Due esperienze di vita a confronto, due generazioni diverse parlano di disabilità e di tutto ciò che le ruota intorno, dalle emozioni più personali alle grandi questioni come il bullismo, la scuola e il lavoro, passando per la percezione che gli altri hanno delle persone con disabilità e di come questa è cambiata nel corso del tempo. Un dialogo a distanza virtuale tra Leonardo Cardo, attivista per i diritti, noto come “zio Leo”, famoso per il suo blog Il mio mondo dal basso verso l’alto, e la sottoscritta, Stefania Delendati, collaboratrice di «Superando.it» e del blog InVisibili del «Corriere della Sera.it», amica dello zio Leo. A lui devo l’idea di questa intervista doppia, inizialmente il protagonista avrebbe dovuto essere soltanto Leonardo, ma parlando al telefono alcune volte e facendo i discorsi che più o meno leggerete di seguito, ha intuito che sarebbe stato interessante proporre le nostre idee ai lettori della testata. Niente lezioni di vita, bensì spunti di riflessione su temi che, alla fine, riguardano tutti e non sono confinati alla disabilità.
«Io non posso cambiare il mio aspetto, ma voi potete cambiare il vostro modo di pensare»: questa frase sta molto a cuore allo zio Leo e campeggia anche su una maglietta che ha indossato per sensibilizzare l’opinione pubblica contro il body shaming (forma di bullismo che colpisce l’aspetto fisico delle persone).
In base alle vostre esperienze, negli ultimi anni è cambiato in meglio lo sguardo della gente verso le persone con disabilità?
Stefania: «Sì, penso che in linea di massima qualche timido passo avanti sia stato compiuto. Capita più di rado che, ad esempio, in un negozio dove sto acquistando qualcosa in compagnia di un’altra persona, si rivolgano al mio accompagnatore anziché a me. In altre parole, se l’acquirente sono io, il/la negoziante parla con me. Può sembrare una banalità, eppure fino a non molti anni fa mi passavano sopra con lo sguardo come se non fossi stata presente».
Leonardo: «Purtroppo è ancora vero! Speravo che la gente cambiasse il modo di pensare. Tra gli Anni Sessanta e gli Anni Ottanta eravamo costretti a stare in casa, perché la gente ci guardava non come persone “disabili”, ma come persone “disgraziate” (brutta parola) che hanno avuto una sfortuna o peggio una disgrazia in famiglia. Un po’ le cose sono cambiate con l’entrata dell’ONU e dei diritti umani, è iniziato veramente un processo di uguaglianza, è stato molto lungo ma non è ancora finito. Anzi, in questo periodo Internet ci ha portato a un livello tale di body shaming che praticamente passeggiando le persone ci fotografano e poi scrivono dei commenti molto brutti e pesanti. Quanti ragazzi con un piccolo difetto fisico o per obesità, bulimia si sono sentiti umiliati, e in questi giorni un ragazzo si è suicidato. I social non hanno portato un valore aggiunto, ma tanta incoerenza, sui social tutto è lecito, ma le parole hanno un peso e dove non si ha il buon gusto di quello che si dice o si scrive siamo alla mercé di tutti, come se fossimo quasi alla gogna, di persone che neppure conosciamo come se fossimo fenomeni da baraccone. Ho visto gente desiderare di morire per l’umiliazione subita, sono morti per la vergogna, noi usiamo il cellulare per filmare un pestaggio, per poi metterlo in esclusiva, ma non dividiamo i due contendenti…».
“Diverso”, cosa pensate di questa parola quando viene utilizzata in riferimento alla disabilità?
Stefania: «Diversità è una parola a doppio taglio che può essere usata sia in accezione positiva che negativa, a mio parere. È positivo, infatti, pensare che ognuno di noi sia diverso dagli altri, e questa differenza non dipende dalla disabilità, nemmeno tra i “normodotati”, infatti, esiste una persona uguale ad un’altra, è questo il bello del mondo. Diventa una definizione negativa quando sottintende che le persone devono corrispondere a determinati canoni, chi non vi rientra riceve il bollino di “diverso” che equivale all’emarginazione sociale. Paradossalmente, in alcune occasioni (ed è capitato anche a me) la persona con disabilità diventa “diversa” perché non ci sta a rispettare lo stereotipo del soggetto debole, remissivo, sempre sorridente e bisognoso d’aiuto. Insomma, se ci si mostra come persone prima che come disabili non sempre siamo capiti».
