Ho seguito con attenzione la presentazione di A Sua Immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022), volume collettivo curato da Alberto Fontana e Giovanni Merlo, tenutasi nei giorni scorsi [se ne legga anche sulle nostre pagine, a questo e a questo link, N.d.R.].
Esprimo alla LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, il mio personale apprezzamento per avere organizzato tale presentazione e per avere coinvolto relatori e relatrici che hanno saputo tenere alto il livello del confronto. Manifesto tali considerazioni da persona laica, e più precisamente da agnostica, perché ritengo che il tema del superamento della dualità “noi-loro” (abili-disabili) che si sta sviluppando all’interno della Chiesa, non interroghi solo i/le credenti di tutte le confessioni, ma anche chi, a prescindere dal credo religioso, si relaziona con le persone con disabilità per questioni personali, di lavoro o di altro tipo. Io tra questi. Ho ordinato il libro e mi propongo di leggerlo quando mi arriverà; infatti, anche se esso è sviluppato in prospettiva teologica, e io non dispongo di competenze di questo tipo, penso che la lettura sarà stimolante.
Ho deciso comunque di cogliere qualcuna delle sollecitazioni scaturite dell’evento di presentazione del volume, perché penso che in definitiva il tema centrale, la dualità “noi-loro”, intesa come distinzione tra abili-disabili, costituisca il perno delle relazioni tra persone con disabilità e non, e che la qualità delle relazioni stesse dipenda proprio dal fatto che le persone coinvolte trovino o meno il modo di superarla.
Preliminarmente mi viene da osservare che in realtà il superamento di tale distinzione sarebbe già presente nell’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001, ma, com’è noto, questi strumenti, che incidono sulle prassi operative della comunità scientifica difficilmente riescono a modificare l’agire quotidiano delle persone comuni e le loro modalità relazionali. Ma andiamo con ordine.
Perché dunque una persona non credente dovrebbe interessarsi delle dispute teologiche interne alla Chiesa? Intanto perché, pur essendo il nostro uno Stato laico, la Chiesa ha ancora una notevole influenza sulle politiche del nostro Paese (basti pensare alla bocciatura del cosiddetto “Disegno di Legge Zan”, ovvero il Disegno di Legge S. 2005, avente ad oggetto Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità); dunque è abbastanza difficile riuscire ad occuparsi della vita del Paese senza prestare attenzione a quanto accade in Vaticano.
Ma non è questo il motivo per cui sto scrivendo, il motivo – o dovrei dire i motivi – sono altri. Il primo, il più forte, è che avendo io aderito al paradigma del riconoscimento e del rispetto dei diritti umani, mi sento in relazione con tutti i soggetti che in qualche modo fanno riferimento a questo stesso paradigma, dunque non solo con la Chiesa Cattolica, ma certamente anche con essa.
Il secondo motivo è che, pur essendoci giunta per una via diversa dalla fede, condivido con i cattolici l’orientamento non-violento, che include al proprio interno anche il principio di non discriminazione. In questi due àmbiti scorgo delle convergenze che ammetto senza difficoltà, in altre sfere invece avverto una grande distanza.
Quando il Santo Padre parla di immigrazione, ad esempio, generalmente mi ritrovo nelle sue parole senza problemi. La distanza invece la sento tutta su temi come l’aborto, il fine vita, la circostanza che la gerarchia ecclesiastica sia tutta al maschile. Tuttavia non sto scrivendo per rimarcare le divergenze, quanto per indagare le consonanze. E in questo caso la consonanza è data dalla volontà di superare il dualismo “noi-loro”, inteso nella duplice valenza di contrapposizione tra abili-disabili e tra credenti-non credenti. Se tutte le parti in causa vogliono una società che non lasci indietro nessuno e nessuna – ritengo sia questo il nostro valore condiviso –, parliamone.
Per confrontarsi efficacemente è necessario individuare un terreno comune e, non avendo io competenze teologiche, ritengo adeguato proporre una riflessione sulle dinamiche relazionali, perché queste riguardano sia i credenti che i non credenti, e anche perché la definizione di persona con disabilità contenuta nel primo articolo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09, sottolinea la matrice relazionale della disabilità stessa. Nel dispormi ad indagare in questa direzione, assumo come presupposto che il nostro modo di stare in relazione risponda in larga prevalenza alle emozioni che l’incontro con l’altro/a suscita in noi, e solo in minima parte ai pensieri e alla razionalità (questo è quanto dicono gli psicologi). Dunque, a prescindere dalla fede, se vogliamo relazionarci con gli altri senza sentirli “altri da noi”, dovremmo lavorare sia nella prospettiva di cercare di capire come funzionano le emozioni, sia in quella di individuare quali, tra i differenti stili relazionali, permettono un confronto alla pari al di là delle differenze. Provo a muovermi in tal senso.
