«Uno dei “padri” dell’inclusione scolastica nel nostro Paese»: così abbiamo più volte definito sulle nostre pagine Andrea Canevaro, scomparso oggi all’Ospedale di Ravenna dopo una breve malattia. Ma è una definizione certamente riduttiva per colui che è stato una delle figure di maggior prestigio nazionale e internazionale, nel fare tra l’altro avanzare e progredire una nuova cultura della disabilità.
«La scomparsa di Andrea Canevaro è una gravissima perdita per tutti noi – ci scrive Salvatore “Tillo” Nocera, altra figura fondamentale per la storia della disabilità e dell’inclusione nel nostro Paese, oggi presidente del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) -. Infatti per noi, che ci occupiamo di scuola, Andrea è sempre stato il padre dell’inclusione scolastica in Italia e nel mondo. È stato maestro di tutti noi, avendo formato migliaia di docenti e accompagnato tantissime persone con disabilità e le loro famiglie. Animatore indiscusso dei convegni sulla qualità dell’inclusione promossi a Rimini dal Centro Studi Erickson e di tantissimi altri incontri e iniziative. Negli ultimi anni la salute non l’aveva assistito, ma nonostante ciò continuava ad intervenire a riunioni, soprattutto online, con la saggezza e la bonomia che lo caratterizzavano, sempre stigmatizzando le posizioni preconcette e ideologiche, con garbo e con grandissimo equilibrio. Sarà sempre presente nel nostro ricordo e nel nostro cuore, perché i maestri rimangono per sempre con noi».
Da Fulvio De Nigris, invece, direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna, riceviamo questo ricordo: « Con Andrea Canevaro se ne va un pezzo della nostra vita. Una persona che divenne “amico di Luca” e ci permise di collegare il dolore privato ad una storia più collettiva. Il suo approccio pedagogico al mondo della disabilità è stato un faro che ha acceso anche noi nel progetto della Casa dei Risvegli Luca De Nigris. Quando dopo la morte di Luca noi genitori, io e Maria Vaccari con l’Associazione degli Amici di Luca e con il dottor Roberto Piperno dell’Azienda USL di Bologna, cominciammo a pensare ad un modello innovativo sia per architettura che come percorso di cura interdisciplinare, il progetto pedagogico fu proprio creato da Andrea Canevaro. E il profilo professionale del pedagogista, divenne innovativo, un’importante figura di connessione nel percorso tra il mondo sanitario e i familiari, la chiave di volta nel socio sanitario».
Per far conoscere meglio a tutti i nostri Lettori e Lettrici quale fosse lo spessore culturale e umano di Andrea Canevaro, abbiamo deciso di riproporre la bella intervista a lui realizzata alcuni anni fa per il nostro giornale da Giorgio Genta, nell’àmbito di una serie di servizi dedicati alle “famiglie con disabilità”. (S.B.)
È assai difficile definire il professor Andrea Canevaro utilizzando poche parole. Potremmo azzardarne alcune, focalizzando quelle che le famiglie con disabilità collegano alla sua persona: Università, Bologna, pedagogia speciale e pedagogia istituzionale, integrazione degli alunni con disabilità. I “più informati” probabilmente aggiungerebbero anche Sergio Neri [1937-2000, uno dei “padri” dell’inclusione scolastica in Italia, N.d.R.], Célestin Freinet [pedagogista ed educatore francese, 1896-1966, N.d.R.], la Francia degli Anni Cinquanta e Sessanta, l’educazione cooperativa e istituzionale.
Per saperne di più e meglio, quindi, intraprendiamo insieme a lui questo “viaggio” in quella che è una sua vera e propria “lectio magistralis” in forma di intervista, sulle tematiche a noi più care.
