Sono sguardi smarriti, perplessi, qualche volta spaventati o curiosi, quelli che incontro quando affermo che è necessario riconoscere l’autorevolezza delle persone con disabilità mentale, che comprende sia le persone con ritardo cognitivo che quelle con disabilità psichiatrica. C’è chi dissente apertamente: «Le persone con disabilità mentale vanno protette», mi dicono, sottintendendo che viviamo in un brutto mondo nel quale c’è sempre qualcuno pronto ad approfittarsene. Ma c’è anche chi vede nel “matto” o nel “folle” (sono questi di solito i termini usati) un pericolo pubblico, complice anche certa stampa che continua ad accostare le condotte criminali agli squilibri psichici, un concetto ribadito, non molto tempo fa, anche dall’UNASAM (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale (se ne legga anche su queste pagine). Tutto ciò rende difficile stabilire quale dei due falsi miti – quello che le vuole pericolose, o quello che le condanna al paternalismo perpetuo – nuoccia di più a queste persone.
Anche la narrazione della vicenda di Yaska, la donna interessata da schizofrenia, istituzionalizzata da sette anni dai servizi psichiatrici di Firenze contro la sua volontà, della quale chi scrive si è occupata in in più occasioni anche su queste pagine (si veda la colonnina a fianco con l’elenco dei nostri contributi), stenta a suscitare l’indignazione che meriterebbe perché è ancora diffusa l’idea che chi soffre di allucinazioni non sia in grado di gestirsi, e che la segregazione in una struttura sia una “risposta fisiologica dettata dalla sua condizione”. Ma è davvero così?
Partiamo dalla prima affermazione: chi soffre di allucinazioni non è in grado di gestirsi. Soffrire di allucinazioni non implica che la persona in questione non sappia gestire in autonomia o con dei supporti adeguati nessun aspetto della sua vita. Ogni situazione va valutata partendo dal presupposto che la persona sia capace di fare tutto, e fornendo sostegni solo per quegli aspetti in cui si riscontra un’effettiva difficoltà. Yaska, ad esempio, sa molto bene che non vuole restare rinchiusa in una struttura, e chiede costantemente di tornare a casa sua dalla madre, dal fratello e dalla sorella. Pensate che il suo parere non conti? E perché non dovrebbe contare? Pensate davvero che esista qualcuno/a che sappia meglio di Yaska come vuole vivere? E come ritenete che sia possibile sapere cosa vuole Yaska per la sua vita senza chiederglielo? Se avete questa (erronea) convinzione, forse potreste lavorare su voi stessi per scoprire quali elementi vi traggano in inganno.
Veniamo alla seconda affermazione: la segregazione in una struttura è “una risposta fisiologica dettata dalla condizione di disabilità psichiatrica”. L’istituzionalizzazione non è una “risposta fisiologica” alla disabilità psichiatrica – e, a dire il vero, a nessun tipo di disabilità –, è invece una soluzione violenta ancora praticata nei confronti di chiunque, per i motivi più diversi, non corrisponda ad uno standard ideale di persona umana che però non esiste nella realtà.
Non c’è niente di sbagliato nella persona con schizofrenia, semplicemente quella persona funziona in modo diverso da quello a cui siamo abituati, ma la risposta adeguata non è certo “rinchiuderla da qualche parte”, la risposta consiste piuttosto nel creare le condizioni per permetterle di continuare a vivere nella comunità a cui appartiene, trovando, e talvolta inventando, i supporti necessari per consentirle di esprimere la sua autodeterminazione al massimo grado possibile.
Va precisato che non è detto che la famiglia sia sempre l’ambiente più idoneo a tale scopo; nel caso di Yaska lo è, in altri casi potrebbe non esserlo, e dunque si renderebbe necessario trovare altre soluzioni non segreganti. Ma, in ogni caso, è fondamentale avere ben chiaro che il Comitato ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, l’organismo indipendente preposto al monitoraggio dell’attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità da parte degli Stati che l’hanno ratificata (tra i quali l’Italia), ha sottolineato innumerevoli volte che l’istituzionalizzazione è una forma di violenza contro le persone con disabilità.
Una delle più recenti occasioni in cui il Comitato ONU si è espresso in tal senso è stata la pubblicazione, avvenuta lo scorso settembre, delle Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza (se ne legga su queste pagine). Tuttavia qui in Italia ci sono ancora servizi di salute mentale – tra cui anche quelli fiorentini che hanno istituzionalizzato Yaska – i qiualòi sostengono che tenere rinchiusa una persona sia terapeutico. Vi sembra un’affermazione che sta in piedi? Come può una forma di violenza essere definita terapeutica? La violenza non è meno grave né tollerabile se attuata dalle Istituzioni, anzi!
