La Legge 95/06 [“Nuova disciplina in favore dei minorati auditivi”, N.d.R.] ha stabilito che il termine sordo sostituisse quello di sordomuto in tutti i dispositivi legislativi vigenti, ma non ha detto nulla sull’adozione dei termini sordomuto e sordo in contesti non ufficiali, e qui è l’uso, e non la legge, a dettare le scelte, ovvero la consapevolezza di chi utilizza i termini, gli orientamenti interni alla comunità dei non udenti, la pressione mediatica, e tutti i fattori socio-contestuali che possono influenzare i comportamenti linguistici e orientare le opzioni per l’uno o l’altro termine.
La legge mira a tutelare la persona con disabilità uditiva dalla fallace associazione generalizzata fra due disabilità, insita nel termine sordomuto e nei suoi derivati, come sordomutismo. Sordità e mutismo sono disabilità distinte, l’una relativa all’udito e l’altra alla produzione orale. Il metterle insieme oscura il fatto che nei sordi l’apparato fono-articolatorio è integro, quindi i sordi possono imparare a parlare. Su questo aspetto si fondano i cosiddetti metodi “oralisti”.
Il mutismo può insorgere nei sordi prelinguali – cioè nei casi in cui la sordità sia presente alla nascita o si manifesti prima dell’apprendimento linguistico -, se non esposti a forme e interventi riabilitativi.
Ci sono insomma sordi e sordomuti, e la gamma di limitazioni alla produzione orale non si può risolvere nella dicotomia fra i due termini, come pure non si possono identificare le risorse semiotiche per comunicare con il solo linguaggio verbale.
Per concludere, quindi, l’intervento legislativo non ha determinato la sostituzione del termine sordomuto con quello di sordo in tutti i contesti, ma sono le scelte della comunità degli utenti nel suo complesso a orientare la preferenza per l’uno e l’altro termine.
Un ulteriore contributo alla riflessione
Per fornire un ulteriore contributo di approfondimento a quanto espresso nella presente Opinione, riteniamo opportuno riportare quanto scritto a suo tempo sulle nostre pagine da Antonio Cotura, presidente nazionale della FIADDA (Federazione Italiana per i Diritti delle Persone sorde e Famiglie), nell’approfondimento intitolato I termini della disabilità uditiva: linguaggio corrente e linguaggio giuridico: «La Legge 95/06 era indispensabile per correggere gli errori della precedente Legge 381/70 [“Aumento del contributo ordinario dello Stato a favore dell’Ente nazionale per la protezione e l’assistenza ai sordomuti e delle misure dell’assegno di assistenza ai sordomuti”, N.d.R.]. Contestualmente, però, va notato che per molte persone sorde preverbali, ovvero sorde dalla nascita e dai primi tre anni di vita, che probabilmente avevano frequentato scuole speciali per sordomuti e sordastri, ormai abituate non solo linguisticamente, ma anche culturalmente, alla denominazione di persona sordomuta, la proposta di definirsi solamente come “persona sorda” possa avere determinato una certa insoddisfazione, se non addirittura fastidio e irritazione. Ed è legittimo che esse possano definirsi “sordomute” se lo desiderano, ma deve essere chiaro anche a loro che questa definizione non è corretta sotto il profilo giuridico, per quanto premesso, e che dunque tale termine non può essere adottato superficialmente in nessun testo di legge o provvedimento, ma può essere naturalmente usato nel linguaggio corrente e non da addetti e professionisti in materia».
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