Ha ragione Salvatore Nocera quando afferma che «il problema dell’assistenza alle persone con disabilità è da sempre gravissimo e tuttora irrisolto, continuando quasi sempre a gravare sui familiari», come ha scritto su queste stesse pagine qualche giorno fa. E ha parimenti ragione nel riportare l’attenzione sui temi dell’assistenza personale, sul riconoscimento e la tutela della figura del caregiver familiare, e sulla circostanza che i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale (LIVEAS) non siano stati ancora definiti. Cosa che non solo, come giustamente sottolinea Nocera stesso, porta a una disparità di trattamento nei diversi territori del nostro Paese, ma rende di fatto inesigibile l’assistenza stessa. Né è mai superfluo scrivere e riscrivere che la risposta alle esigenze delle persone con disabilità non può e non deve mai essere l’istituzionalizzazione, il cui tratto distintivo è, come purtroppo ben sappiamo, la disumanizzazione delle persone. Un concetto al quale potremmo aggiungerne anche un altro su cui, mi sembra, si rifletta meno: la disumanizzazione di chi disumanizza, quasi che la disumanizzazione funzionasse come un grande gioco di specchi, dove negare l’umanità dell’altro equivale sempre e inesorabilmente a sminuire anche la propria. Quanta umanità ci può essere in chi disumanizza?
Eppure mi sembra che in questa narrazione manchi ancora un pezzetto, e quel pezzetto è l’assistenza personale autogestita.
Ho iniziato ad occuparmi di disabilità intorno alla metà degli Anni Novanta, quando in Italia stavano iniziando ad arrivare i “venti” del movimento europeo per la Vita Indipendente delle persone con disabilità. Ascoltavo affascinata gli attivisti e le attiviste con disabilità gravi mentre raccontavano che «sì, anche se non muovi un muscolo, l’assistenza te la puoi gestire tranquillamente da solo/a».
Questa cosa mi è rimasta dentro come un imprinting, come il rumore del mare dentro le conchiglie, tanto che se qualcuno mi parla di assistenza personale, la prima forma che mi viene in mente è proprio quella autogestita. E ovviamente lo so che questa modalità non è adatta a tutte le circostanze, e che la vera libertà consiste nel dare alle persone con disabilità la possibilità di scegliere tra diverse forme di assistenza, e magari di combinarne insieme più di una. E tuttavia è difficile individuare un’altra immagine altrettanto potente nel contrastare contemporaneamente pietismo, paternalismo, familismo e infantilizzazione quanto quella di una persona con disabilità grave che diventa datrice di lavoro di una figura che sceglie, forma, assume e gestisce da sé.
Dunque, caro “Tillo” (così gli amici chiamano Nocera, ed io tale mi considero), in amicizia mi permetto di aggiungere questo pezzettino alla tua narrazione, per altri versi lucida, precisa e condivisibile. Come sempre, del resto.