Dato che non siamo stati in grado di “identificarti” con poche parole, vorresti indicarne quattro o cinque che per te hanno avuto e hanno il maggior peso? Il problema, infatti, è presentarti a “chi non ti conosce”, ammesso che esista tale persona…
«Ecco le parole che mi sono care, e che sono semplici – non amo il gergo, più o meno scientifico, anche se a volte siamo tutti nella necessità di servircene -: incontri, percorsi, accompagnare, progettare, ricordare (questa ultima parola mi piace solo se ci sono le altre…). Ma ognuna di esse ne trasporta altre, formando dei “trenini di parole”. Così incontri porta con sé mediatori, che porta controllo, che porta originalità, che porta identità, che porta pluralità, che porta… Non si finisce mai!».
Potresti spiegarcele, come faresti con degli studenti non tanto brillanti? (Il tentativo “sarebbe” quello di racchiudere il tuo percorso professionale e/o umano in poche righe. Impresa praticamente impossibile… ma tu provaci, se vuoi!).
«Accetto la proposta. Ma non tanto pensando a chi sembra essere non tanto brillante. Penso a tutte e tutti. E penso che ciascuno capisce quelle parole se può viverle e riflettere insieme al loro significato incorporato. Ciascuno è certamente un incontro.
Ho preso l’abitudine di domandare a chi è studente quale sia stata la prima persona handicappata che ha incontrato e che cosa ne sappia oggi. In questo modo incontro significa scoprire, o leggere, quello che non sapevi e non ti aspettavi. Nascono i percorsi fra quello che ritengo di conoscere io – docente – e quello che conosce chi conosce la propria nonna che abbia avuto un ictus o la propria sorella con sindrome di Down… Possiamo e dobbiamo tentare di accompagnare o accompagnarci su questo percorso. Per imparare, insieme, ad andare oltre, a progettare. Senza dimenticare, ma cercando di ricordare da dove siamo partiti. Queste parole le viviamo conoscendoci e conoscendo.
Se il tema su cui ci impegnamo per aumentare le nostre conoscenze è la Pedagogia Speciale, e quindi riguarda chi ha Bisogni Speciali, è utile scoprire che ciascuno di noi ne sa già qualcosa, ed è nello stesso tempo soggetto che conosce e oggetto del conoscere. Queste conoscenze non hanno alla base un’epistemologia già costituita, ma vivono un continuo farsi epistemologico. Cioè un’epistemologia sperimentale. Forse la parola epistemologia risulta misteriosa a qualcuno. Ma esistono i vocabolari; e, più che diventare io un vocabolario, rimanderei alla loro consultazione, perché diventi un’utile abitudine…».
Le nostre “famiglie con disabilità” rivendicano da sempre un ruolo “cooperativo” di pari dignità nei processi abilitativi e riabilitativi dei loro ragazzi (di ambo i generi e di ogni età anagrafica). Da questo presupposto nasce un rapporto a volte collaborativo a volte conflittuale con i professionisti dell’area vasta della disabilità. Qual è il tuo pensiero al riguardo?
«Cercherei di non contrapporre collaborazione e conflitto. È positivo che vi siano esigenze differenti, conoscenze differenti, insomma differenze. Perderemmo qualcosa se cercassimo di stabilire a priori che qualcuno, magari specialista, ha sempre ragione, e che il suo sapere è già completo. Sergio Neri una volta aveva detto che “una buona diagnosi non deve essere troppo levigata”: non saprebbe accogliere le conoscenze e le aspirazioni di chi è protagonista reale della stessa diagnosi e delle persone che ne costituiscono il contorno di ogni giorno.
Abbiamo bisogno di tecnici capaci di leggere non ciò che manca, ma di capire quali sono i punti “vivi” sui quali poter costruire un progetto comune. Bisogno di “diagnosi in avanti”; non serve un giudizio. E questo è possibile in una collaborazione che sappia vivere anche qualche conflitto…
Il rischio della conflittualità è legato all’improprietà che può esserci nelle relazioni istituzionali e personali: ad esempio, parlare all’educatore per ottenere dal funzionario; o all’educatore per parlare al direttore didattico; cercare di ottenere una funzione amministrativa presentandola come educativa. È bene collegare i due aspetti facendoli diventare alleati e non confondendoli.
È certamente utile cercare di capire quale può essere il ruolo delle procedure e avere l’intelligenza e l’attenzione di chiedere a chi sa: conoscendo il funzionamento di un sistema, possiamo infatti essere capaci di collegare le conoscenze dei vari settori di un’organizzazione complessa.