Possiamo pensare alle emozioni come ad una sorta di energia che ci attraversa ed è involontaria. Non decidiamo noi se una cosa incontra il nostro gusto oppure no. Non sappiamo argomentare, ad esempio, perché il gelato al pistacchio ci piace o ci disgusta, e di solito non stiamo nemmeno a ragionarci sopra, visto che le emozioni non si capiscono, né si spiegano, ma, più semplicemente, si sentono. E se qualcuno o noi stessi cercassimo di superare l’eventuale disgusto obbligandoci a mangiarlo, probabilmente il disgusto ne uscirebbe amplificato.
Ecco, temo che funzioni così anche per la disabilità. Molti studi documentano che le emozioni più frequenti sperimentate dalle persone (anche disabili) dinnanzi alla disabilità sono paura, tristezza e rabbia. Poiché le emozioni sono involontarie, sarebbe inadeguato e inutile giudicare negativamente chi ne prova di simili. Di più, se vogliamo sottoporre ad indagine queste emozioni, dobbiamo disporci a trovare un luogo e un modo per farle emergere, garantendo l’assenza di giudizio. Per questo motivo evito appositamente di distinguere le emozioni in positive e negative (due aggettivi che si prestano ad essere interpretati come giudizi di valore), e preferisco parlare di emozioni gradevoli e sgradevoli.
Se le emozioni gradevoli non risultano problematiche, quelle sgradevoli vanno tenute d’occhio. Questo perché un’emozione sgradevole non indagata, oltre a suscitare una sensazione di malessere in chi la prova, può portare a comportamenti discriminatori o addirittura violenti. Sospendere il giudizio non dovrebbe essere difficile, se assumiamo che tutti e tutte siamo provvisti della gamma completa delle emozioni, e che le emozioni sgradevoli non siano una prerogativa di alcuni individui “cattivi”, ma di ogni persona. E se, come detto, le emozioni sono involontarie, nondimeno siamo chiamati a tentare di superarle. Un modo che consente di superarle consiste nel riflettere sul fatto che solitamente paura, tristezza e rabbia solo in apparenza sono suscitate dalla disabilità; andando a fondo, infatti, viene fuori di solito che ciò che le persone realmente temono sono la vulnerabilità, la dipendenza dalle cure (che in realtà sarebbe interdipendenza), la sofferenza e la morte. Non quelle altrui, le proprie! La disabilità in realtà funge solo da “detonatore”, non temiamo la disabilità della persona disabile, temiamo la disabilità che è in noi, e per quanto ci impegnamo a negarla, nasconderla e rimuoverla, non c’è alcun modo di eliminarla. L’invulnerabilità è un’illusione, razionalmente lo ammettiamo, emotivamente no; tutti nasciamo “completamente disabili e dipendenti dalle cure altrui” – nel nostro primo periodo di vita non parliamo, non camminiamo, non reggiamo neanche la posizione seduta e in genere iniziamo a vedere dai tre mesi in poi –, ma abbiamo rimosso questa esperienza e, mentre mangiamo cibi coltivati, prodotti o cucinati da altri, ci raccontiamo che gli unici soggetti che hanno bisogno delle cure altrui sono le persone disabili e quelle anziane. Ogni passaggio della vita comporta una sofferenza e la “morte” di parti di noi, deve “morire” il bambino per “far nascere” l’adulto, deve “morire” lo studente per fare spazio al lavoratore, e non è ingiusto né sbagliato, è parte integrante del processo evolutivo individuale; la morte poi – quella propriamente detta – è l’unica certezza che abbiamo, ma è proprio quella che ci ostiniamo a negare con più tenacia. Pertanto, finché insistiamo a tenere in piedi tutte queste finzioni, non è affatto strano che la realtà ci susciti emozioni sgradevoli, sarebbe anomalo il contrario. La persona che ammette e accetta la propria vulnerabilità difficilmente sarà spaventata da quella che vede nella disabilità altrui. Quella che ammette e prova gratitudine per le cure ricevute, difficilmente proverà tristezza o si sentirà superiore alla persona con disabilità che ha bisogno di assistenza. Chi accoglie la sofferenza come parte della vita e del processo evolutivo – pur non accordando ad essa una funzione salvifica – non sarà indotto ad attribuirne l’esclusiva alla persona con disabilità. Chi accetta la morte come elemento della vita, forse non sarà immune dalla paura della propria, né dal dolore della perdita delle persone care – ci vuole un lavoro immenso per giungere a questi livelli –, ma tenderà a sviluppare meccanismi di solidarietà per i compagni e le compagne di quel viaggio con una meta comune, e questo incide in modo diretto sui comportamenti, e in modo indiretto sulle emozioni. La solidarietà di chi riconosce anche in sé la vulnerabilità e l’interdipendenza della cura non è una solidarietà altruistica, nel senso che chi la agisce non si dispone in questi termini per fare un favore agli altri, bensì perché, consapevole dei propri limiti, ha capito che una società accogliente e solidale è quella più adatta a tutelare la propria incolumità. Chi riconosce la propria disabilità in genere scopre anche che questa non è necessariamente sinonimo di sofferenza, e che non preclude la gioia e la bellezza. Chi riconosce la propria disabilità, infine, vede nelle persone disabili persone simili a sé, ed è a partire da questa consapevolezza che si relaziona con loro e con chiunque.
