deve ricostruire tutta una vita, una relazione. Perché la donna che ora si trova davanti è un’altra donna, è un altro corpo, non c’è più memoria di quella donna che ha sposato e che ha amato o ama ancora; e da questo momento cambia tutto: cambiano le abitudini, le quotidianità e le consuetudini di entrambi con le loro nuove priorità, le nuove esigenze di un corpo non più abile, un corpo che non può più fare da solo, un corpo che non “sa” più fare da solo, ma che vive l’attesa dell’”altro”. Vive l’attesa di chi deve accudire e chi legge i miei scritti conosce bene come utilizzo qui il termine “accudire”, ossia il prendersi cura “dì”, e prendersi cura vuol dire medicare tutte quelle ferite diventando empatico “con” quel corpo. Quell’uomo deve quindi accudire un corpo divenuto ormai estraneo a uno sguardo, a una coccola, a una tenerezza. Nell’e-mail quell’uomo mi porge altre mille domande, più personali, intime, che sfiorano il pudore della coppia.
Vorrei perciò tentare di approcciarmi a questo argomento così ostico con quella che già più volte ho definito come una “nuova pedagogia della disabilità”, per trovare una qualche risposta, se risposta ci può essere dinanzi a una sofferenza o a un dolore così tale.
Quando in una coppia avviene un corto circuito o un blackout del genere, non occorre di primo acchito soffermarsi soltanto sul deficit del partner, ma piuttosto sul senso d’essere coppia. Non necessita più pensare tutto quello che è stato, perché d’ora in poi ci apparirà l’insieme: antitetico, complessivamente discrepante, un’altra vita, tutta un’altra realtà. Nell’intera complessità, l’insufficienza non la scorgo solo nel corpo della moglie con disabilità, in questo caso, ma piuttosto nella coppia stessa che dovrebbe rivedere la sua stabilità. Un evento come questo mette infatti a dura prova la solidità delle fondamenta di una coppia che, se basate solo sui figli o interessi comuni, oppure sullo stare insieme per sensi di colpa o per salvare le apparenze dinanzi a parenti o amici, non può reggere la portata di un tale trauma.
Proviamo tuttavia a “rovesciare la medaglia” e a pensare che ci potremmo trovare anche noi nei panni di quella persona con disabilità, nei panni di chi ha bisogno. In una relazione già complicata, risulta assai difficile vivere tra incomprensioni e ripicche; allora, parlando con franchezza, chiediamoci se noi, in questo contesto disabilizzante, saremmo realmente disposti a farci accudire dal nostro compagno o compagna. Ci faremmo toccare? Le chiederemmo di aiutarci? Ci faremmo portare in bagno a fare i nostri bisogni? O a fare una doccia? Non credo proprio, perché si tralascia erroneamente quella che, in una “nuova pedagogia/cultura delle disabilità”, io chiamo la “simbiosi del corpo”, Infatti, particolarmente quando si vive a fianco a una persona che si trova in un contesto disabilizzante, si arriva a vivere il legame che definisco appunto come la “simbiosi del corpo”.
Con il termine “simbiosi”, voglio precisare, intendo specificare che il corpo dell’altro, quindi anche della persona con disabilità, dovrebbe “essere ascoltato” nei suoi bisogni non più con i nostri tempi, ma con i tempi e le azioni rallentate dell’altro che neppure nella privacy non saranno più i nostri.
A questo punto dovremmo forse riuscire a fare un passo indietro per chiederci cosa sia un “corpo” e tentare di afferrare maggiormente il senso (nel profondo della nostra acutezza) della “simbiosi del corpo”. Un corpo non può essere e non è solo un involucro che impugna tutti i nostri sentimenti, stati d’animo e umori, con le nostre emozioni di base, paura, rabbia, disgusto, tristezza, sorpresa, gioia ecc. In modo quasi lapalissiano sappiamo che il corpo rimane ed è l’“unico mezzo” con il quale possiamo entrare in relazione con l’altro, che ci sta dinanzi. Di fronte a un corpo che non riconosciamo più, ci chiediamo anche con chi ci stiamo relazionando, con chi ci stiamo raccontando, perché quella persona che abbiamo amato finora non c’è più. Occorre dunque fare un altro ribaltamento: quella persona che ho davanti mi riconosce? Sa restituire chi sono? Questi interrogativi dovrebbero essere posti in una relazione profonda della coppia.
Mi azzardo a mettere più a fuoco ciò che intendo con la “simbiosi del corpo”; l’apice di essa la potremmo raffigurare tra due corpi che si amano e che fanno l’amore. In quell’abbraccio non osserviamo solo un rapporto sessuale, ma ci possiamo intravedere e trovare un dialogo che va oltre i corpi, oltre la sintonia. Qui due corpi stanno ritrovando l’archetipo dell’“uomo”, si stanno parlando, ascoltando e, direi anche, raccontando per “essere Uno”. Non credo per altro che questa sia semplicemente una mia visione idilliaca del rapporto di coppia; sono più che certo, infatti, che l’unione, la “simbiosi del corpo”, va oltre l’atto-sessuale in sé. È un’esperienza che si dovrebbe vivere anche fuori dalla stanza da letto, attraverso una frase, un’espressione, una carezza e un bacio per vivere e sentire l’altro come parte di sé.
Vorrei perciò tornare all’e-mail iniziale, per cercare di rispondere alla domanda determinante che mi ha spinto a queste riflessioni, perché la trovo una domanda vera, autentica, una domanda onesta e direi anche responsabile: «…adesso che mia moglie è handicappata, io cosa devo fare?…». Non c’è una soluzione a questo quesito, non esistono parole o consigli da dare, sussiste solo la dignità del silenzio. Ma a me… è toccato e mi tocca tentare di dare una replica a quella sua domanda.
Questa volta la mia risposta non la indirizzerei soltanto a lui – il marito –; piuttosto risponderei a tutti e due, quindi anche alla moglie. Chiederei loro di guardarsi le fedi che hanno al dito e di gettarle via, perché d’ora in poi sarà tutta un’altra vita, tutta un’altra storia da re-iniziare, da accettare. Come dicevo, vorrei rivolgermi alla moglie per invitarla a fare un passo ulteriore verso il compagno, per aiutarlo a vivere le difficoltà di “entrambi”, per alleggerirgli le tensioni che si potranno creare nella loro – nuova – relazione; e fargli vedere che tra loro non ci saranno solo momenti di assistenza a una persona con deficit, ma al contrario che lei saprà essere ancora brillante e sarcastica, e non far pesare il proprio essere disabile. Non dovrà atteggiarsi a “vittima” o pretendere che ora tutto le sia dovuto, diventando così la “protagonista della casa”, ma dovrà essere lei a conquistare di nuovo le attenzioni del marito e accoglierlo in un loro nuovo innamoramento. Allo stesso modo, il marito dovrà superare la paura di sentirsi egli stesso disabile, perché la condizione della moglie farà emergere anche i suoi limiti fisici e psicologici. Ma è proprio su questo punto che si crea la “simbiosi del corpo”, dove le debolezze dell’altro diventano la forza della coppia, il coraggio di superare ogni ostacolo quotidiano insieme, con la capacità di creare nuove aspettative e di costruire una nuova progettualità.