Leonardo: «Io non ho la presunzione di voler cambiare il mondo, ma sto cercando di testimoniare quella situazione che ci rende diversi, ma in realtà ci rende unici. Ma unico non vuol dire essere “un fenomeno”, essere un soggetto esistente con quella sola e unica fisicità, ma nella nostra unicità siamo in grado di stare in mezzo alla gente e capire più degli altri, essere unico non è un pregio, essere unico vuol dire capire il significato della lotta che facciamo tutti i giorni per vivere e non sopravvivere.
Se mi guardo allo specchio mi vedo, imperfetto ma unico, se prendo una fotografia di un attore, io ho due occhi, un naso, una bocca, un corpo come lui. Dov’è la diversità, siamo due uomini, lo stesso vale per le donne cosa ci divide da maschio e femmina, siamo due esseri umani. Lo stesso vale per le persone LGBTQ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Queer), che vengono considerate diverse, ma da che cosa? La diversità è negli occhi di chi guarda, amare in un modo o nell’altro è principalmente Amore».
Da quando Leonardo è in pensione non si è fermato un attimo, tanto per cominciare ha fondato un blog di successo, Il mio mondo dal basso verso l’alto, nel quale si occupa di inclusione. Internet offre grandi opportunità per raggiungere con messaggi positivi tante persone, soprattutto giovani…
Stefania: «Ho iniziato a scrivere nel 1995, avevo 19 anni. Internet non era ancora sviluppato come oggi, scrivevo per la carta stampata e raggiungevo un numero limitato di lettori. Oggi mi rendo conto che i miei articoli online vengono letti da molte più persone, tante dopo mi scrivono in privato, così è nato l’incontro con lo zio Leo e l’idea di questa doppia intervista per raccontare le nostre rispettive opinioni ed esperienze sulla disabilità. Più persone raggiungi, più credo aumenti la responsabilità nel veicolare il giusto messaggio con le giuste parole. Rispetto a pochi anni fa sento molto più questa responsabilità e cerco di fare del mio meglio».
Leonardo: «Dal novembre 2020 sono in pensione, e ora ho più tempo per essere presente nel mondo dell’Happy Inclusion [letteralmente “Inclusione felice”, N.d.R.]. Sono uno dei responsabili dell’associazione Acondroplasia insieme per crescere, e gestisco un blog esperienziale, Il mio mondo dal basso verso l’alto. Io ho una mia filosofia di vita “Happy Inclusion”, la felicità di essere inclusi, io desidero con tutte le mie forze che tutte le persone siano incluse nella scuola, nelle università, nel lavoro, che debbano tutti e dico tutti essere considerati come una risorsa, normodotati e non normodotati. La vita che facciamo tutti insieme dura un milionesimo di secondo rispetto a tutto l’universo e dobbiamo viverla nei migliori dei modi; stiamo invece assistendo a una “mancanza di umanità”, è l’egocentrismo che causa il male. Nelle scuole mi batto contro i pregiudizi di genere e il bullismo che in questo periodo sta dilagando a macchia d’olio. Il mio desiderio non è che uno su mille ce la possa fare, ma che mille ce la possano fare. Non ho la cura per diventare alto, ma ho la voglia di far capire quanto siamo alti nella nostra umanità. Questo vale per tutte le persone, dal più piccolo al più grande, dalla persona più giovane a quella più anziana, ciò che conta è il rispetto dell’Umanità della persona. Sto cercando di non scrivere la mia biografia per essere d’esempio, ma essere esempio di vita, rispondendo a tutte le persone, senza essere il primo della classe».
Grandi opportunità, ma la rete globale, consentendo a tutti di scrivere ciò che pensano, a volte scatena i cosiddetti “leoni da tastiera” che si scagliano anche contro le persone con disabilità con parole durissime…
Stefania: «Non è questo un problema che riguarda soltanto le persone con disabilità, basti pensare ai tanti tragici fatti di cronaca in cui ci sono giovanissimi che si tolgono la vita perché bersagliati da commenti offensivi e insulti in chat e sui social, oppure alle persone con un orientamento sessuale considerato “distorto”. Ci sono situazioni di grave sofferenza e questa non è una prerogativa delle persone con disabilità. Manca l’educazione nelle famiglie prima che nelle scuole, i ragazzi di oggi spesso non hanno esempi positivi di riferimento, finiscono per credere che essere in rete e “spararla grossa” equivalga ad esistere. La rete in sé non è né buona né cattiva, dipende dall’uso che se ne fa, la nostra società non ha ancora imparato ad utilizzarla per il bene comune, e questa è una responsabilità di noi adulti, anche disabili».
