«L’odio online si radicalizza, si fa più intenso, più polarizzato. Appare evidente il ruolo di alcuni mass media tradizionali nell’orientare lo scoppio di “epidemie” di intolleranza. Tra le categorie più colpite, le donne ancora al primo posto, seguite dalle persone con disabilità e dalle persone omosessuali, tornate, dopo anni, nel centro del mirino»: sono queste, in estrema sintesi, le risultanze della nuova Mappa dell’intolleranza (settima edizione, disponibile a questo link), presentata nei giorni scorsi a Milano da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, che l’ha realizzata in collaborazione con le Università di Milano e Bari e con GiULia Giornaliste. Si tratta di dati sconfortanti e al tempo stesso inquietanti, che fanno quanto meno riflettere.
Tra coloro che hanno partecipato alla presentazione vi è stato anche Giuseppe Arconzo, docente associato di Diritto Costituzionale, oltreché delegato del Rettore per la Disabilità e i DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) nell’Università di Milano. Ne ospitiamo qui di seguito l’intervento proposto per l’occasione.
I dati delle mappe di Vox sono eloquenti, più di quelle di altri anni. Sui social, quando si vuole insultare qualcuno – dal politico, all’arbitro, al giocatore della propria squadra reo di aver sbagliato un gol facilissimo, al giornalista che sostiene tesi diverse dalle proprie, allo sconosciuto che ha commentato un post sui social – si usano spessissimo parole come “handicappato”, “menomato”, “dislessico”, “lobotomizzato”, “ritardato” ecc.
In primo luogo vorrei sottolineare che l’uso della semantica della disabilità per insultare altre persone presenta evidenti profili di differenza rispetto a quanto capita con riferimento ad esempio al tema dell’antisemitismo, dove non credo ci possano essere dubbi che al linguaggio corrisponda un sentimento di odio.
Mentre preparavo questo mio intervento, mi sono ritornate alla mente le osservazioni di chi, a tal proposito, sostiene che in realtà i problemi sono ben altri e che, tutto sommato, il fenomeno in esame è più che altro generato da cattive abitudini, per lo più legate all’àmbito di un uso improprio e maleducato del linguaggio, ma non sarebbe indicativo di alcuna avversità nei confronti delle persone con disabilità e pertanto sarebbe da giustificare.
È davvero così? Oppure l’uso a mo’ di insulto delle parole relative all’àmbito della disabilità nasconde qualcosa di più profondo, dalla mal sopportazione fino all’odio nei confronti delle persone che con la disabilità convivono?
Credo che per arrivare a tratteggiare una risposta – pur nell’àmbito delle riflessioni che posso elaborare da giurista, e non da studioso dell’uso del linguaggio – sia necessario muovere da una premessa che riguarda proprio la terminologia che si usa nel campo dei diritti delle persone con disabilità.
In questa materia le parole, se così si può dire, si consumano e si succedono rapidamente. È il cosiddetto “effetto tabù”: per indicare un qualcosa che non piace (si pensi ai tanti modi di definire la morte: la dipartita, la scomparsa, è venuto a mancare, ci ha lasciato; o il tumore: la brutta malattia, il male incurabile ecc.) il linguaggio evolve e trova tanti sinonimi.
Ecco, se ci riferiamo alla descrizione dei fenomeni relativi alla disabilità, ci accorgiamo di quanto le parole cambino: la nostra Costituzione parla di “minorati”, oggi nessuno si rivolge più alle persone con disabilità in questo modo. Si è persino introdotto l’utilizzo di una parola straniera (l’handicap, appunto), quasi a cercare di rendere il meno riconoscibile possibile il fenomeno in questione. Abbiamo parlato di “diversamente abili”, di “invalidi”, di “inabili”, di “non autosufficienti”.