È un elemento importante che caratterizza la capacità di collaborare per le funzioni e per le competenze, evitando quelle situazioni “morbide”, poco chiare, in cui più che la collaborazione per le competenze si creano delle complicità. Non complicità, parola che mantiene qualche elemento di ambiguità poco felice, ma collaborazione per le competenze. La conseguenza è una minore attribuzione di peso alle dimensioni del carattere, della personalità nelle collaborazioni, ma più alla capacità di poter rispondere alle esigenze di funzionamento di un’istituzione. E questo mette la responsabilità istituzionale al servizio del progetto, senza far sì che l’ansia della realizzazione trascuri le procedure istituzionali. Paradossalmente, finisce per migliorare anche gli aspetti relazionali.
Posso dire, citando lo scrittore israeliano Amos Oz, che vivo in un paese – “Pedagogia Speciale” – dove ci sono molte più domande che risposte. Non perché non abbiamo trovato risposte, ma perché le domande sono inevitabilmente più delle risposte. Questo è vero nell’amore, nella politica, nell’arte, nella vita personale. È importante imparare a vivere con delle domande aperte. Rende indispensabili gli incontri fra diverse conoscenze, fra chi vive una quotidianità e chi la studia».
BES ovvero Bisogni Educativi Speciali. Perché tante polemiche pro e contro? È vero che la virtù sta sempre nel mezzo?
«Ritengo la vicenda dei BES un importante e positivo cambiamento di direzione. Rischiavamo di vivere ogni esigenza particolare, o speciale, come necessità di avere chi disponesse di un titolo specialistico per quell’esigenza. Svalutando, di fatto, chi ha una professione per l’insegnamento. Che forse ha bisogno di collaborare con specialisti. Ma non dev’essere svalutato o svalutata, come se fosse incapace. Una didattica capace di far fronte a esigenze particolari esiste in molti insegnanti – potrei fare un lungo elenco e lo allungherei continuamente, perché quasi ogni giorno ne conosco altri e altre -. Si tratta di non viverli come eccezioni, magari scomode, ma come linee di tendenza a cui dare credito.
Le polemiche sui BES sono inevitabili, se non li si legge come cambiamento di una rotta che va, ora, verso la valorizzazione degli insegnanti. Questo non vuol dire solitudine. Al contrario: è possibilità di avviare, insieme, un riordino della scuola che permetta di avere classi più contenute, edifici più curati, servizi complementari (dalle biblioteche ai laboratori) più funzionanti e funzionali. Non spendere meno. Spendere meglio. Che poi, nel tempo, è spendere meno».
Studenti con disabilità e università: diversi nostri ragazzi e le loro famiglie hanno incontrato difficoltà enormi per proseguire gli studi oltre le secondarie superiori. C’è, dove e come funziona un concreto progetto di supporto a questo problema?
«La situazione va vista considerando che in università non vi può essere il rapporto a due che vi è con il “sostegno”. Questo può creare qualche sconcerto. Lo capisco bene. Ma credo utile illustrare le possibilità che il percorso universitario può aprire.
Diventa importante il tutorato. Ora, su questo termine “tutore” o “tutor”, bisogna fare una certa chiarezza. Innanzitutto si può parlare di tutor junior quando ci riferiamo a quei coetanei, per esempio nell’àmbito scolastico, che svolgono un compito di guida. La parola “tutore” ha come traduzione anche il termine “guida”, dal latino tutor tutoris, derivato da tueri, che significa proteggere, difendere, ma anche guidare, curare, quindi aver cura di. Anche il coetaneo può svolgere questo compito, quindi avere un ruolo di guida, e lo fa da coetaneo; ed è quello che chiamo tutor junior.
Vi sono poi delle figure professionali che chiamo tutor senior – seniores se siamo al plurale – e che hanno compiti di guida più complessa, più duratura. E ancora, i tutor aziendali che sono i punti di riferimento all’interno di un’azienda e vi sono poi i tutori sul piano giuridico. La tutela si esercita per un’indicazione che viene data, per esempio, dal Tribunale.
