Perché siamo tutti corpi non conformi

di fratel Davide*
«La tesi secondo cui la disabilità è uno degli elementi costitutivi dell’essere umano - scrive fratel Davide del Monastero di Bose, dopo la lettura del libro “A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità” - e che non esista una persona che non abbia una disabilità, è forse la premessa o la condizione per riconoscere la persona con disabilità non in primo luogo come destinatario di un’azione a suo favore, ma come soggetto non solo di parola ma di azione a favore di altri/e, uscendo in tal modo dalla “tirannia della normalità”. Anche perché siamo tutti corpi non conformi!»
Oriella Orazi, "Aneliti di libertà", 1997 (particolare)
Oriella Orazi, “Aneliti di libertà”, 1997 (particolare)

Ho letto con molto interesse il libro A Sua immagine? [A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità, La Vita Felice, 2022, N.d.R.]. Mi ha richiamato alla memoria la vicenda di una famiglia che conosco bene.
Questa famiglia ha avuto quattro figli, tre sorelle e un fratello, nati negli Anni Quaranta del secolo scorso. Una sorella e il fratello avevano una grave disabilità a livello fisico. I genitori, persone molto semplici, nonostante la mentalità del tempo, non hanno tenuto i figli con disabilità nascosti in casa vergognandosi, ma si sono adoperati per garantirgli la maggiore autonomia possibile. Andarono entrambi a scuola, imparando la figlia il lavoro di ricamatrice. Con il fratello all’inizio fu più difficile, perché non riusciva a parlare ma emetteva solo suoni disarticolati. Le maestre pensavano che avesse una disabilità a livello cognitivo. Risolutiva fu un’amica di famiglia, insegnante, che intuì che il ragazzo non solo non avesse una disabilità cognitiva, ma che soffrisse di questa impossibilità a comunicare e narrare di sé. Così gli insegnò a leggere e inventò un sistema perché potesse scrivere (il ragazzo infatti non poteva usare le mani): un casco con una sorta di corno che permetteva di pigiare i tasti della macchina da scrivere. In questo modo poté finire gli studi e soprattutto avere una vita “intellettuale”: scriveva articoli, racconti, lettere per confrontarsi con gli altri.
Queste due persone hanno vissuto una vita felice, conquistata con fatica e ostinazione.

Questa premessa è necessaria per comprendere quello che ora racconto. La donna con disabilità vive con un’altra sorella, rimasta vedova giovanissima; il fratello è morto da qualche anno. La loro casa è diventata un porto in cui le persone più svariate trovano accoglienza. Quando vado a trovarle, trovo sempre qualcuno e arriva sempre qualcun altro. Le persone, le più diverse e anche le più ferite, si sentono accolte e non giudicate in quella casa.
Cambia il parroco della loro parrocchia. Quello nuovo è anche l’incaricato della Pastorale Diocesana della Salute. Un giorno va a trovarle. Nel tinello, davanti a dei cornetti mignon che le due sorelle tenevano sempre pronti per gli ospiti, il prete spiega il motivo della visita. Ritiene che la parrocchia debba manifestare la propria vicinanza alle persone che soffrono e rischiano di sentirsi sole, perché in molti casi sono impossibilitate a muoversi (sottinteso: come nel caso della sorella con disabilità che non riesce più a fare le scale, poveretta e vive da reclusa!). Così vorrebbe andare una volta al mese dalle persone sofferenti per celebrare l’eucarestia come segno del Signore che si fa prossimo a chi è malato e soffre. Lui va avanti un po’ con questa solfa: malati, sofferenza, solitudine.
A un certo punto la sorella con disabilità si volta verso l’altra e chiamandola per nome le chiede: «Scusa: ma tu stai male?». Quella la guarda e dice: «No». Allora ritorna a fissare il prete e dice sorridendo: «Qui non c’è nessuno che stia male. È inutile che venga».

La lettura di Glyn [Justin Glyn SJ, “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching, in italiano “Noi’, non ‘loro’. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica”, libro sulla cui traduzione si basa sostanzialmente A Sua immagine?, N.d.R.] mi ha fatto ricordare questo episodio. È una sorta di sintesi di quello che ho letto: la visione della persona con disabilità come un malato e sofferente, destinatario di un’azione pastorale molto paternalistica, senza alcun ascolto della persona, incentrata sulla distinzione fra noi e loro e accanto a questo una donna (e il suo contesto relazionale) che semplicemente rifiutano e contestano questo.
Del libro colpisce il discorso di cancellare la distinzione fra “noi” (i sani, i normali, i normodotati) e “loro” (i disabili, gli svantaggiati), distinzione frutto ed espressione del sistema binario, foriero di violenza e di dominio. La distinzione proietta sul “loro” tutto quello che non si vuole vedere in sé e mette in una posizione di piedistallo.
Affermare che esiste un’unica umanità e degli esseri umani singolari, e sostenere che l’umanità non coincida con qualità fisiche, morali, spirituali e intellettuali (perché ovunque si pone un’asticella che delimita l’umano da ciò che non lo è, si crea discriminazione e si facilita la violenza), ma riguarda l’essere umano così com’è, è un passo avanti fondamentale.

La tesi secondo cui la disabilità è uno degli elementi costitutivi dell’essere umano e che non esista una persona che non abbia una disabilità, è l’altro passo fondamentale. Forse è la premessa o la condizione per riconoscere la persona con disabilità non in primo luogo come destinatario di un’azione a suo favore, ma come soggetto non solo di parola ma di azione a favore di altri/e.
In fondo il guaio è che nelle nostre viscere c’è un’idea di “normalità” (la “tirannia” della normalità) che coincide con il maschio bianco fisicamente efficiente, produttivo e in concorrenza con altri da un lato, e intellettualmente dotato dall’altro. Questa idea non solo discrimina altri e altre per la loro diversità vista come negativa, perché non conforme a questo modello, e fa sentire a posto chi invece si pensa sul lato giusto, ma soprattutto rende ciechi sulla propria finitezza, debolezza e fragilità, come se queste non facessero parte dell’essere umano. È in gioco una mutazione stessa del significato che diamo alla parola “umanità”.

