Dopo avere trattato in un precedente contributo dedicato alle Linee Guida per il collocamento mirato e pubblicato su queste pagine, i temi riguardanti la Banca Dati Unica Nazionale, le reti e il personale che si occupa del collocamento al lavoro, ci occupiamo questa volta delle buone pratiche, definizione con la quale si intendono quelle azioni, nate nelle periferie del sistema del Collocamento Disabili, utili a favorire l’inclusione lavorativa di differenti categorie di disabilità. Unica eccezione – nata invece come legge e non da esperienze territoriali – è la convenzione di cui parla l’articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03, mentre le poche altre sono frutto della buona volontà di singoli operatori del Collocamento Disabili.
Ora il Ministero del Lavoro, nelle citate Linee Guida, riporta l’attenzione sul tema, scrivendo che si deve fare una «raccolta sistematica delle buone pratiche di inclusione lavorativa al fine di contribuire, con la diffusione di esperienze positive ed efficaci, all’innalzamento degli standard di gestione del sistema di collocamento mirato e ad assicurare la disponibilità su tutto il territorio nazionale di modelli replicabili di azioni, procedure e progettualità a beneficio delle persone con disabilità e dei datori di lavoro interessati dalla normativa per il collocamento mirato. Le buone pratiche individuate dovranno confluire in una Piattaforma informatica accessibile e consultabile, dinamica e aggiornabile. La selezione delle esperienze da inserire nel repertorio di buone pratiche dovrà sottostare a specifiche metodologie di valutazione, criteri e indicatori che attestino l’idoneità delle caratteristiche elettive e verrà effettuata da parte di un gruppo di lavoro istituito presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali».
Molto probabilmente chi ha scritto questo non conosce bene la realtà, altrimenti non avrebbe proposto una piattaforma e un gruppo di lavoro per registrare le sole tre buone pratiche esistenti, tra l’altro volutamente misconosciute: le citate convenzioni, come da articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03, le adozioni lavorative a distanza e le isole formative. Vediamole in successione.
Le convenzioni – articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03: «Al fine di favorire l’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili, i servizi di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68 […] stipulano […] convenzioni quadro su base territoriale […] aventi ad oggetto il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali medesime da parte delle imprese associate o aderenti». Queste convenzioni, dunque, si rivolgono espressamente alle cooperative sociali e all’inserimento lavorativo dei lavoratori più fragili.
Articolo 14, comma 2: «La convenzione quadro disciplina i seguenti aspetti: a) le modalità di adesione da parte delle imprese interessate; b) i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati da inserire al lavoro in cooperativa […];c) le modalità di attestazione del valore complessivo del lavoro annualmente conferito da ciascuna impresa e la correlazione con il numero dei lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro in cooperativa; […] e)la promozione e lo sviluppo delle commesse di lavoro a favore delle cooperative sociali».
Articolo 14, comma 3: «Allorché l’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali, realizzato in virtù dei commi 1 e 2, riguardi i lavoratori disabili, che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario, […] lo stesso si considera utile ai fini della copertura della quota di riserva, di cui all’articolo 3 della stessa legge cui sono tenute le imprese conferenti […]».
Ebbene, queste convenzioni hanno avuto una scarsa diffusione sul territorio nazionale. Esse sono state approvate originariamente in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana e a distanza di anni sono comparse anche in Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Lazio, Sardegna, Sicilia e Marche. Altrove non esistono, mentre in alcune Regioni sono addirittura sconsigliate dagli stessi operatori degli uffici del Collocamento Disabili, o sono impraticabili per la farraginosità burocratica richiesta. Eppure sono uno strumento estremamente utile per favorire l’inserimento lavorativo di persone che presentano particolari difficoltà di collocamento, per le Cooperative Sociali di tipo B, per le aziende in difficoltà nel trovare lavoratori con disabilità idonei da assumere, e per gli stessi uffici del Collocamento che riescono così a collocare persone iscritte spesso da più di dieci anni nelle loro liste.
Sono infatti circa il 50% le persone con disabilità iscritte che necessitano di un inserimento, definitivo o temporaneo, in un àmbito protetto (contesti non profit che si occupano dell’inserimento lavorativo di persone con disabilità e in condizioni di svantaggio sociale).
I Ministri del Lavoro che si sono succeduti non hanno pensato nemmeno di inserire le convenzioni nella sede naturale della Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili). In attesa, dunque, della presumibilmente inutile piattaforma prevista dalle Linee Guida, alle aziende plurilocalizzate, presenti cioè in più Regioni, non resta che continuare a spostare gli inserimenti delle persone con disabilità nelle Regioni e nelle Province del Nord, dove esistono buone pratiche. Questa procedura “emigratoria” è prevista dalla normativa vigente ed è chiamata “compensazione territoriale”.
Non ci resta quindi che attendere che le varie Amministrazioni Regionali si sveglino o che qualcuno le vada a svegliare.