Questa idea dell’istituzionalizzazione necessaria appare ancora più ingiustificabile se si considera che la stessa Yaska ha avuto modo di sperimentare un approccio terapeutico diverso quando abitava a Roma con la famiglia. Mi riferisco al periodo che va dai sui 16 ai 18 anni, l’età in cui ha iniziato ad avere i primi disturbi psicotici e le venne diagnosticata una forma di schizofrenia. Allora Yaska venne presa in carico dalla Neuropsichiatria Infantile della capitale. In quel periodo le fasi acute della malattia si alternavano, Yaska aveva iniziato una cura farmacologica e subìto diversi ricoveri che le avevano permesso di trovare momenti di equilibrio. Nella struttura ospitante studiava inglese e letteratura, e le era consentito di uscire con i propri familiari, ristabilendosi a casa nei momenti di maggiore stabilità. Nella sostanza l’approccio proposto dai servizi romani cercava di combinare l’intervento sanitario e farmacologico con quello volto a mantenere vivi gli interessi e le autonomie di Yaska. Questo non risolveva tutti i problemi della giovane donna, si trattava pur sempre di un equilibrio dinamico, ma vi era attenzione al suo sentire e ai suoi desideri. Le sue preferenze, insomma, venivano, nei limiti del possibile, assecondate e, altro aspetto fondamentale, era messa in condizione di coltivare le relazioni significative per lei.
Di tutt’altra impostazione sono i servizi psichiatrici di Firenze, la città in cui la famiglia si è trasferita al compimento della maggiore età di Yaska. I servizi fiorentini hanno puntato sin da subito sul trattamento farmacologico, incuranti del palese peggioramento delle condizioni di salute della donna che tale trattamento le stava procurando. Yaska, che prima studiava violino, pianoforte e danza classica, non parlava più e aveva perso ogni interesse. Le cambiavano i farmaci frequentemente, aveva più allucinazioni, ingrassava, dimagriva, non riusciva più a svolgere nessuna delle attività svolte in precedenza. Dai 18 ai 25 anni si è aperto un forte contrasto tra la famiglia, che tutt’oggi contesta il trattamento riservato a Yaska, e i servizi fiorentini che la tengono in carico e continuano a mantenerla in uno stato di istituzionalizzazione. La qual cosa comporta che altre persone – una delle diverse tutrici che ha cambiato nel tempo e vari giudici – decidono per lei qualsiasi cosa la riguardi dispensandosi dal confrontarsi con lei, o ignorando le sue richieste quando le esprime.
A nulla è servito chiedere al giudice di continuare una gravidanza intrapresa qualche anno fa, quando era già stata istituzionalizzata e sottoposta ad interdizione; infatti Yaska il 9 aprile 2019 ha subito un aborto attuato senza il suo consenso. A nulla è servito dire che i suoi rapporti sessuali con Fabio, il suo fidanzato decennale, fossero consenzienti, visto che questo non ha impedito ai servizi di denunciare Fabio per violenza sessuale, partendo dal falso presupposto che Yaska non sia in grado di esprimere alcuna volontà valida ai fini giuridici. Cosa poi smentita dal giudice, che ha assolto Fabio per non avere commesso il fatto. Un episodio che però ha avuto come conseguenza che il giovane decidesse di rompere la sua relazione con la donna.
E dovremmo infine chiederci: quanta cultura patriarcale c’è nella decisione di sottrarre a una giovane donna il controllo della sua funzione sessuale e riproduttiva? Attualmente tutte le relazioni di Yaska sono rigidamente controllate. Le visite di pochi familiari, periodicamente sospese, ora sono concesse solo occasionalmente e sotto stretta sorveglianza degli operatori e delle operatrici della struttura. Nessuna privacy è concessa, nemmeno nei brevi contatti telefonici giornalieri. I volontari dell’Associazione Diritti alla Follia, che supporta Yaska e la sua famiglia, hanno chiesto invano di poterla incontrare. Qualcuno sa spiegare a quale principio terapeutico sarebbero funzionali tali restrizioni della libertà?
Yaska oggi ha 32 anni, non ha mai fatto male a nessuno, ma da oltre sette anni continua ad essere richiusa in un luogo che non ha scelto e a convivere con persone selezionate sulla base della disabilità. Yaska, in queste condizioni, sta appassendo lentamente. I servizi psichiatrici, la tutrice e diversi giudici continuano ad utilizzare la sua disabilità per giustificare questa arbitraria negazione di molte libertà garantite ad ogni cittadino e cittadina dalla nostra Costituzione, e di innumerevoli diritti umani esplicitamente declinati nella citata Convenzione ONU. Costoro sostengono che Yaska vada protetta e hanno perfettamente ragione! Yaska va protetta dall’“erbaccia” della violenza sistemica a cui le Istituzioni pubbliche la stanno sottoponendo a causa della sua disabilità, quasi che questa fosse una colpa da espiare. Ma Yaska può ancora “fiorire”, se riusciremo a tirarla fuori da lì.
Sarebbe tuttavia un errore ritenere che occuparci della sua vicenda sia un favore che facciamo a Yaska, infatti denunciare la violenza spacciata per protezione costituisce un interesse collettivo, giacché nulla esclude che, con l’avanzare dell’età, un giorno possa capitare di essere noi quelli che il sistema istituzionale riterrà dovranno essere sottoposti a “protezione”.