Leonardo: «Martin Luther King aveva un sogno, l’integrazione, anch’io ho un sogno, il rispetto dell’essere umano. Quindi io dico a voi, “leoni da tastiera”, cercate di non essere sempre pronti a giudicare gli altri, a sbeffeggiare gli altri, ma ogni tanto fermatevi e pensate come quella persona con quelle parole come si potrà sentire. Per una volta mettetevi nei miei panni o nei nostri panni, vi risulteranno stretti e stretto è anche il vostro modo di fare nei nostri confronti. La disabilità non è una cosa voluta, o una cosa mandata dal cielo, la disabilità, se la si riconosce come tale, può essere una risorsa. Certamente anche noi se veniamo guardati in un certo modo possiamo essere acidi, perché dopo un po’ il vostro modo di pensare o di scrivere ci logora. Provate a pensare che il vostro io può fare male al nostro io, quindi ci dobbiamo ribellare.
L’esasperazione uccide, una goccia sulla testa ogni secondo è la più grande tortura, e le vostre “parole” sono come tali gocce, o ci portano a difenderci o a lasciare questo mondo che non ci appartiene. Non c’è nessuna rivoluzione da fare, ma c’è una cosa fondamentale: rendersi conto che la nostra vita è basata sullo stare insieme, sul convivere insieme in modo sereno senza pregiudizi di sorta».
Le parole hanno un peso, è stato ribadito quando i mass-media hanno riportato la notizia dell’offesa subita da Renato Brunetta, definito “nano”. In quell’occasione zio Leo ha accennato al concetto di “disabilità intellettuale”…
Stefania: «Sono meno indulgente di Leonardo su questo punto. Trovo che offendere intenzionalmente una persona colpendo la sua fisicità nasconda anche un briciolo di cattiveria. Di certo manca anche la cultura e questa è la disabilità più grave, per tutta la società; in questo senso la disabilità intellettuale rimane una stortura del mondo moderno, esacerbata dalla velocità con cui le informazioni viaggiano.
Questa domanda pone un’altra questione ritenuta “scomoda”: è possibile criticare una persona con disabilità? Siccome siamo tutti passibili di errore, non c’è nulla di male nel fare una critica costruttiva (e sottolineo costruttiva) ad una persona, indipendentemente dalle sue condizioni fisiche. Invece spesso gli altri si tirano indietro quando devono obiettare su un comportamento sbagliato, se compiuto da un soggetto con disabilità, visto come “perfetto nell’anima e quindi intoccabile”. Ecco, mi piacerebbe che l’inclusione includesse anche il nostro diritto di essere criticati per ciò che facciamo o pensiamo di sbagliato, senza toccare l’aspetto esteriore che non c’entra nulla».
Leonardo: «Quando sento la parola “nano” io mi arrabbio, sì, mi arrabbio, è come se io dovessi dire a una persona, grasso, down, autistico. Non si indica una persona per patologia, io mi chiamo Leonardo, tu ti chiami Stefania e sulla carta d’identità non abbiamo scritta la patologia, noi abbiamo tutti e due un nome e un cognome.
È certo che molte volte, nel confronto con gli altri, l’uomo, invece di “Ragionare”, si trasforma in un “disabile intellettuale” dando nel “nano”, del “frocio”, del “negro”, perché la sua mentalità è completamente non abile a far capire i suoi progetti e se qualcuno non è d’accordo, allora si scaglia contro l’altro. Questa la considero la disabilità vera e propria, quella intellettuale. Ma non capiscono, però, che è come sparare ad un leone con proiettili di plastica, alla fine perdono, perché è evidente la poca credibilità delle loro parole.
Le parole hanno un peso, avete costruito tanti muri coi vostri mattoni e mattone per mattone li stiamo buttando giù, ma è difficile abbattere la “disabilità intellettuale”, perché è presente sui media, sui giornali e, come dice Tiziano Ferro, voi “disabili intellettuali” fate come volete, ma arriverà un giorno, in cui la vostra libertà sarà negata e da leoni diventerete pecore».
Come avete trascorso l’infanzia e l’adolescenza?
