Ho 79 anni, risiedo a Roma Roma e faccio parte dell’Associazione UFHA. Il 2 novembre 2020 è tornato al Padre l’unico figlio mio e di mio marito che il 26 aprile di quest’anno avrebbe compiuto 51 anni. Cerebroleso e gravemente disabile dalla nascita, quindi “paziente non collaborante”, era stato ricoverato in ospedale per un intervento salvavita e lì, contagiato da qualcuno affetto dal Covid è deceduto.
Non abbiamo potuto assisterlo e non lo abbiamo potuto più vedere né vivo né morto. Di comune accordo, mio marito ed io, pur riscontrando nella cartella clinica il nome e il cognome di chi lo aveva contagiato, abbiamo deciso di non procedere a denunce: nostro figlio non lo avremmo riavuto in nessun caso.
Non debbo certo dire né ad altri genitori né a coloro che in vario modo si occupano di disabilità, cosa voglia dire perdere un figlio e, soprattutto, perderlo in tal modo; voglio, però, promuovere un’iniziativa che il mio cuore di mamma mi ha ispirato, per far sì che la morte di nostro figlio non sia solo un peso doloroso e insopportabile finito nell’oblio, ma lo stimolo per cercare di migliorare la vita dei “pazienti che non collaborano” e limitare, per quanto possibile, le sofferenze delle loro famiglie.
Nei 49 anni della sua vita nostro figlio ha dovuto affrontare, e noi con lui, visite e degenze in ospedali e strutture sanitarie e anche a dovervi sostare per periodi più o meno lunghi. Ho avuto esperienze diverse e ho potuto rendermi conto di cosa comporti una visita medica, o l’eventuale ricovero, di un “paziente non collaborante” il quale, per definizione, non può fornire a chi lo assiste informazioni sulle sue condizioni, non può rispondere alle inevitabili domande di rito né segnalare eventuali disagi e/o problemi.
Voglio chiarire che non è mia intenzione mettere sotto accusa alcuna categoria di personale sanitario: la pandemia ha messo bene in risalto la dedizione e lo spirito di sacrificio di coloro che hanno cercato di salvare più vite, tal volta perdendo la propria. I familiari, però, sanno quanto sia impegnativo e difficile instaurare un contatto, o addirittura un rapporto di reciproca comprensione, con le persone con disabilità grave che richiedono tempo e pazienza, risorse poco disponibili per medici, odontoiatri e paramedici. Sanno anche quanto ogni variazione della realtà di vita abituale possa provocare loro scompensi. Da ciò emerge la reale esigenza di una figura che, conoscendo a fondo il soggetto, possa fungere da mediatore.
Sostengo quindi con forza che, in ogni caso, sia necessaria ed opportuna la presenza dei familiari o di chi assiste con regolarità i pazienti, uniche figure note ea accettate da loro e, soprattutto, unici conoscitori dei molteplici aspetti della vita dei pazienti, cioè di tutto ciò che loro non possono comunicare.
Purtroppo questo aspetto è inesistente nella maggior parte dei casi, anche se in realtà i familiari, oltre che rassicurare i pazienti, fornirebbero validi strumenti operativi al personale. In merito chiarisco che poiché la natura delle disabilità può essere molto diversa tra soggetto e soggetto, può accadere che si verifichino atteggiamenti particolari derivanti dalla situazione in corso, senza alcun collegamento con lo stato fisico o neurologico del paziente il quale, non potendo segnalare con parole il disappunto, ricorre a soluzioni alternative che chi lo assiste abitualmente conosce molto bene.
Non posso non aggiungere che nel tempo, quasi sempre, tra il singolo soggetto e chi lo assiste con regolarità, si instaura un sistema di comunicazione non verbale fatto di sguardi, atteggiamenti ed espressioni non di chiara lettura per altri.
Mio marito ed io siamo sempre stati presenti, per fornire notizie e risposte, e posso affermare che la maggior parte delle volte ho rilevato, nel personale medico e paramedico, la disponibilità a fare del proprio meglio, ma anche la carenza di specifica preparazione professionale, con conseguenze spesso pesanti sul paziente e sulla famiglia.
Credo dunque non si possano ignorare alcune carenze e difformità di valutazione e trattamento, che distinguono con effetti a volte molto pesanti i pazienti non collaboranti dagli altri. Sono eventi, interventi e cure che fanno ormai parte di un protocollo inesorabile e difficile da superare, sui quali dovrebbero intervenire gli organismi superiori competenti, e di cui riporto alcuni esempi:
° La Guardia Medica non è tenuta ad intervenire, quando di competenza, se il paziente non è collaborante. Ciascuna sede regionale o locale può deliberare in merito come ritiene più opportuno.
° Curare o estrarre un dente prevede in genere l’anestesia generale; nostro figlio per due volte è stato ricoverato e, al risveglio dall’anestesia, ha avuto ogni volta crisi epilettiche forti e prolungate.
° Alcuni accertamenti diagnostici sono possibili soltanto su pazienti collaboranti. È il caso dell’accertamento di disfagia al fine dell’eventuale impianto di PEG [Gastrostomia Endoscopica Percutanea, N.d.R.]: è una difformità discriminatoria inaccettabile, in quanto le conseguenze dell’impianto, se attuato, in ogni caso sono molto pesanti, con risvolti anche gravi.
° Se il paziente non collaborante accusa dolori anche intensi, ma non può dirlo, accade spesso che il medico curante non riesca a fare una diagnosi precisa, con le conseguenze che ne derivano: ad esempio coliche di vario genere o peggio.