Riferendomi ai tutor seniores, credo sia utile fare una distinzione – suggerita da qualche studioso – tra un’attenzione alle funzioni elementari e una alle funzioni superiori. Vi sono persone che avranno bisogno per un certo numero di anni – forse anche per tutto il loro percorso di vita – di avere qualcuno che le guidi appunto nelle funzioni elementari che fanno parte dell’organizzazione quotidiana e che diventano anche la possibilità di percezione-azione, di reazioni nel contesto, di capacità corporee, di igiene ecc., di organizzazione del tempo della giornata quotidiana. Vi sono invece persone che hanno bisogno di questo in una misura molto modesta e necessitano soprattutto di un’attenzione alle funzioni più elaborate, che chiamiamo funzioni superiori. Hanno quindi bisogno di organizzare periodicamente la comprensione di quello che sta accadendo loro, di capire gli aspetti sociali della loro attività – le cognizioni sociali -, di comprendere le opportunità che possono avere, di fare assieme al tutor senior delle esplorazioni ipotetiche; di ricordare, ad esempio, che gli anni passano, che non hanno più la stessa età che avevano quando è cominciato un certo lavoro, un certo percorso, e di avere quindi le informazioni, i ragionamenti, la razionalizzazione della loro vita, e della vita dei loro cari, del loro gruppo familiare, perché ci sia sempre una presenza costante non realizzata attraverso introspezione e intrasoggettività, ma più intersoggettiva. Tutto questo è possibile farlo con una persona che segua costantemente: il tutor senior.
Queste indicazioni ci fanno capire come il tutorato possa avere delle organizzazioni costanti di accompagnamento e quest’ultimo ha luogo attraverso una composizione continua di istanze istituzionali, di collegamenti tra le istituzioni in cui le diverse istituzioni devono compiere il loro dovere, in cui è difficile ragionare nella logica della sussidiarietà perché è troppo giovane come termine e quindi rischia di essere preso come una parola che significa confusione più che possibilità di congiuntura delle azioni istituzionali che tengono conto della realtà del momento di ogni istituzione. E, soprattutto, nel rapporto tra le varie istituzioni, vi è una pervasività del linguaggio economico che rischia di essere assunto come l’unico che interessa».
Le famiglie e gli studenti con disabilità “ricorrenti” ottengono sempre più frequentemente giustizia in tribunale nel campo vasto dell’istruzione. Quando e se mai non sarà più necessario ricorrere ai tribunali per l’affermazione di questo diritto?
«Noi, nella nostra storia recente, abbiamo avviato un processo umanizzante che si realizza attraverso il riconoscimento dell’originalità (diversità) di ciascuno e la sua valorizzazione. Il valore dell’unicità di ogni individuo ha come conseguenza che, pur non essendo uguali, siamo tutti titolari di uguali diritti. Il nostro compito è quello di entrare in contatto con le persone speciali e aiutare a rivelarle all’umanità.
Come in tanti percorsi delle nostre vicende, dobbiamo certo fondare i nostri comportamenti sulle nostre convinzioni e la nostra coscienza. Ma sapendo che tanto le convinzioni che la coscienza possono avere momenti, diciamo così, di eclissi, di indebolimento. Per questo ci sono le leggi che permettono di fermare eventuali cadute le quali potrebbero avere le caratteristiche dell’irreversibilità.
Si tratta di non ritenere che si possa realizzare la prospettiva inclusiva unicamente con le leggi. Ma anche grazie a quelle. L’integrazione non si fa con i carabinieri. Ma i carabinieri, se qualcuno va contro le leggi, fanno il loro dovere».
Veniamo alla figura dell’insegnante, dell’educatore. Come credi sia possibile restituire dignità a questa figura così emblematica, in modo che poi sia in grado di trasmettere questa dignità ai suoi studenti, con o senza disabilità?