Stefania: «Sono stata una bambina felice, non mi vedevo diversa dagli altri anche se non camminavo. I miei genitori mi dicevano che dovevo fare da sola tutto quello che riuscivo, non importava se ci impiegavo più tempo per le difficoltà di movimento, l’importante era riuscirci, e questo imprinting mi è rimasto anche ora che praticamente non muovo un muscolo! A scuola ero ben integrata, nonostante qualche commento poco felice di alcuni compagni (sui quali sorvolavo allegramente) e di alcuni insegnanti da cui ci si sarebbe aspettati maggiore apertura mentale. A loro parziale discolpa vorrei dire che negli Anni Ottanta l’inclusione scolastica non era ancora una realtà consolidata e anche vedere persone con disabilità in giro era più raro.
Per problemi di salute non ho potuto proseguire gli studi dopo la scuola dell’obbligo, allora non c’era la possibilità della didattica a distanza e abitare in un piccolo paese dove non c’erano scuole superiori non ha aiutato. Per questa ragione l’adolescenza è stata più isolata rispetto a quella dei miei coetanei, tanti amici si sono allontanati, ma i più cari sono rimasti e sono ancora qui, altri si sono aggiunti grazie al mio lavoro come giornalista e ai ricoveri in ospedale, dove ho incontrato alcuni tra gli amici che oggi sento più vicini, conoscenze preziose anche se molte sono fisicamente lontane».
Leonardo: «Durante l’infanzia ero iper-protetto, non fare questo, devo fare quello, se vai là ti fai male, non andare a sciare, non andare a giocare a pallone perché gli altri sono più alti. Nella scuola un po’ di bullismo, ma per paura, facevo di tutto per essere accettato.
Sì, facevo di tutto per essere accettato e quindi molte volte mi comportavo come lo zerbino, questa è un’azione che mi rimprovererò per tutta la vita, “fare delle cose per piacere agli altri”.
Nell’adolescenza ho conosciuto gente che voleva santificarsi, ora mi vergogno di questo, pensavano di aiutarmi con il pietismo. Io non ho bisogno di santi, io ho bisogno di persone che accanto a me possano vivere la loro vita nello stesso modo in cui vivo io, non c’è nessuna differenza.
L’ho già detto: se io mi guardo allo specchio e guardo una fotografia di un bellissimo attore, io ho due occhi come lui, un naso come lui, io ho una bocca come lui, non sono un extraterrestre, tutti e due abbiamo la stessa unicità.
Nella scuola chi mi amava in modo impagabile, ma nello stesso tempo imparziale, erano i professori, i bidelli, la gente che contornava il mondo della scuola; erano attenti alle mie necessità, ma anche questo non mi portava a crescere e a vedere che quando sarei uscito nel mondo, le cose non sarebbero state sempre in questo modo».
Oggi l’inserimento scolastico in Italia è una realtà, seppur non priva di problemi a livello attuativo. Avete conosciuto bambini con la vostra stessa patologia che attualmente frequentano la scuola? Quali problemi affrontano, sia a livello pratico che umano, per inserirsi in classe?
Stefania: «Non conosco di persona bambini con disabilità che frequentano la scuola. Ho avuto modo però di confrontarmi con un’amica insegnante di sostegno nella scuola primaria e dai suoi racconti capisco che oggi la scuola è più preparata, aiutata anche dalle tecnologie, tutti i docenti sono coinvolti nell’inclusione. I problemi permangono a livello burocratico, ad esempio quando i bambini con disabilità sono costretti ad iniziare l’anno scolastico senza insegnanti di sostegno o assistenti, perché non ancora nominati, oppure devono cambiare figura di riferimento ogni anno, mentre per loro sarebbe fondamentale la continuità con la stessa persona. Quelli che come sempre sorprendono di più sono i bambini, che oggi, come anni fa, dimostrano amicizia verso i compagni con disabilità e cercano di aiutarli, lo vedo nell’agire dei figli delle mie amiche».
Leonardo: «Sì, ne conosco molti, di tutti i tipi di disabilità. Come ho già detto, sono testimonial nelle scuole e nelle università, ma obbligo i professori a non dire chi sono e cosa faccio. Mi metto poi davanti alla porta e vedo le loro reazioni, da bambini o da ragazzi, il sorriso, la battuta, la gomitata, le vedo e sono normali. Vedono una persona diversa da loro, dai loro concetti di fisicità.
Inizio nel fare un gioco, poi un cartone animato (Dumbo, Il gobbo di Notre Dome) che nella loro mente associano alla mia persona. C’è tanto da imparare nei cartoni animati e c’è sempre una morale e ogni volta non è sempre chi vince il personaggio famoso, ma quello che si fa amare senza se senza e senza ma, vincendo i pregiudizi. Poi ci riuniamo e sono io che pongo a loro domande, cos’è cambiato nella vostra vita. Una ragazza mi ha risposto: “Io non mi fiderò più delle apparenze, ma del modo in cui una persona si comporta”.