Mi ha suscitato particolare interesse l’apprendere che l’Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri aveva organizzato un corso di aggiornamento sul tema Le Cure Mediche ed i percorsi di Presa in Carico delle Persone con Disabilità. Ho quindi partecipato a quel corso quale madre di una persona con disabilità e con attenzione ho ascoltato e seguito i vari relatori nell’esposizione degli specifici argomenti e proposte e, soprattutto, di alcune realtà già operative di cui non ero al corrente.
Ho voluto approfondire quanto avevo appreso, ho parlato con altre famiglie, con addetti ai lavori, e ho acquisito alcune norme, disposizioni e iniziative esistenti in merito, emanate dallo Stato e dalle Regioni, a seguito Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, tra le quali cito il progetto DAMA, per l’assistenza medica ed odontoiatrica avanzata alle persone con disabilità [se ne legga anche nel box in calce, N.d.R.] e, nello specifico del Lazio, la Legge Regionale 205/20 (Disposizioni per l’istituzione e la promozione di un percorso ad elevata integrazione socio-sanitaria, in favore di persone con disabilità “non collaboranti”), che ha sostanzialmente adottato la Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale [la prima Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale è stata presentata il 7 marzo 2013 a Roma dalla Cooperativa Sociale Spes contra spem, N.d.R.].
Sempre restando al Lazio, altri provvedimenti approvati dalla Regione riguardando innanzitutto il fatto che chi assiste con continuità il paziente con disabilità, può assisterlo in ospedale; e ancora, l’implementazione, in almeno due ospedali per Provincia, di un servizio di accoglienza ed assistenza medica dedicato alle persone con disabilità, costruito sul modello organizzativo del citato progetto DAMA; infine, l’apertura a Roma di un ambulatorio infermieristico per la gestione socio sanitaria di persone con disabilità cognitivo comportamentale complessa, non collaboranti.
Ho constatato poi che il progetto DAMA una realtà operante con successo in molte Regioni Italiane, sia per cure mediche che per interventi chirurgici, e che almeno in una Regione esso viene attuato in Odontoiatria, con riferimento al documento del Ministero della Salute recante Indicazioni per la presa in carico del paziente con bisogni speciali che necessita di cure odontostomatologiche.
Tutto ciò premesso, dunque, tenuto conto di quanto è già in corso di attuazione e di quanto sia importante provvedere a supportare adeguatamente il già pesante carico delle famiglie, oltreché di quanto ancora si può fare, con la presente mi rivolgo al Ministro della Salute, alla Ministra per le Disabilità, al Presidente e all’Assessore alla Salute della Regione Lazio, per chiedere che, ciascuno per le sue specifiche attribuzioni:
° vengano promossi e diffusi in larga scala corsi di specifica formazione per il personale medico, compresi odontoiatri e medici in servizio in ogni Guardia Medica, e per il personale paramedico, sul tema in esame;
° venga promossa e diffusa negli ospedali la creazione di percorsi specifici di accoglienza e presa in carico dei pazienti non collaboranti, come da progetto DAMA;
° si disponga che ai familiari o a chi assiste con continuità un paziente non collaborante, sia sempre e comunque consentito di assisterlo in ospedale;
° venga promossa e implementata in larga scala la ricerca, al fine di ottenere esami diagnostici che consentano di accertare, anche riguardo ai pazienti non collaboranti, l’eventuale effettiva presenza di disfagia prima della applicazione di una PEG;
° si disponga che, ove inevitabilmente necessaria, la PEG sia per tutti quella che non provoca rigurgiti;
° si disponga che gli ausili medici indispensabili siano per tutti del tipo più sicuro e garantito, per il buon funzionamento e per la salute del paziente;
° si pubblicizzi il più possibile l’esistenza e la disponibilità di iniziative, strutture e di tutto ciò che può essere di aiuto alle famiglie;
° si valuti, a tal fine, l’opportunità di estendere normativamente, come disposizione non modificabile, l’intervento del personale di Guardia Medica anche per i pazienti non collaboranti;
° si promuova in larga scala l’importanza di informare pazienti e familiari su ogni procedura e/o somministrazione disposta dai medici curanti, in particolare per tutto ciò che è da attuare a domicilio (gestione di PEG, catetere, tracheotomia ed altri ausili), riguardo alle possibili conseguenze negative da evitare.
In conclusione, non si chiede che i cosiddetti “pazienti non collaboranti” abbiano trattamenti migliori o privilegiati, ma trattamenti idonei a fornire loro l’accoglienza, l’assistenza e le cure più consone alle loro specifiche esigenze.
Breve storia del progetto DAMA
Il Progetto DAMA (Disabled Advanced Medical Assistance, ovvero “Assistenza medica avanzata alle persone con disabilità”), è stato avviato per la prima volta nel 2000, con l’obiettivo di dare una risposta alle esigenze specifiche delle persone con disabilità grave e gravissima, all’interno dell’Ospedale San Paolo di Milano, con la collaborazione della LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Nel nosocomio milanese venne dunque creato un reparto dedicato alle persone con disabilità, dove grazie all’ausilio di volontari specificatamente formati, i pazienti e i loro familiari potessero affrontare l’accesso in ospedale in un clima sereno e collaborativo, elemento essenziale, questo, per svolgere tutti gli accertamenti medici nel modo migliore e più veloce possibile.
Quello che nel corso degli anni si è caratterizzato come un vero e proprio modello di accoglienza e di assistenza medica ha poi “fatto scuola” in tutta Italia, promuovendo via via esperienze affini, con il percorso Delfino DAMA Mantova, i reparti DAMA di Varese, Bologna, Empoli (Firenze), Bolzano, Cosenza e Terni, più una serie di ulteriori sperimentazioni in altri presìdi ospedalieri».
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