Con l’espressione “vittimizzazione secondaria” si designa quel fenomeno per cui le donne vittime di violenza subiscono una seconda “vittimizzazione”, ossia una seconda aggressione, che le rende di nuovo vittime, da parte delle Istituzioni.
Nell’aprile scorso, la Commissione Parlamentare di Inchiesta sul femminicidio e ogni altra violenza di genere, istituita presso il Senato, ha approvato all’unanimità la Relazione sulla Vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale. Nel darne a suo tempo notizia, avevamo rilevato come in essa la variabile della disabilità delle madri vittime di violenza non fosse stata considerata, e come uno dei passaggi contenuti nella Relazione stessa lasciasse intravvedere un pregiudizio nei confronti della capacità genitoriale delle donne con disabilità psichiatrica. Il tutto in contrasto con la Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica, ratificata dall’Italia con la Legge 77/13), che all’articolo 18 stabilisce l’obbligo, da parte degli Stati firmatari, di accertare che le misure adottate in materia di protezione e sostegno alle vittime «mirino ad evitare la vittimizzazione secondaria», e «soddisfino i bisogni specifici delle persone vulnerabili, compresi i minori vittime di violenze e siano loro accessibili» (grassetti nostri in queste e nelle successive citazioni testuali).
Ciò è altresì in contrasto con il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, approvato il 17 novembre dello scorso anno dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, che annovera, tra le proprie finalità, anche «la tutela delle […] vittime di discriminazioni multiple» (pagina 1), e tra i princìpi ispiratori, quelli dell’inclusione, nella prospettiva di considerare le vulnerabilità e le discriminazioni delle vittime, e dell’intersezionalità, giacché la parità di genere va considerata in rapporto a tutte le possibili discriminazioni (pagina 2).
Ebbene, il 29 luglio scorso, Maria Terranova, vicepresidente dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), ha firmato la diffusione a tutti i Comuni Italiani della suddetta Relazione. Nel sito dell’ANCI Lombardia, che ha divulgato la notizia, si legge: «La relazione è un documento che approfondisce la specificità dei casi in cui i figli minorenni che rifiutano incontri con il padre, anche quando risulta in ipotesi responsabile di episodi di violenza domestica, vengano comunque sottratti alle madri con l’uso della forza pubblica e fornisce indicazioni utili anche per gli operatori comunali, a partire dai servizi sociali e dagli eventuali servizi specifici contro la violenza sulle donne. Con l’approvazione della relazione sulla Vittimizzazione Secondaria facciamo già un primo passo per un’analisi specifica di alcune procedure che vengono schematizzate, attuandole in automatico senza prevedere i risvolti traumatici che possono scaturire da azioni di forza usate su chi ha chiesto aiuto per uscirne».
Apprezziamo questa iniziativa dell’ANCI, e riconosciamo l’importanza di dare massima divulgazione a documenti fondamentali – come la Relazione in questione – per descrivere e contrastare efficacemente la violenza contro le donne. E tuttavia preoccupa che il documento arrivi ai Comuni con le lacune evidenziate riguardo alle donne con disabilità vittime di violenza. Non si tratta infatti di sottigliezze: le peculiari caratteristiche che può assumere la vittimizzazione secondaria nelle donne con disabilità sono efficacemente illustrate, ad esempio, da Rosalba Taddeini e Flavia Landolina, rispettivamente responsabile dell’Osservatorio Nazionale sulle violenze contro le donne con disabilità dell’Associazione Differenza Donna, e tirocinante psicologa della medesima organizzazione.
In una nota informativa del 10 giugno scorso, le due operatrici spiegano che, stando ai dati raccolti dall’Osservatorio, nel 2021 le donne con disabilità hanno costituito il 5% delle donne accolte dai centri gestiti dall’Associazione, sia sul territorio laziale che campano (123 su 2,411), e che la pandemia ha portato a un incremento delle richieste d’aiuto da parte di queste donne del 36% (90 donne nel 2020 contro le 123 del 2021).
Nella loro esperienza sul campo, Taddeini e Landolina hanno rilevato che le donne con disabilità «sono più soggette a vittimizzazione secondaria nel momento in cui denunciano la violenza subita o nei procedimenti per l’affidamento dei figli. Soprattutto riguardo all’affidamento dei propri figli le discriminazioni subite dalle donne con disabilità sono molteplici e imputabili non solo ai pregiudizi del personale dei servizi, ma anche al fatto che il ricatto sui figli è molto presente nelle relazioni violente ed è utilizzato dal marito/compagno violento come uno strumento per mantenere un potere ed agire un controllo sulla donna stessa».
E ancora: «[Nei] casi di denuncia per maltrattamento, quando la donna con disabilità e i minori vengono collocati presso una casa famiglia, la madre è sempre sottoposta ad una valutazione rispetto alle capacità genitoriali che non tiene conto delle sue fragilità. L’impiego di parametri che non soppesano le caratteristiche della donna e le sue difficoltà, e che sono costruiti con indicatori standardizzati e improntati ad una cultura patriarcale, fa sì che la valutazione abbia sempre un esito negativo e che la donna sia esposta ad una ulteriore vittimizzazione secondaria».
«Circa il 70% delle donne con disabilità che arrivano ai nostri Centri Antiviolenza, alle Case Rifugio o ai nostri Codici Rosa presso gli ospedali – aggiungono Taddeini e Landolina -, hanno una difficoltà cognitiva/intellettiva e psichiatrica e sono quelle a più alto rischio di incorrere nel trattamento che abbiamo descritto, senza che venga fatta un’adeguata valutazione che consideri sia le difficoltà che le capacità, e senza prendere in considerazione di fornire loro i sostegni necessari ad esercitare il diritto di essere madri e, contemporaneamente, riconoscere al figlio il diritto di stare con la donna che lo ha messo al mondo. […] Quasi la metà delle donne con disabilità accolte nei Centri Antiviolenza ha figli. […] L’esperienza maturata nella nostra Associazione ci ha portato a constatare che le donne con disabilità cognitiva, intellettiva e psichiatrica certificata siano accompagnate sino al parto, ma i loro figli vengano resi adottabili sin dalla nascita. Invece di essere supportate nelle loro fragilità, queste donne sono costrette a tornare a casa senza i propri figli, che vengono subito dichiarati adottabili senza una reale motivazione, visto che, come detto, non vengono valutate le capacità genitoriali oggettive e il bambino viene immediatamente affidato ai servizi».
La circostanza che nella Relazione della Commissione sul femminicidio le informazioni sopracitate non siano incluse è un fatto molto grave, ed è esso stesso una forma di discriminazione istituzionale e sistemica. Per questi motivi riteniamo opportuno richiedere all’ANCI di accompagnare l’invio della Relazione ai Comuni Italiani con una comunicazione integrativa nella quale vengano illustrate le peculiari forme di vittimizzazione secondaria cui sono esposte le donne con disabilità nei procedimenti che disciplinano l’affidamento dei figli e la responsabilità genitoriale. A tal fine, chi scrive, con il proprio Centro Informare un’h, è disponibile ad offrire la più ampia collaborazione. Riteniamo per altro che una comunicazione integrativa non cancelli la grave lacuna, ma possa contribuire a ridurre il danno che da essa scaturisce.
Per approfondire ulteriormente i temi riguardanti le donne con disabilità e la violenza da esse subita, si può fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alle sezioni La violenza nei confronti delle donne con disabilità e Donne con disabilità, nel sito del Centro Informare un’h.