I bambini che amano gli altri nello stesso tempo vengono amati, chiudersi in se stessi non aiuta, e dovete parlare di quello che provate con i vostri genitori. Non tenetevi dentro niente, abbiate confidenza con i vostri genitori amici e cercate di condividere le vostre gioie e i vostri problemi con le persone che vi stanno accanto.
Parlando poi a tutti i miei ragazzi con acondroplasia, dico: fate più sport possibile. In America ci sono un sacco di persone con l’acondroplasia che fanno le Olimpiadi e noi siamo ancora indietro. Da noi è stata percepita solo l’altezza di una persona, hanno “insegnato” a come si diventa grandi, alti, ma nello stesso tempo non ci hanno insegnato di stare insieme, giocare a pallone. Vincere o perdere, l’importante è fare le stesse cose che fanno gli altri».
Esistono interventi e farmaci per l’acondroplasia e l’atrofia muscolare spinale, alcuni non privi di rischi. Come vi ponete riguardo a queste opportunità terapeutiche? I genitori vi domandano consiglio?
Stefania: “Per la mia patologia, l’atrofia muscolare spinale (SMA), gli ultimi anni sono stati ricchi di novità terapeutiche sia per i più piccoli che per le persone adulte. Un bambino che nasce oggi con la SMA può avere una vita pressoché normale, anche noi più grandicelli abbiamo la possibilità di rallentare il decorso della malattia e ovviare ai problemi di ogni giorno con l’ausilio di tecnologie e ausili impensabili fino a poco tempo fa. Grandi rischi finora, per quanto riguarda l’atrofia, non sono stati riscontrati, ma certo sono tutte terapie farmacologiche nuove e soltanto tra qualche anno potremo valutare esattamente il rapporto rischio-beneficio».
Leonardo: «Io non voglio parlare di allungamenti chirurgici, non voglio parlare di medicine, per le persone acondroplasiche, ma voi ragazzi non cercate di assomigliare a qualcuno, non fatelo per il giudizio della gente (“se divento alto”, non mi prendono “per i fondelli”), ma fatelo perché è un vostro desiderio. Specialmente a chi ha subito l’operazione di allungamento parlo, per i miei ragazzi lo ripeto ancora: fate più sport possibile, si rafforzano lo spirito e l’anima, ma soprattutto si rafforzano i muscoli e lo sforzo si trasforma in autostima».
«Mai più divisi in Associazioni»: è un pensiero espresso da zio Leo in una recente intervista. Come vi ponete di fronte alle realtà del Terzo Settore?
Stefania: «Le Associazioni del privato sociale e i volontari che spendono il loro tempo per gli altri sono una grande risorsa che spesso sopperisce alle carenze dello Stato. Basti pensare a cosa è accaduto nei periodi più difficili della pandemia, quando erano proprio i volontari, spesso giovani, che garantivano la spesa e la consegna dei farmaci a domicilio alle persone in difficoltà, oppure pensiamo a quelli che ci accompagnano in ospedale con l’ambulanza, disponibili su turni diurni e notturni.
Quando in un paese piccolo come quello in cui vivo io diminuiscono le braccia dedicate a questo tipo di assistenza, in caso di emergenza occorre attendere a lungo prima di avere soccorso. Purtroppo nel corso del tempo alcune Associazioni finiscono per avere un ruolo più formale che sostanziale e una delle cause di questo risiede, secondo me, nel fatto che al loro interno vi sono persone che cercano visibilità, perdendo di vista gli obiettivi per cui hanno scelto di impegnarsi nel Terzo Settore. Probabilmente non è un atteggiamento voluto, sono le “luci della ribalta” che accecano e fanno perdere la strada giusta, quella che cerca di migliorare la società nell’interesse di tutti. Lo dico con amarezza, perché si perde un potenziale di vitale importanza».
Leonardo: «“Gli angeli dei nostri tempi sono tutti coloro che si interessano agli altri prima di interessarsi a se stessi” (Wim Wenders)”. Io non voglio parlare di me, ma di tutte le Associazioni presenti in Italia, di cosa sente il mio istinto di disabile. Molte Associazioni nascono con l’intento di aiutare chi non conosce per fargli conoscere, e questa è una delle situazioni fondamentali, ma è sempre così?
