Vorrei proporre alcune riflessioni scaturite dalla vicenda accaduta in Umbria, dove, qualche tempo fa, la Legge Regionale sulle pari opportunità di genere 14/16 è stata integrata con misure finalizzate al contrasto delle discriminazioni multiple che colpiscono le donne con disabilità (si legga a tal proposito anche quanto scritto da Simona Lancioni nel sito del Centro Informare un’h a questo link).
Premetto che tutte le mie osservazioni sono il frutto di valutazioni personali, che esse non hanno alcuna velleità di generalizzazione, e che nascono dalle esperienze vissute nel contesto in cui vivo, quello catanese.
Una prima considerazione nasce dalla circostanza che l’Assemblea del Centro per le Pari Opportunità Regionale dell’Umbria (CPO), preventivamente chiamata a pronunciarsi sulle integrazioni in questione, pur avendo approvato le modifiche a maggioranza, ha espresso anche diversi voti contrari. Questi ultimi sono stati motivati con l’argomentazione che introdurre misure specifiche per le donne con disabilità in qualche modo le configurasse come “specie protetta” da tutelare, e che tali integrazioni non fossero necessarie perché le tutele contenute nella Legge Regionale sulle pari opportunità di genere, essendo rivolte a tutte le donne, riguardano anche le donne con disabilità, perché, appunto, ricomprese tra le donne.
A tal proposito considero appropriate e condivisibili le osservazioni espresse da Simona Lancioni riguardo all’ambivalenza del concetto di discriminazione, che può essere intesso sia come meccanismo di esclusione, ma anche come modalità finalizzata all’individuazione di gruppi marginalizzati al fine ridurre/colmare lo svantaggio a cui sono soggetti. Infatti, se partiamo dal presupposto che sia necessario considerare e distinguere la notevole varietà degli esseri umani presenti nella nostra società, varietà che potremmo definire “biodiversità”, diventa chiaro come il passaggio successivo sia quello di uniformare le possibilità e le opportunità riconosciute a ciascuna condizione affinché sia rispettata la dignità di ogni singola persona all’interno della società. Il rispetto della differenza aiuterebbe a superare, almeno formalmente, errati princìpi, quali sono quello di supremazia e superiorità.
A questo punto richiamo anch’io – com’è già stato fatto nel confronto scaturito a seguito dell’approvazione delle modifiche alla Legge Regionale Umbra -, l’articolo 3 della nostra Costituzione, il cui enunciato, dopo avere stabilito la pari dignità e l’uguaglianza di ogni singola persona, impegna la Repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscano il pieno godimento dei diritti a tutti i cittadini e le cittadine, esprimendo, in tal modo, quel diritto positivo/propositivo che suggerisce molto più che una neutra e formale uguaglianza davanti alla legge. Concetti di diritto positivo che informano efficacemente anche la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Credo che spesso si confonda il concetto di uguaglianza formale con l’uguale accesso alle opportunità che invece deve essere garantito proprio nel rispetto delle differenze.
Un’ulteriore riflessione mi porta a osservare come, talvolta, nel sentire comune si considerino le persone con disabilità come un “gruppone indifferenziato” dal quale si preferirebbe stare a distanza, un atteggiamento che è causa di tanta ignoranza. A questo “amalgama indifferenziato” fa da specchio, nelle donne con disabilità, un sentimento di vergogna sociale, che è ancora oggi forte e diffuso, ma che si preferisce nascondere dietro l’affermazione di un’uguaglianza formale che però, nei fatti, rende queste donne ancora più invisibili.
Ad aggiungere ulteriore complessità al quadro vi sono poi le numerosissime differenze tra i vari tipi di disabilità che rendono difficile un’interazione orizzontale che sviluppi conoscenze, consapevolezze, autorappresentazione e solidarietà, o – se si preferisce – “sorellanza”.
Ritengo che tra i Movimenti femministi vi siano alcune Associazioni più attente e sensibili che senza dubbio hanno accolto le istanze delle donne con disabilità sancite dalla Convenzione ONU, e ulteriormente declinate nel Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea, ma noto anche che, nel disporsi ad accogliere tali istanze, alcune Associazioni femministe tendono a muoversi autonomamente rispetto ai Gruppi o alle Associazioni di donne con disabilità, confermando in tal modo la distanza che esiste da sempre tra i Movimenti femministi e le Associazioni di persone con disabilità. E tuttavia, ho anche ben presente che già da qualche anno, in tutta Italia, stanno prendendo piede diverse esperienze virtuose che vanno nella direzione opposta, con accordi, convenzioni, attività complementari tra le Associazioni femministe e quelle delle persone con disabilità, insomma: una bella e fruttuosa contaminazione.
Rientra in quest’ultima casistica anche l’esperienza che chi scrive sta conducendo presso l’UICI di Catania (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), coinvolgendo alcune donne della nostra Associazione e altre del Centro Antiviolenza dell’Associazione Thamaia della nostra città, al fine di aprire uno Sportello Donna Inclusivo per donne con e senza disabilità vittime di violenze e discriminazioni.
Sono convinta che ci si debba assolutamente muovere in modo complementare, condividendo esperienze e competenze, ma anche che nulla si debba attuare prescindendo dall’apporto delle donne con disabilità. Diversamente, a mio avviso, assisteremmo ad una sostituzione del paternalismo con un “maternalismo” non meno erroneo e ugualmente inefficace.
Noi donne con disabilità abbiamo stentato a riconoscerci nella nostra soggettività e a riconoscere la nostra piena dignità. Dunque dobbiamo recuperare terreno con un enorme lavoro di empowerment [accrescimento dell’autoconsapevolezza, N.d.R.], e superare tutte le nostre diffidenze e timori. Per tale ragione non possiamo accettare di nasconderci dietro princìpi solo formalmente egualitari che ci mettano ancora in ombra.
Le persone con disabilità, e noi donne con disabilità in particolare, sicuramente dobbiamo faticare di più per raggiungere gli obiettivi di consapevolezza, autonomia, benessere, ma non possiamo ricorrere a scorciatoie. Nondimeno, in questo impegno, sappiamo già di non essere sole e di poter contare sull’aiuto e la considerazione di molte altre donne; dobbiamo quindi necessariamente esporci di più e far presenti le nostre esigenze, aiutando la società ad entrare in quel rispetto e in quella considerazione che ci renda veramente tutte e tutti uguali. Dobbiamo insomma concorrere a definire una cultura del rispetto che abbia un approccio universale, e sia applicata ad ogni aspetto della vita di ciascuna persona nella società.
Per approfondire ulteriormente il tema Donne e disabilità, oltreché fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può anche accedere al sito di Informare un’h, alle Sezioni dedicate rispettivamente ai temi Donne con disabilità e Donne con disabilità: quadro teorico di riferimento.