Insomma, questa continua evoluzione ci dice una cosa molto precisa: la disabilità – ma forse sarebbe più giusto ragionare di diversità, anche se qui dovremmo poi indagare il concetto di diversità e normalità – non è considerata un’evenienza con la quale cui ciascuno potrebbe presto o tardi doversi trovare a confrontare. È un qualcosa da temere, da nascondere, anche mascherando e cambiando le parole che si usano per descriverla.
Alla luce di ciò possiamo tratteggiare una prima conclusione: se è vero che nella quotidianità non si è soliti usare le parole legate alla disabilità per una qualche forma di atavico timore o non meglio precisata scaramanzia (meglio non parlare di certe cose, potrebbero poi verificarsi), quando invece tali parole si usano per denigrare chi non la pensa come me, evidentemente questo uso non può essere frutto solo di una cattiva educazione. Siamo in presenza di parole usate per voler consapevolmente offendere.
Fatta chiarezza su questo aspetto, rimane una seconda riflessione da fare sul punto. Quali sono le ragioni che spingono ad usare le parole della disabilità per “aggredire verbalmente”? Altrimenti detto, perché utilizzare la persona con disabilità per offendere qualcuno? Provo a trovare alcune risposte.
Prima ragione, a prima vista poco attinente al diritto, ma che mi pare comunque possibile avanzare: la difficoltà di accettare la diversità. Il “diverso” fa una certa paura. Non ci assomiglia. È meglio non vederlo. D’altra parte le persone con disabilità hanno vissuto e vivono ancora l’esperienza della segregazione, della ghettizzazione, dell’istituzionalizzazione. Se invece proprio non posso fare a meno di vederle, e sono costretto a tenerle in considerazione, allora le offendo e magari a forza di insulti queste persone potrebbero smettere di farsi vedere e di rivendicare i propri diritti.
Seconda ragione, questa invece più strettamente giuridica: i diritti delle persone con disabilità richiedono in modo molto più marcato l’adempimento di un dovere da parte della collettività. E, si sa, che nonostante quanto affermato dall’articolo 2 della Costituzione [«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», N.d.R.], l’adempimento di inderogabili doveri di solidarietà non è una cosa che piaccia molto. Questa parte dell’articolo 2 è spesso considerata quasi un’inutile appendice dell’affermazione relativa ai diritti. Esempio banale, il parcheggio destinato alle persone con disabilità, o ancora – forse un po’ meno banale – le quote di riserva per l’ingresso nel mondo del lavoro. Quante volte si sente dire (quando va bene) che la disabilità, tutto sommato, comporta anche dei benefìci?
Ecco, l’impressione è che questo meccanismo provochi forme di risentimento nei confronti delle persone con disabilità, ritenute in qualche modo beneficiarie di diritti che altri non hanno.
Ultima ragione: se definisco la persona con disabilità soltanto con l’aggettivo legato alla sua menomazione, ne riduco la sua qualità essenziale alla menomazione stessa. «Tizio è un autistico. Caio è un Down». Anche nei titoli di giornale: «Disabile discriminato; Disabile violentata». L’attenzione di chi ascolta o legge si concentra sulla disabilità, non sulla persona, non su altro. Il particolare per il tutto. Credo che anche questo possa favorire l’incremento di tweet di odio.
Ancora una volta ritorna l’importanza dell’uso del linguaggio e la necessità di utilizzare sempre la formula, fino a quando anche questa non si sarà consumata, di “persone con disabilità”, dove l’accento è in primo luogo sulla persona e sulla sua dignità connaturata all’essere persona, per l’appunto.
In conclusione: usare le parole della disabilità per insultare chicchessia è espressione di un retaggio pseudoculturale che individua la disabilità come una circostanza negativa e da nascondere. Allo stesso tempo, ciò determina una cultura del pregiudizio e della discriminazione che invece è necessario combattere con forza per la realizzazione di una società davvero inclusiva, in cui le diversità siano considerate una ricchezza con cui convivere e non una barriera ad una pressoché ignota e contestabile idea di normalità.