Le persone con disabilità molte volte non hanno voce, e parlano gli altri per qualche progetto o situazione. Io uomo non posso e non devo immedesimarmi in un altro, tutti abbiamo delle esigenze diverse.
Secondo l’ultimo aggiornamento del Censimento Permanente delle Istituzioni Non Profit dell’ISTAT, al 31 dicembre del 2019 in Italia le organizzazioni erano oltre 360.000, e molte di esse con lo stesso obiettivo, far star bene gli altri, e colloquiare con gli altri, confrontarsi con le altre Associazioni. Ma spesso questo non succede, anzi c’è competizione, come se le Associazioni gareggiassero al Palio di Siena (meraviglioso spettacolo), diventassero contrade e quasi rivali tra loro.
Molte volte all’interno di un’associazione c’è qualcuno che non si adegua o rimane scontento, e così ne fa un’altra quasi con lo stesso statuto, ma cambiando i vertici solo per farsi notare al mondo.
I nostri ragazzi/e hanno bisogno di aiuto non di competizione, e nemmeno di insegnamenti a stare insieme “tra loro”, perché non si confrontino con gli altri, per non avere problemi di “discriminazione”. Così facendo, infatti, le Associazioni non insegnano l’inclusione e ad essere indipendenti.
Io ho molto da imparare dalle Associazioni, la pazienza, la capacità di istruire i ragazzi/e, l’aiuto dato alle famiglie che lo Stato italiano non dà, ma cercate di valorizzare l’ultimo della vostra Associazione e non essere i primi nel farvi vedere al mondo».
«Ho imparato che le persone possono dimenticare ciò che hai detto, le persone possono dimenticare ciò che hai fatto, ma le persone non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire» (Maya Angelou). Quale ruolo ha avuto la fede nel raggiungimento della vostra consapevolezza e sicurezza?
Stefania: «C’è un film del 2003, 21 grammi il peso dell’anima. Il titolo prende spunto da una ricerca di inizio Novecento, mai confermata, secondo cui al momento del trapasso ognuno di noi perderebbe esattamente 21 grammi di peso, l’equivalente dell’anima che vola via dalla vita terrena. Non è vero però ci credo, nel senso che a volte sento vicina la presenza di persone che non ci sono più, alle quali ho voluto bene e che me ne hanno voluto altrettanto.
Esiste per me qualcosa che va al di là dell’umana comprensione, lo dimostrerebbero proprio gli incontri fortunati della vita che sento non terminano con la morte.
Ecco, la mia fede è soprattutto questo, non è fatta di frequentazione della Messa e di grandi preghiere, penso che tendere la mano ad una persona in difficoltà equivalga ad una preghiera. Sono consapevole e convinta che qualcuno veglia su di noi e ci supporta nei momenti difficili. Non so se si può chiamare “fede”, però so che mi rassicura e mi aiuta ad andare avanti».
Leonardo: «Ama il prossimo tuo come te stesso, se non ami te stesso non puoi amare gli altri».
Anche la ricerca di un lavoro può essere irta di ostacoli… Alcune aziende che assumono persone con disabilità le “parcheggiano” in ruoli di poco conto, quasi che per un disabile il lavoro fosse un passatempo, non il modo per guadagnarsi da vivere come tutti, e dal loro punto di vista gli fanno un favore a tenerlo come dipendente. È capitato anche a voi?
Stefania: «Un lavoro inteso come partire da casa, andare in ufficio/azienda e avere un contatto diretto con i colleghi, non l’ho mai avuto per gli stessi motivi di salute per cui ho dovuto interrompere gli studi. Ho sempre adorato scrivere e a 19 anni ho chiamato un’agenzia di stampa proponendomi come collaboratrice. Una bella faccia tosta, lo riconosco, non avevo nessuna esperienza né preparazione. Ho trovato persone che mi hanno dato fiducia, mi hanno preso in prova, insegnato, corretto gli errori da principiante e spronato. Siccome parlare sempre di disabilità mi sembrava riduttivo, ho lavorato anche per la rivista (ora chiusa) della Camera di Commercio di Parma, scrivevo articoli di storia, arte, cultura ed economia locale, un’esperienza molto stimolante e interessante. Oggi sono tornata al sociale per «Superando.it» e il blog InVisibili del «Corriere della Sera.it». In un prossimo futuro spero si presentino altre occasioni per allargare lo spettro degli argomenti dei miei articoli.
