A proposito di quanto scritto su queste pagine da Gianfranco Vitale, in Il diritto per tutti di vivere un’esistenza dignitosa, caro Gianfranco, mentre scrivo penso con malinconia a quanto falsa fosse una frase della mia infanzia, traslata dal Vangelo, e ripetuta dai preti e genitori. La riflessione era questa: Dio non dà mai una croce senza dare le possibilità di sopportarla.
Avrebbe dovuto rassicurarmi nei momenti di difficoltà e motivarmi a pensare che ero una persona forte e preparata ad ogni avversità. Da quando però sono diventata la mamma di un ragazzo, ormai un uomo, con autismo, mi sono resa conto che non solo è un’affermazione falsa, ma che lo è perché non tiene conto di una legge fondamentale della natura: il cambiamento.
Può darsi che, malgrado la mia disabilità, a 30 anni io fossi abbastanza forte da riuscire, con l’aiuto di un marito che disabilità allora non ne aveva, a gestire mio figlio nel dedalo di terapie e visite che non erano mai organizzate correttamente, con orari che cambiavano, scuole che da un anno all’altro cambiavano insegnanti di sostegno, vacanze in cui eri abbandonato, età. Ma il tempo poi è passato: io non sono diventata più giovane, né lo è mio marito. Le esigenze di mio figlio Giovanni sono cambiate ed è diventato necessario gestire la sua crescente energia, frustrazione, desiderio di compagnia e di raggiungere traguardi.
Molte delle realtà che ci troviamo ad affrontare non vengono nemmeno considerate tali da un sistema ipocrita che nega, ad esempio, le esigenze sessuali delle persone con autismo adulte, che non prende in considerazione l’identità di genere e pensa che i nostri figli vivano in una specie di bolla dalla quale non vedono i traguardi cui arrivano gli altri, non vedono i loro cugini diplomarsi, laurearsi, avere ragazze e compagni di vita.
Il sistema ipocrita pensa al momento che non ci saremo più, con risultati le cui aspettative non tengono poi conto degli individui reali, e non considera affatto che, nel frattempo, il tempo scava dentro di noi, che trasforma i nostri corpi e le nostre menti, in maniera attesa, ma a volte anche no, con uno dei due genitori che può ammalarsi, esaurirsi, lasciare solo l’altro.
È stato il sistema ipocrita a inventarsi il detto della croce di cui sopra, nessun dio l’avrebbe mai pronunciato. E soprattutto, forse noi, forse io, potrei tollerare la mia croce se non sapessi che mio figlio ne porta una altrettanto grande e che non è in grado di capirne la portata.
Penso a quei figli con autismo o altri problemi che sono morti accanto alle loro madri ultrasettantenni, o addirittura ultraottantenni, in completa solitudine. O, come è successo di recente, che sono rimasti vivi e terrorizzati, con la persona che se ne prendeva cura, la madre o il padre, ormai impossibilitati ad aiutarli.
Spesso a queste notizie si dedicano due righe, e sempre rivolte a questo caro esausto. Quasi mai, anzi oserei dire mai, all’altro. A quella persona con disabilità che viene quasi ignorata, cui non si dedica manco un trafiletto, cui non si vuole pensare.
E siamo soli in questo, come siamo soli quando scegliamo di affidare il figlio o il parente alle cure delle residenze, che dovrebbero tutelarli e rispettarli, ma che spesso non hanno abbastanza fondi o aiuti per fare un buon lavoro.
Mentre scrivo Giovanni è andato nella struttura che lo accoglie nei fine settimana. Ci si trova bene, è felice e ben controllato. Ma, per il momento, è una struttura che pago io. Lo Stato non ha ancora investito nelle realtà delle case famiglia e delle strutture che davvero hanno a cuore un percorso rieducativo e di qualità delle persone con autismo. Potrebbe farlo, invece di disperdere in mille rivoli di strutture spesso non adatte, e che non lo siano te lo dicono anche in faccia, rimandandoti il figlio a casa.
Lo dice la Costituzione, abbiamo tutti diritto alla qualità della vita, sani o malati, però poi… I fondi non ci sono, i programmi politici al di là delle parole sono inesistenti. Il lavoro è ritenuto una specie di optional per questi cittadini il cui diritto ad essere considerati tali non esiste.
Mio figlio è stato un cittadino da quando è nato. Ha avuto un codice fiscale, ha una tessera sanitaria. Esiste. Giovanni è, per costituzione, una persona che ha diritto ad una vita degna di essere chiamata tale. E questo non dipende dalla sua famiglia, formata da individui che hanno a loro volta diritto ad una vita in cui esistono il riposo, le vacanze, e un termine al lavoro di essere genitori o fratelli. Dipende da un mondo ipocrita che deve togliere finalmente le fette di prosciutto dagli occhi e cominciare a lavorare seriamente.