È difficile, direi impossibile, non essere d’accordo, quando da varie parti si sottolinea l’esigenza di dare importanza a quel valore fondante della vita che si chiama “inclusione”. Ne avverto personalmente l’importanza da moltissimo tempo, a maggior ragione avendo un figlio autistico di 41 anni che vive in una comunità (sostantivo che preferisco a quello di “struttura”) RSD [Residenza Sanitaria Disabili, N.d.R.].
È una situazione, la nostra, la mia e quella di mio figlio intendo, tutt’altro che infrequente. Coinvolge, infatti, molte decine di migliaia di persone e bene faremmo a non dimenticarlo, per non cadere nella solita malinconica retorica della cura esclusiva del proprio orticello, che ci porta a disinteressarci dei problemi degli altri, con sommo godimento delle Istituzioni che amano vederci divisi.
Chi ha un figlio inserito in una comunità, sia essa RSD o altro, lo ha fatto quasi sempre al termine di scelte dolorose sulle quali è inaccettabile esprimere non solo giudizi, ma persino opinioni, visto che parliamo di storie e drammi di cui non si sa nulla. È giusto che io lo ricordi a quanti hanno fatto (legittimamente) scelte diverse.
Non esistono i “buoni” da una parte (quelli che non dormono mai la notte, quelli che sono spesso aggrediti dai figli, quelli che nonostante mille sacrifici non raccolgono nulla e vedono frantumarsi giorno dopo giorno la loro esistenza insieme a quella dei loro cari) e i “cattivi” dall’altra. È una classificazione semplicistica e ingiusta perché tra i presunti “cattivi” potrebbero esserci persone sole che, abbandonate dallo Stato, non sanno più come arrabattarsi per sbarcare il lunario, persone che non ne possono più di subire violenze, persone che hanno tutto il diritto di vivere una vita dignitosa al pari dei loro figli. Né, mi si perdoni la sottolineatura, è così scontato e dimostrabile che restare chiusi in casa, con genitori avanti con gli anni e che a malapena riescono a badare a se stessi, sia per forza meno alienante che farlo da altre parti…
La verità è che bisogna lavorare per impedire “ovunque” forme di alienazione, fermo restando che – come avrebbe detto il celebre Catalano – affrontare in “uno” la realtà drammatica dell’autismo non è, in ogni caso, così complicato come farlo in “due”, o avere vicini altri congiunti che si fanno carico di una sofferenza spesso molto grande.
Tutto questo mi serve per introdurre il tema legato a quali aspettative, a quale vita e a quale futuro debbano (giustamente) ambire le persone autistiche (posso dire tutte le persone fragili?) e le loro famiglie. Io credo che con “Comunità, Case Famiglia, RSD eccetera”, occorra fare i conti senza sconti per nessuno, dove per “nessuno” intendo soprattutto (ma non solo…) la politica. I progetti megagalattici, dai nomi esotici, sono bellissimi, ma hanno un solo limite che si traduce in un involontario difetto: la fattibilità. Quanto tempo e quante risorse impone la loro realizzazione e quante famiglie poco abbienti possono essere coinvolte?
Mi chiedo: «Mentre aspettiamo che certe roboanti iniziative finalizzate al cosiddetto “dopo di noi” si realizzino (tra parentesi dico che faccio il tifo per loro e per chi li propone) che cosa facciamo nell’immediato?».
Non mi sono mai piaciute le scorciatoie personalistiche, né tanto meno le elemosine chieste ai politici e/o le lettere consegnate a mano ai Ministri e ai loro portaborse. I diritti non vanno pietiti, ma “pretesi”, in tutte le sedi (non in tutte, meno qualcuna). I Servizi e le Istituzioni vanno inchiodati, senza se e senza ma, alle loro responsabilità e se serve, sbattuti davanti ad una corte di giustizia. Al posto delle elemosine serve lavorare, dal basso, ad una presa di coscienza vera delle famiglie. Occorre far crescere la sensibilizzazione, l’informazione, la conoscenza. E questo compito non può essere delegato a nessuno, né venire surrogato da letterine con loghi prestampati e preghiere recitate davanti all’altarino di casa.
Gli autistici adulti, e i loro cari vanno aiutati non con spot e cartoline promozionali, ma con interventi “altri”. Bisogna lavorare affinché le comunità che li ospitano siano a misura del loro bisogni, con personale formato e aggiornato, con un supporto di interventi cognitivo comportamentali e clinici che non si capisce per quali motivi sia giusto rivendicare all’esterno delle RSD e non all’interno.
Il problema, insomma, non è cassare, sic et simpliciter, le comunità esistenti, in attesa della venuta dell’”araba fenice”, ma migliorarle il più possibile, affinché i nostri figli abbiano una loro vita indipendente e i genitori non siano costretti, proprio da quella stessa politica davanti alla quale ci si genuflette, ad annullare la loro esistenza.
Tutto ciò può andare di pari passo con lo sviluppo di forme di cohousing e altre sperimentazioni sul territorio che riducano fortemente, anzi cancellino, il rischio di emarginazione e (persino) segregazione. È tempo di pensare, oggi, all’autistico come individuo sociale, favorendone la piena integrazione sul territorio attraverso misure che permettano di trovare nuove motivazioni, sviluppare abilità, occasioni di socializzazione, attività formative in grado di sfociare, perché no?, in un inserimento lavorativo protetto.
Non possiamo, insomma, essere imbalsamati dal totem del “dopo di noi”, quando, nel frattempo, esiste un “durante noi” davanti al quale siamo largamente impreparati e rassegnati. I nostri figli, e noi con loro, hanno bisogno “ora e subito” di risposte consone. Credo che lavorare per migliorare la realtà con la quale ogni giorno facciamo i conti sia più urgente della pur doverosa attenzione da prestare verso ciò che (solo per comodità) chiamo “scenario futuribile”.
Giustamente noi familiari poniamo quasi sempre l’accento sui deficit che accompagnano l’esistenza dei nostri cari. Sarebbe tempo che ci occupassimo anche di noi, perché è del tutto evidente che il nostro “mal-essere” non è di alcuna utilità ai nostri figli. Siamo talmente arretrati e legati al nostro misero orticello che mi è capitato di sentire da mamme sole, che vivono unicamente del loro lavoro e hanno un figlio inserito in una comunità residenziale, che è stato loro “consigliato” da qualche genitore di tenersi il figlio in casa, lasciando quel lavoro che rappresenta l’unica fonte di reddito… Come è possibile sostenere queste eresie? Come si fa a non capire che il lavoro è un diritto sancito dalla Costituzione al pari di quello legato alla cura dei soggetti più fragili?
Davanti a certe frasi si capisce che abbiamo un immenso bisogno di crescere. Iniziamo a farlo.