Non mi sono mai sentita “parcheggiata”, ma in questo credo abbia influito il fatto di aver lavorato sempre da casa: in un certo senso ho dovuto per forza “parcheggiarmi” da sola! Riconosco, però, di essere stata anche molto fortunata negli incontri professionali. Colleghi più esperti di me sono stati bravi ad affiancarmi, osservando il loro lavoro e ascoltandoli ho imparato molto, consapevole di avere ancora molta strada da percorrere».
Leonardo: «Non desidero parlare del mio stato lavorativo, ma posso dare un consiglio a tutti i datori di lavoro e uffici del personale. Cosa vedete quando entro con la carrozzina, per un colloquio, solo il mio stato, ma non vedete per primo il mio talento. Cosa vedete quando ho un disagio, solo il mio stato, ma non vedete per primo il mio talento.
A tutti e dico tutti i casi che voi andate a considerare, non guardate se ho le scarpe rotte, non guardate se non sono pulite, ma alzate gli occhi della consapevolezza e dell’umanità e vedrete trasparire negli occhi di chi vi guarda tante emozioni, tra di esse la prima e la più importante è l’inclusione, non per una legge che ti impone l’assunzione, ma per il valore che io uomo o donna possiamo donarvi».
Quali sono le reazioni dei bambini e quelle degli adulti quando vi sentono parlare?
Stefania: «I bambini hanno un grande dono: ragionano con la loro testa, senza condizionamenti. All’inizio mi guardano con occhi disorientati e interrogativi, ma il passo è breve per un sorriso e una parola. È sufficiente che li saluti e si avvicinano, magari domandano perché non cammino, i più piccoli sono affascinati dal movimento delle ruote della sedia a rotelle. L’importante è rispondere serenamente ad ogni dubbio, con parole che sappiano comprendere. Gli adulti a volte sono più complicati, hanno sedimentato nel tempo una serie di luoghi comuni difficili da smontare se non con un rapporto aperto da entrambe le parti che non sempre si riesce a costruire. Ci si prova, a volte arrivano risposte poco garbate, ma bisogna cercare di non gettare la spugna».
Leonardo: «Se non ritornerete come bambini…, la storia ci ha proposto delle situazioni veramente abominevoli, dal disabile essere impuro, ucciso dopo la nascita, con Aktion T4 si parlava della razza ariana, Leonardo parlava dell’uomo perfetto, “l’uomo vitruviano”, nelle corti del Seicento eravamo sul penultimo gradino della società… Che situazioni hanno passato i nostri avi, con le nostre “imperfezioni”!
I bambini mi guardano e io sorrido a loro, mi arrabbio quando i genitori fanno vedere senza che il bimbo mi abbia notato, il mio essere. Quando i bimbi mi indicano esclamando “guarda che piccolo”, il papà si vergogna e gli dà una piccola sberla, non si fa cosi!!! Mi fermo e gli faccio capire che esistono persone alte, basse, larghe e non tutti sono uguali, e prego il padre di non commettere più tale errore, perché poi avrà paura di me.
Nella vita sono passato da bimbo piccolo, uomo piccolo, papà piccolo e ora siamo arrivati a nonno piccolo.
Gli uomini e le donne di oggi e di ieri, lascio stare, ognuno ha la sua propensione a capire. Ormai non ho problemi ad acquisire emozioni negative, sta nell’altro capire, non è un mio problema».
Basterebbe davvero poco per creare inclusione e i gradini, che nell’immaginario comune sono la barriera architettonica per eccellenza, non sono l’unico ostacolo. Ad esempio, pensiamo ai citofoni e in generale alle pulsantiere, che se collocati pochi centimetri più in basso, consentirebbero a tutti di essere autonomi. Anche questo fa parte delle battaglie per rendere accessibili le città…
Stefania: «Anche biciclette, scooter e monopattini parcheggiati sui marciapiedi che obbligano a scendere in strada, con il rischio di essere travolti dalle auto, e qui rientriamo nel discorso della cultura e della mancata attenzione verso l’altro. Oppure le rampe con una pendenza eccessiva, costruite per abbattere una barriera, che diventano esse stesse un ostacolo insormontabile, e i mattoncini autobloccanti, sopra i quali la sedia a rotelle fatica a procedere e salta come fosse su un martello pneumatico. È sufficiente trascorrere qualche breve periodo in carrozzina, magari per una frattura oppure un intervento chirurgico, e subito ciò che prima sembrava semplice diventa difficoltoso.