Per gestire queste dinamiche e prevenire discriminazioni e violenze ai danni dei gruppi maggiormente a rischio, tra i quali le donne e le persone con disabilità, molti attori della società civile hanno proposto di introdurre nelle scuole l’educazione alle emozioni, all’affettività e alla sessualità, ma si sono spesso scontrati con la tenace opposizione di genitori e cattolici, letteralmente terrorizzati dalla cosiddetta “teoria del gender” che, a loro dire, vorrebbe trasformare i bambini e le bambine in omosessuali e in soggetti dall’identità di genere indistinta. Il risultato di questo atteggiamento è che non si riesce a fare un’adeguata prevenzione.
In questo contesto riconosco che la disposizione della Chiesa di superare le posizioni che intendono la disabilità come colpa o peccato, o come strumento di redenzione, per abbracciarne una più luminosa che consenta alle persone con disabilità di identificarsi con l’Immagine di Dio, è, anche da un punto di vista culturale, un apprezzabile passaggio. E tuttavia, ammesso che i/le fedeli riescano ad incidere sulle emozioni sgradevoli attraverso la fede – non avendo esperienza di fede, non posso esprimermi a riguardo –, rimane il fatto che, se vogliamo prevenire le violenze e le discriminazioni, è necessario superare anche la dualità credenti-non credenti, e permettere che gli interventi educativi di prevenzione e contrasto alle discriminazioni e alle violenze possano finalmente essere rivolti a tutte e a tutti. Sarei veramente grata se la Chiesa manifestasse un’apertura anche in tal senso.
Riprendendo il filo della riflessione, è necessario tenere presente che acquisire la consapevolezza che siamo tutti e tutte vulnerabili, interdipendenti e mortali, non è di per sé sufficiente ad indurre le persone a porsi nei confronti degli altri in modo paritario. Infatti, un altro elemento che incide su questo aspetto sono gli stili relazionali.
Tutti possiamo scegliere quale posizione attribuire al nostro interlocutore nel momento in cui entriamo in relazione con lui/lei. Ad esempio, possiamo scegliere di relazionarci agli altri ponendoci in una posizione di potere, ma in tal caso ci sarà precluso un confronto alla pari. In una relazione di potere c’è chi vince e c’è chi perde. C’è chi sta sopra e chi sta sotto. Chi sceglie questo stile di solito non vuole un confronto autentico, ma usa il potere per agire un controllo sull’altro. Pertanto, se vogliamo avere un confronto alla pari, dobbiamo privilegiare altri stili, stili come la cooperazione e la condivisione, due modalità nelle quali vinciamo tutti.
In merito a tali questioni, ho potuto notare personalmente il senso di grande delusione suscitato nei/nelle fedeli cattolici dalla decisione del Vaticano di non ratificare la citata Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, pur avendo contribuito alla stesura di essa. La motivazione del rifiuto è stata indicata nelle disposizioni contenute nell’articolo 25, in materia di Salute, perché questo, pur non prevedendo esplicitamente l’aborto, non contiene nemmeno un esplicito divieto, e permette anche alle donne con disabilità di praticarlo in quei Paesi (tra cui l’Italia) in cui questo servizio sanitario è legalizzato. Il Vaticano avrebbe potuto ratificare la Convenzione con riserva, ossia ratificare tutti gli altri articoli tranne quello che riteneva problematico, ma non ha voluto farlo. Mi sembra dunque che in questa circostanza la Chiesa abbia deliberatamente scelto di non stare in ascolto, di non porsi in posizione paritetica, ma di agire un potere. Spero che la riflessione teologica sul superamento del dualismo “noi-loro” proposta nel volume A Sua Immagine? porti anche ad un ripensamento di questa posizione. Sarebbe grandioso. Se poi avanzasse un po’ di tempo, ci sarebbe anche da riflettere sulla questione femminile, visto che tra i fedeli ci sono pure tante donne (disabili e non), e non è che queste godano di posizioni esattamente paritetiche all’interno della Chiesa. Chiedo troppo? Chiedere non è un peccato, vero?
Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito le presenti riflessioni sono già apparse. Vengono qui riprese, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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