Il Servizio Sociale italiano, da sempre, incorpora una contraddizione semantica: le politiche sociali, i professionisti che danno vita al lavoro sociale, dovrebbero negare con la loro stessa condotta l’idea e le prassi dell’assistenza. In altre parole, le persone con disabilità, che entrano in relazione e interagiscono con le Istituzioni dovrebbero ricevere sostegno e stimoli orientati all’autonomia e all’autodeterminazione, e non alla dipendenza, tipica condizione dell’assistenza, che degenera nell’assistenzialismo.
La disabilità all’interno di una famiglia è una presenza che va a toccarne tutti i componenti, tutte le dinamiche e il funzionamento: povertà, emarginazione, diritti negati. Fotogrammi già visti e conosciuti molto bene in un’Italia depauperata che spende paradossalmente male i soldi per i più bisognosi: tutti continuano a chiedere fondi, come se per curare un tumore si chiedessero cure palliative.
Proviamo perciò a immaginare un welfare diverso, generativo, dove le capacità delle persone con disabilità diventano motore di sviluppo economico. L’obiettivo sarebbe quello di una società solidale e coesa, che inventi e sviluppi un corrispettivo dei diritti non solo individuali, ma anche sociali. In cambio dell’integrazione, si domanderebbe a chi riceve di fare qualcosa per il bene comune, salvaguardandone la dignità e dandole valore economico.
Una Legge che equiparasse gli “infortuni della vita” con quelli del lavoro [a questo link un possibile testo di Proposta di Legge, lanciato da Salvatore Cimmino, N.d.R.] sarebbe l’ideale, un investimento senza dubbio oneroso, ma che promuoverebbe il recupero alla vita attiva per un numero importante di persone e, ne sono certo, si trasformerebbe con la logica generativa in servizi alle famiglie con disabilità generando ricchezza e occupazione.
Servono coraggio e approcci nuovi. Un’idea per un futuro programma di Governo.
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