«Non siamo all’anno zero», ammoniva Andrea Pancaldi in un testo pubblicato su queste stesse pagine nel 2012, nel quale, riguardo alla sessualità delle persone con disabilità, esortava soprattutto chi fa informazione in questo settore a non scordare le decine di libri, le centinaia di articoli, di convegni, di attività di formazione e di progetti promossi negli ultimi decenni su tali temi, «per non dover ogni volta “ripartire da capo”, per non tornare in ogni occasione alla casella del VIA, come nel gioco del Monopoli».
Stando a Pancaldi, già nel 1974 Camillo Valgimigli trattò l’argomento dalle colonne del «Corriere della Sera», e forse non era stato nemmeno il primo a farlo giacché, spiega l’Autore, ne aveva già scritto in precedenza Rosanna Benzi sulla sua rivista «Gli Altri». Da allora, intendo dal 2012, di libri, articoli, convegni, corsi e progetti su questa materia se ne sono aggiunti molti altri.
Viene da chiedersi se a distanza di quasi cinquant’anni da quelle prime trattazioni ci sia ancora qualcosa da dire riguardo all’affettività e alla sessualità persone con disabilità. Direi di sì, perché se è vero che molte cose su questo fronte sono migliorate, non si può dire che la questione sia stata risolta, né che tutte le barriere e i pregiudizi in merito siano stati superati. A ciò si aggiunga l’impressione che nello sforzo (condivisibile) di sottrarre il tema al dominio del giudizio morale, si sia finito per riflettere meno sui sentimenti, e in particolare sull’amore.
Possiamo ipotizzare che l’amore – inteso come sentimento – sia considerato meno problematico rispetto alla sessualità, sia perché quest’ultima coinvolge anche la sfera corporea e quella funzionale (e dunque anche le menomazioni che potrebbero interessarle), ma anche per la complessità e le ambiguità che connotano la sessualità di ciascun individuo, a prescindere dal fatto che abbia una disabilità o meno.
Mi sembra che in qualche modo a livello divulgativo la narrazione prevalente sia stata orientata ad affermare che tutte le persone sono sessuate e hanno diritto ad esprimere la propria sessualità – e va bene, ci mancherebbe –, mentre sia stata appunto trascurata la riflessione critica sull’amore.
In tema di affettività e sessualità la scrittrice e giornalista Jennifer Guerra, nella sua recente opera denominata Il capitale amoroso. Manifesto per un eros politico e rivoluzionario (Giunti/Bompiani, 2021), osserva come, mentre romanzi, film e pubblicità continuano a proporre una visione romantica e fasulla del sentimento amoroso (presentato quasi fosse uno stato di felicità permanente), la nostra società assume un atteggiamento cinico e spezzante nei confronti dell’amore, considerandolo «un sentimento stupido, inutile o noioso, una fantasia per adolescenti, un ripiego per chi non sta stare solo, un lusso per pochi. Questa contrapposizione – spiega l’Autrice nel risvolto di copertina – è il frutto pericoloso dell’individualismo capitalista, un sistema che mentre stigmatizza la solitudine e colpevolizza chi la vive come indegno d’amore, ci vuole sempre più soli, divisi ed in competizione tra noi. Concentrati su noi stessi, ci vediamo rubare il tempo che potremmo usare per coltivare le relazioni con gli altri, amore compreso».
Nel volume Guerra illustra, tra le altre cose, una classificazione dell’amore proposta dal sociologo canadese John Alan Lee nell’opera Colours of Love: An Exploration of the Ways of Loving. In questa pubblicazione, datata 1973, Lee individuò sei tipologie (o “ideologie”) dell’amore, di cui tre sono derivate dalla tradizione greca – eros, ludos, storge –, mentre le rimanenti sono date dalla combinazione delle precedenti: agape (che deriva dalla combinazione di eros e storge), pragma (composta da ludos e storge) e mania (data da eros più ludos). Spiega Guerra che «[q]ueste categorie non vanno intese come assolute, ma come interdipendenti: ognuno di noi di volta in volta le può adottare tutte, qualcuno ne sceglierà una in modo prevalente, oppure la sperimenterà solo per un certo periodo» (opera citata, pagina 18).
Vediamo brevemente di che si tratta. Eros può essere sintetizzato come “l’amore a prima vista”, quello che attribuisce grande importanza all’aspetto esteriore, esalta la bellezza e l’attrazione fisica, e induce alla ricerca di qualcuno/a corrispondente ad un certo ideale estetico.
Ludos intende la relazione d’amore come un gioco e ha una componente competitiva. «Chi pratica l’amore ludico cerca nell’altro un compagno di divertimenti, sessuali o meno, è di solito poco incline a legami stabili, ma è comunque disposto a rispettare le regole del gioco, ovvero le strategie che si usano per conquistare l’amore dell’altro» (opera citata, pagina 19).