Mi sono limitata a raccontare le barriere secondo la mia esperienza personale, ma le disabilità sono tantissime e variegate, esistono anche quelle sensoriali, provate ad immaginare cosa significa per una persona non vedente muoversi in autonomia in una grande città! Negli esercizi commerciali, compresi i supermercati, spesso la musica in sottofondo è molto alta e impedisce a chi ha un tono di voce basso, a causa ad esempio di problemi respiratori, di farsi comprendere dal personale, per non parlare delle persone affette da disturbi dello spettro autistico che con questa musica a tutto volume si possono destabilizzare. E poi ci sono le persone anziane, non necessariamente disabili, ma non più agili, quindi anche loro bisognose di un adeguato arredo urbano, oppure le donne in dolce attesa e i genitori con i passeggini; anche per questi ultimi passare da porte troppo strette o scavalcare seppur piccoli gradini è un problema».
Leonardo: «Cara Stefania, hai detto in modo preciso e funzionale tutto ciò che ci riguarda, ma aggiungo: Quando fate un progetto chiudete gli occhi, camminate e se non cadete allora avete fatto un ottimo lavoro; provate a usare un deambulatore, camminate e se non cadete allora avete fatto un ottimo lavoro; provate a urlare aiuto senza emettere voce, se vi sentiranno avrete fatto un ottimo lavoro; usate i sensi e collegate il cervello, allora non ci saranno più barriere».
Leonardo è testimonial di Adaptive Fashion Italy, un nuovo progetto che lo vede coinvolto insieme alla stilista Diletta Cancellato. Abiti finalmente non adattati, ma adattabili e indossabili senza distinzioni, perché anche sentirsi a proprio agio e belli è un diritto [tema trattato da Stefania Delendati su queste stesse pagine in un articolo del 2018, N.d.R.]. A che punto è la creazione di questa linea di abbigliamento? Quali difficoltà trovate nel vestirvi?
Stefania: «Sarebbe comodo se indossassi sempre una tuta da ginnastica, e nella stagione calda una maglietta e un paio di pantaloni senza pretese. Invece no, mi piace abbinare modelli diversi, scegliere colori e fantasie che mi donino, essere alla moda. Non è un’impresa facilissima, alcuni capi di abbigliamento mi sono preclusi perché troppo scomodi da indossare, sia per me che per la persona che mi deve vestire. Anche gli abiti hanno “barriere”, costituite da tessuti rigidi che impediscono i movimenti, cuciture troppo spesse che fanno male quando si rimane tante ore sulla sedia a rotelle, senza parlare dei supporti posturali come busti e tutori che modificano la vestibilità. Riappropriarsi del diritto di piacersi riflessi nello specchio, tuttavia, non è impossibile, ed è importante che finalmente l’industria della moda stia lavorando per linee d’abbigliamento adattabili».
Leonardo: «Il nostro obiettivo è contribuire a creare una nuova realtà di mercato in cui tutte le persone possano sentirsi rappresentate. Ogni persona con disabilità dovrebbe avere la possibilità di scegliere quale marca di vestiti, scarpe o accessori indossare e di accedere liberamente ai negozi, alle merci e ai camerini di prova. Per ognuno di noi essere considerato un acquirente di valore è fondamentale all’ora di acquistare quel capo attraverso il quale racconteremo al mondo la nostra unicità e il nostro rapporto con l’ambiente. L’inclusione gioca un ruolo chiave in questo processo di cambiamento, tenendo conto non solo dell’importanza di abbattere le barriere architettoniche, ma soprattutto quelle mentali. Sollecitiamo anche una nuova forma di rappresentazione nelle campagne pubblicitarie e nei social media.
Tutti sappiamo che ciò che viene negato non esiste, ma “Noi” siamo qui in attesa di vestirci alla moda, di diventare influencer, di lavorare come stilisti o consulenti di bellezza, di partecipare alle sfilate di moda, di essere accolti con la stessa naturalità di tutti gli altri».
In conclusione, nella vostra “ricetta” per un mondo più inclusivo, quali sono le parole chiave?
Stefania: «Empatia, ovvero mettersi nei panni dell’altro, ascoltarlo senza giudicarlo liberando la mente dai preconcetti. Non credo occorra molto altro, è dall’empatia che nascono la conoscenza e di conseguenza l’umanità».
Leonardo: “Quando sono intervenuto alla Global Inclusion, ho trovato due aforismi di Picasso che possono rendere la ricetta dell’inclusione in modo efficace: “Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, prendi l’occasione per comprendere” e “Il senso della vita è quello di trovare il vostro dono. Lo scopo della vita è quello di regalarlo”».
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