«Chiedo scusa, e utilizzo una parolaccia: alloparentale. Richiama il fatto dell’importanza che – nell’educazione di chi cresce – vi sia un’ampia partecipazione di persone che non sono i genitori biologici. Appunto l’alloparentalità.
Accade che chi ha Bisogni Speciali risulti fortemente vincolato all’educazione esclusivamente parentale. E a volte questo vincolo risulta anche rinforzato da riferimenti a specialisti che insistono – forti di un ruolo ritenuto indiscutibile – sul coinvolgimento esclusivo dei genitori. Anche la presenza di un operatore educatore potrebbe rinforzare il vincolo genitoriale. Perché questa persona potrebbe essere a sua volta prigioniera del vincolo genitoriale, che risulterebbe così anche più forte.
Mi sembra utile indicare alcuni punti, e in seguito riprendere lo specifico della domanda:
La qualità del tempo: la presenza in un contesto familiare di un bambino o di una bambina in situazioni di handicap può cambiare il tempo, la sua organizzazione e la sua qualità, nei componenti del contesto, e in particolare in alcuni ruoli. Vi può essere un cambiamento nel segno negativo e della rinuncia – non possono più essere fatte molte attività, vedere certi amici con cui si facevano certe attività, andare al cinema, andare in vacanza… E vi può essere un cambiamento nel segno del dovere o anche del sacrificio – si devono fare certe attività, informarsi di certe cose, visitare certi luoghi…
L’appartenenza: la presenza di un bambino o di una bambina in situazione di handicap può rompere qualcosa che chiamiamo “appartenenza”. «Facevamo parte di una realtà sociale, di un gruppo di amici. Poi, con la nascita di Franca, non li abbiamo più visti». Il contatto con altre persone, altre famiglie che vivono la situazione di handicap, fa realizzare una nuova e diversa appartenenza.
La categorizzazione: i rischi della nuova appartenenza sono quelli delle categorie e delle categorizzazioni. Cosa vuol dire? Privilegiare o anche rendere assoluto il tipo di disabilità o di deficit come unico elemento su cui fondare la propria identità, rinunciando alla pluralità di elementi che è presente e propria di ogni identità. La categoria può far credere che l’unica comprensione vera sia esclusivamente all’interno di questa specifica e particolare appartenenza.
La “situazione di handicap” come contesto: la dizione “situazione di handicap” vuole prendere in considerazione un contesto e i suoi diversi protagonisti. Non quindi esclusivamente il soggetto handicappato, ma anche i soggetti coinvolti nel contesto. Questo significa che un processo riabilitativo ed educativo non può fare esclusivo riferimento al soggetto handicappato, ma deve ampliare il suo angolo d’intervento e prendere in considerazione i bisogni dei diversi soggetti e le loro possibilità di valorizzazione.
La valorizzazione dei ruoli: attorno a una situazione di handicap è bene chiarire quali professioni possono collocarsi, con quale specificità di contributo. Il quadro delle professioni d’aiuto non può essere lasciato all’intuizione o essere ritenuto scontato. Va chiarito e precisato volta per volta. Più questo quadro è chiaro, più possono essere valorizzate le competenze dei ruoli sociali, familiari, amicali, di volontariato.
La valorizzazione del tempo: la valorizzazione del tempo è corrispondente alla valorizzazione dei ruoli. Se il tempo di un familiare – ad esempio – è completamente occupato dall’assistenza materiale, la valorizzazione è scarsa. Il nostro compito è quello di aprire la possibilità ad altre occupazioni, altri interessi.
Questi punti, nelle mie intenzioni, contengono la valorizzazione dell’insegnante. Come dell’educatore. E si riassumono nella parolaccia alloparentalità. Che può richiamare le vicende di un bambino che ebbe poi una storia molto speciale. La sua educazione alloparentale iniziò appena venne al mondo, grazie a un bue e un asino…».
Un grazie sentito ad Andrea Canevaro da parte delle sue “studentesse più attente”: le nostre famiglie con disabilità. E anche da parte del “mulo da soma”, simbolo dei caregiver familiari, che si sente nobilitato egli stesso dall’“alloparentalità” conferita a suo cugino, l’asinello evangelico.