Con storge Lee indica l’amore inteso come amicizia. Le relazioni storge sono prive di passione, ma scaturiscono da sentimenti molto profondi, sorti e maturati in contesti di prossimità. Questi rapporti si basano sull’empatia verso l’altro, empatia che tende a crescere nel tempo creando stabilità.
Il modello d’amore chiamato mania che, come accennato, è dato dall’unione di eros e ludos, si basa invece sull’ossessione e sul controllo. «Chi pratica mania ha come unico pensiero la persona amata e si considera “l’Altro” della coppia, quasi non fosse all’altezza dell’oggetto perfetto del suo amore. Ci si riconoscono le persone infelici, che hanno bisogno continuamente di essere rassicurate. Le relazioni basate sulla mania sono spesso brevi, perché poggiano su basi fragili. Non è raro infatti che l’amore ossessivo si trasformi in odio» (opera citata, pagina 20).
La penultima, non per importanza, ideologia dell’amore individuata da Lee è pragma, che nasce dalla fusione di ludos e storge, e si basa sul calcolo, la compatibilità e la convenienza. Pragma, secondo Guerra, è l’ideologia sull’amore dominante nella società moderna, e ha come elementi cardine il matrimonio e la famiglia. «A caratterizzare maggiormente pragma è però il senso di realismo (e materialismo) – racconta Guerra – che si concretizza nel calcolo della convenienza – sociale o economica – di una relazione, considerata come un investimento con il minor margine possibile di rischio» (opera citata, pagina 21).
L’ultima ideologia dell’amore presente nella classificazione proposta da Lee è agape, ovvero l’amore incondizionato, basato sull’altruismo e sulla compassione. Dato dall’unione di eros e storge, agape «non considera alcun tipo di guadagno o vantaggio personale, e può essere rivolto verso una singola persona, oppure verso un gruppo o una comunità» (opera citata, pagina 26).
Agape corrisponde al precetto «Amerai il prossimo tuo come te stesso» posto da Gesù a fondamento della teologia cristiana, ed è caratterizzato dal sacrificio di sé.
Ma a parte gli aspetti analitici e definitori, che comunque sono sempre utili ad accrescere la conoscenza e la consapevolezza, cosa c’è di interessante nell’opera di Guerra? C’è il fatto che l’amore, oltre che come un sentimento, può essere considerato – e così lo considera Guerra – anche come un’azione di cui abbiamo responsabilità. Il che non significa che ci innamoriamo a comando, significa invece guardare all’amore (inteso come agape) anche come a una forza sociale «in grado di cambiare profondamente non solo la vita di ciascuno di noi, ma anche la società nel suo insieme» (opera citata, pagina 16). Spiega infatti Guerra, nel risvolto di copertina, che «nell’epoca in cui le relazioni si basano sullo scambio, sull’utilità, sulla convenienza, sulla compatibilità, lasciare invece spazio a un amore incondizionato e libero, capace di passare dal singolo alla comunità, può essere una delle azioni più antisistema, rivoluzionarie e coraggiose che possiamo fare per cambiare la nostra società: un vero atto di resistenza in questi tempi sempre più divisi».
Quella proposta da Guerra non è la visione di amore ingenua, sdolcinata e stucchevole, il cui bersaglio sono soprattutto le donne, è invece un’azione rivoluzionaria con una forte potenzialità trasformativa che parte da un lavoro su noi stessi e sul nostro modo di relazionarci agli altri, e si riverbera sulla società. «L’amore non è uno stato di grazia o un obiettivo lontano – argomenta l’Autrice – è una pratica quotidiana di resistenza che ci ricorda che c’è qualcosa di bello e di buono anche in una realtà difficile da cambiare. E soprattutto che se non possiamo cambiare la realtà, possiamo perlomeno cambiare noi stessi» (opera citata, pagiona 121). La qual cosa, mi viene da aggiungere, è già un modo di cambiare la realtà.
Tornando alla sessualità/affettività delle persone con disabilità, mi sembra che la narrazione dominante – che soprattutto negli ultimi tempi si è incentrata nel rivendicare il (sacrosanto) diritto delle persone con disabilità di essere considerate come soggetti sessuati ad esprimere la propria sessualità –, abbia spesso trascurato di affermare con uguale forza che le stesse persone con disabilità sono degne di amore e capaci di amare. La mancanza, quanto meno a livello divulgativo, di una riflessione critica sull’amore e sulle sue diverse ideologie non ha permesso di individuare e promuovere quelle più idonee a realizzare l’approccio inclusivo promosso dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09). Credo infatti che promuovere una certa idea di amore non sia solo un antidoto all’individualismo capitalista (come argomentato da Guerra), ma possa rivelarsi altrettanto efficace nel contrastare l’abilismo, e che forse varrebbe la pena di provare ad indirizzare la divulgazione anche in tal senso. Alla fine si tratterebbe solo di porre le domande giuste: che idea dell’amore si sono fatte le persone con disabilità? Quanto investono per realizzarla? E quale importanza attribuiscono all’amore nelle loro vite?
Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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