Glyn pone la questione a livello di teologia. In gioco, infatti, è anche una rivisitazione del discorso teologico sul tema della disabilità, che riguarda l’immagine di Dio, di Cristo, dell’essere umano e della Chiesa.
Dal punto di vista della fede, c’è una dinamica di fondo. L’esistenza cristiana è segnata da un duplice movimento, quello che va dal proprio vissuto al Vangelo e quello che dal Vangelo va al proprio vissuto. Il mio vissuto personale in tutta la sua ampiezza mi permette di vedere il Vangelo in una prospettiva particolare e di cogliere aspetti specifici e sottolineature che ad altri/e sfuggono. Insieme il Vangelo illumina con una sua luce specifica il mio vissuto, dando una prospettiva nuova di lettura di sé. Il discorso può sembrare astratto o forse generico. Credo invece che, se nella comunità cristiana si vuole uscire da un approccio unilaterale e paternalistico con le persone che hanno una disabilità, bisogna ascoltare la loro esperienza di fede, ossia come il loro vissuto specifico e personale, dunque diverso da ogni persona, getti una luce propria sul Vangelo, lo faccia comprendere meglio, con una comprensione impossibile e impensabile senza quella persona, e nel contempo come il Vangelo illumini le singole esistenze, offrendo senso e speranza.

Infine, un’ultima considerazione. C’è un brano del Vangelo (Matteo 19,10-12), che ha qualcosa da dire sul rapporto fra il mistero di Dio, Gesù e le persone con disabilità e menomazioni.
Al versetto 12 Gesù dice: «Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre e ve ne sono altri che sono stati resi eunuchi dagli esseri umani e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può far spazio faccia spazio».
Nella cultura in cui Gesù vive, il maschio era qualificato per la prestanza fisica e sessuale. L’eunuco perciò era una figura estremamente negativa: era un maschio fallito. A lui era proibito divenire sacerdote e partecipare al culto nel tempio. Se in Israele era maledetto ogni maschio che non garantiva il futuro al popolo attraverso la procreazione, l’eunuco era il maledetto per eccellenza. L’eunuco era una persona con disabilità sia dalla nascita sia per mano umana.
Perché Gesù fa questa affermazione: si può scegliere di essere eunuchi per il regno dei cieli? Si può scegliere una condizione segnata da stigma sociale e religioso? Nel suo gruppo sono presenti accanto ai discepoli delle discepole (Luca 8,1-3), eppure non accade quel che di solito succede nelle situazioni di promiscuità fra maschi e femmine: le donne non restano incinte. Questo significa agli occhi degli altri che Gesù non ce la fa, che è sessualmente impotente, non riuscendo a immaginare un rapporto diverso con le donne.
Probabilmente il termine “eunuco” è il vocabolo con cui i contemporanei deridono e oltraggiano Gesù e i suoi per la loro diversità. Come spesso capita, i termini che descrivono una menomazione divengono sulle labbra dei presunti normali una derisione di chi non è dei loro. Pensiamo a espressioni come “scemo del villaggio”, “mongoloide”, “handicappato”… qui è la classica offesa sessista con cui i normali si difendono da qualcosa che destruttura il sistema. Gesù sovverte l’ordine delle cose.
Ebbene Gesù accetta senza problema questa espressione come vera per sé. Egli è un eunuco, con il carico di stigma che esso comporta. Gesù accetta che il suo è un corpo non conforme alla norma sociale che dai corpi maschili si aspetta qualcosa. Accetta di essere un maschio fallito secondo lo standard della sua cultura. Ma per lui essere un eunuco agli occhi degli altri, cioè una condizione segnata da disabilità e menomazione, non è un ostacolo al rapporto con Dio e con gli altri. Anzi è attraverso questo essere umano con un corpo non conforme che a noi giunge la rivelazione di Dio.
Forse per questo motivo per Gesù non è un problema accogliere e ospitare corpi non conformi. Forse per questo Gesù, dinanzi a persone con menomazioni e disabilità, ha questa formula sorprendente: «La tua fede/fiducia ti ha salvato/a», che è un riconoscimento profondo di soggettività dell’altro/a. Qui non si ricade in quella visione perversa della disabilità come segno della benedizione di Dio, ma appunto nel riconoscimento della singolarità positiva di ogni essere umano.
Gesù crea uno spazio di liberazione intorno a sé per gli altri e per le altre, grazie alla sua non conformità. Con il suo corpo, con la sua pratica di relazioni, Gesù contesta la categoria di normalità che in realtà è una forma di potere sulla realtà da parte dei gruppi dominanti. Si decostruisce in questo modo l’idea di una forma universale di essere umano rispetto alla quale le diverse situazioni si differenziano per difetto tramite la privazione di qualcosa. Al centro si mette l’idea della incommensurabile singolarità o unicità di ogni persona, colta in tutta la sua contingenza vista come positiva.

«Il deficit in quanto rivelatore di finitezza e delle frontiere dell’essere umano, non è una privazione, una défaillance o un peccato” (Julia Kristeva). Siamo tutti corpi non conformi!

Il presente contributo di riflessione è già apparso in “Persone con disabilità.it” e viene qui ripreso per gentile concessione, con alcune modifiche dovute al diverso contenitore.
Come segnalato in altra parte del giornale, ricordiamo che dopodomani, 11 novembre, è in programma a Mantova una presentazione del libro A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità.

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