Nel 2003, poi, il Collocamento Disabili di Lecco promuoveva le adozioni lavorative a distanza per le persone con disabilità fragili. È ormai noto a tutti che il mondo del lavoro, e le disposizioni normative favoriscono un’occupazione riservata ai cosiddetti “disabili-abili”, con un conseguente e crescente numero di esclusi dal mercato del lavoro. Fra questi i più penalizzati sono le persone con disabilità intellettiva e mentale, i portatori di Malattie Rare, le persone con disabilità sensoriale, e coloro che soffrono di gravi patologie. A molti manca un’occupazione non per difficoltà e incapacità personali, ma perché il mondo del lavoro li rifiuta, in quanto non possono garantire un impegno lavorativo regolare e un’adeguata produttività; di conseguenza vivono isolate nel loro ristretto àmbito familiare, senza alcuna prospettiva di integrazione o, peggio, in attesa di un temuto aggravarsi della propria malattia.
Per queste ragioni, e ritenendo il diritto al lavoro e a una qualità di vita obiettivi primari per ogni persona, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione, è nata la citata proposta delle adozioni lavorative a distanza, buona pratica scaturita da una duplice riflessione: le aziende dai 15 ai 35 dipendenti non possono ricorrere allo strumento dell’esonero (articolo 5 della Legge 68/99), ossia monetizzare la non assunzione del lavoratore con disabilità; altre, invece, non riescono a individuare persone con disabilità idonee. Di contro, molte persone con disabilità, pur avendo un potenziale lavorativo, non possono aspirare ad un regolare contratto di lavoro, per cause riconducibili al loro stato di salute, e sono quindi costretti a vivere in uno stato di disoccupazione edemarginazione sociale.
Attraverso l’adozione lavorativa, le aziende erogano 10.000 euro (costo dell’esonero) ad un servizio territoriale che si impegna a favorire l’inclusione socio-lavorativa di una persona con disabilità che hanno in carico. In questo modo le aziende stesse partecipano al welfare sociale e ottemperano agli obblighi di legge.
L’adozione lavorativa a distanza, quindi, è una buona prassi che consente a chi si trova in condizioni di grave fragilità di sentirsi comunque parte attiva della propria famiglia e della propria comunità, contribuendo inoltre al contenimento della spesa pubblica e offrendo benessere alla persona e alla sua famiglia. Per realizzare questo strumento, però, serve una Delibera Regionale o un provvedimento del Dirigente Regionale o Provinciale (sono ovviamente disponibili i relativi facsimili), e pertanto sarebbe nell’interesse di tutti che qualche Regione o Provincia si svegliasse anche su questo versante, visto che il ministro Orlando e l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) non sembrano intenzionati ad agire su questo fronte.
La terza e ultima buona pratica riguarda le isole formative, nate nel territorio lombardo (Delibera di Giunta Regionale n. X/1106 del 20 dicembre 2013, Linee di indirizzo a sostegno delle iniziative in favore dell’inserimento socio-lavorativo delle persone con disabilità). Con l’isola, che dura tre o cinque anni, si inseriscono in tirocinio 3 o 5 persone con disabilità. Dal canto suo, la Regione riconosce i costi per la creazione di ambienti di lavoro per persone con disabilità integrate nel processo produttivo. Infatti sono previsti percorsi di formazione al lavoro, osservazione, orientamento, tirocinio ecc., allo scopo di favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità in carico ai servizi territoriali e iscritti al Collocamento Disabili. L’isola, dunque, si configura come àmbito idoneo a realizzare una condizione di formazione in situazione ad alta intensità esperienziale, particolarmente adatta al recupero lavorativo di persone con disabilità che presentano bassi livelli di competenze professionali e/o difficoltà di apprendimento e relazionali. La realizzazione di essa garantisce percorsi formativi orientati al miglioramento dell’identità personale e dei livelli prestazionali e comportamentali dei candidati, in modo da rendere perseguibile l’inclusione lavorativa.
L’isola, come tutte le buone pratiche, è riconosciuta quale strumento per ottemperare agli obblighi di assunzione previsti dalla Legge 68/99; infatti, i soggetti coinvolti vengono computati in quella che viene definita “quota di riserva”. Si tratta di una buona prassi che anche questa ha ottenuto una scarsa diffusione, ma che sta per essere rilanciata.
È pertanto indispensabile che questi strumenti (convenzioni, adozioni lavorative a distanza, isole formative), vengano meglio conosciuti e abbiano una capillare promozione e diffusione presso le aziende; prima ancora, però, devono essere normate dalle singole Regioni.
Non ci sono infatti altre buone pratiche degne di attenzione e con una valenza nazionale. Vi è invece una miriade di progetti spesso utili alle persone con disabilità solo finché durano, lasciando inalterato il sistema del collocamento. I progetti del resto finiscono, mentre le persone con disabilità continuano a sperare. Essi non hanno bisogno di esercizi di letteratura, demagogie spicciole, passerelle di autoincensamento politico e pseudo-progettualità, scritte da chi non conosce il mondo della disabilità/lavoro. Auguriamoci quindi tempi migliori.