Almeno 25 vittime accertate che, stando alle prime notizie date dai media, sarebbero tutte donne con disabilità fisica o psichica, di età compresa tra i 40 e 60 anni, ricoverate nel reparto femminile di psichiatria di lunga degenza della struttura Don Uva di Foggia. Fonti più recenti, per altro, parlano invece di 19 donne e 6 uomini con disabilità psichiatrica [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Questi i reati contestati: maltrattamenti aggravati, sequestro di persona, violenza sessuale (nei confronti di due ospiti della struttura), favoreggiamento personale, quest’ultimo concretizzatosi nel tentativo di alcuni indagati di individuare le microspie e le telecamere installate dai Carabinieri per accertare le violenze perpetrate nella struttura. 15 le persone arrestate, tra operatori e operatrici sanitari (infermieri e OSS), educatori/trici, e ausiliari; altrettante persone sono state sottoposte ad altre misure cautelari: 13 al divieto di dimora e 2 al divieto di avvicinamento alle vittime.
È un bilancio terrificante quello emerso in questi giorni, secondo quanto accertato dai Carabinieri coordinati dai Magistrati della Procura. Clinica lager a Foggia, violenze e abusi sui pazienti: 15 arresti. Le intercettazioni choc: ti sparo in bocca, questo il titolo dell’articolo a firma di Luca Pernice, pubblicato dal «Corriere del Mezzogiorno» (Cronaca di Bari del 24 gennaio scorso).
«Chiudevano le pazienti a chiave nelle stanze, le legavano ai letti o alle sedie con le lenzuola. Le prendevano per i capelli e per il corpo, colpite al volto con schiaffi e pugni e trascinate per i corridoi», esordisce Pernice sottolineando anche la quotidianità delle violenze e dei soprusi documentati dalle Forze dell’Ordine. «Ti uccido di mazzate», «io ti sparo in bocca», «vattene da qua sennò ti infilo il coltello dentro la gola», «ci devo dare con il cuppino in testa fino a quando ci torna la memoria»: sarebbero alcune delle frasi pronunciate dagli indagati e dalle indagate all’indirizzo delle vittime, e rilevate con le intercettazioni.
Degrado e incuria sono le altre forme di violenza ricorrenti, con operatori e operatrici che non provvedevano all’igiene delle degenti non autosufficienti, o che demandavano tale mansione ad altre degenti. Responsabilità diverse tra chi agiva materialmente le violenze e chi, pur assistendo alle vessazioni, si è astenuto dal fare alcunché, concorrendo mediante omissione all’instaurazione di «un clima di intimidazione tale da provocare sofferenze morali anche alle degenti che erano mere spettatrici delle violenze fisiche e verbali subite dalle altre, e così facevano vivere tutte le persone offese in una condizione di perenne soggezione e paura provocando loro intollerabili sofferenze», come si legge nell’ordinanza di Marialuisa Bencivenga, la giudice per le indagini preliminari.
Universo Salute, la Società che ha rilevato la struttura dopo un lungo periodo di gestione commissariale, assicura la propria collaborazione alle indagini, ha provveduto a sospendere tutte le persone coinvolte, e si propone di procedere ai licenziamenti laddove si ravvisino gli estremi per farlo.
Nel leggere la notizia, superato l’urto di indignazione iniziale, il primo pensiero va alle vittime, «tutte pazienti della struttura sanitaria che si trovano in condizioni di incapacità e o di inferiorità fisica o psichica ricoverate nel reparto femminile di psichiatria di lunga degenza [grassetto di chi scrive, N.d.R.]», come scrive Pernice, verosimilmente riprendendo un’espressione giuridica ancora vigente nel nostro ordinamento. E viene da pensare a quanto sia a sua volta violento un linguaggio che le descrive così.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità parla di diritti umani e dignità intrinseca e noi, anche a mezzo stampa, continuiamo a parlare della disabilità in termini di «incapacità» e «inferiorità». Come possiamo chiedere il rispetto dei diritti umani se persino gli articoli/servizi di denuncia delle violenze veicolano l’idea che esista una gerarchia tra esseri umani?
Il secondo pensiero va alle Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza pubblicate nel settembre dello scorso anno dal Comitato ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, attraverso le quali si è chiesto agli Stati Parti (e dunque anche all’Italia) di riconoscere l’istituzionalizzazione come una forma di violenza contro le persone con disabilità, precisando che essa non deve mai essere considerata come una forma di tutela nei loro confronti, o una “scelta” (si segnala, a tal proposito, il nostro approfondimento pubblicato su queste stesse pagine).
E anche qui non ci siamo, perché a leggere gli articoli o ad ascoltare i servizi sui fatti di Foggia, sembra che il problema siano solo gli orrori compiuti negli istituti, e non anche gli istituti in quanto essi stessi espressione di violenza, come ben chiarito dal Comitato ONU nelle citate Linee Guida e in molte altre occasioni. La violenza andrebbe combattuta in tutte le sue forme, non solo in quelle più eclatanti.
Il terzo pensiero va alla predilezione per l’approccio punitivo. Che la violenza vada sanzionata in modo adeguato è fuori discussione. Tuttavia promuovere una “cultura del sospetto” non solo non è una pratica che previene la violenza, ma verosimilmente la favorisce. Eppure ogni volta che accadono episodi del genere da più parti viene avanzata la richiesta di una videosorveglianza più stringente.
Ad esempio, Luca Vigilante, amministratore delegato di Universo Salute, ha dichiarato di avere chiesto «a tutte le organizzazioni sindacali e a tutti i lavoratori l’autorizzazione all’installazione di telecamere anche nelle camere. Questo alla luce della delicatezza del tipo di lavoro», come riferito nel citato articolo di Luca Pernice. Gli fa eco qualcuno dall’associazionismo. L’ANFFAS Nazionale (Associazione Nazionale di Famiglie e Persone con Disabilità Intellettive e Disturbi del Neurosviluppo), infatti, tra le altre cose, chiede – e probabilmente non è l’unica – che vengano «rimossi tutti gli impedimenti, anche normativi, relativamente alla possibilità di installazione di sistemi di videosorveglianza, attiva ventiquattr’ore su ventiquattro, per consentire un controllo, anche da remoto, in tutti gli spazi delle strutture, in ogni momento della giornata» (se ne le legga su queste stesse pagine).
A parte la discutibile idea che se alcuni lavoratori e alcune lavoratrici sbagliano, la sanzione vada rivolta a tutti e a tutte coloro che lavorano nel comparto (invece che, come attualmente, comminata solo in caso di indizi di reato), viene da chiedersi come ciò si concili con il rispetto della vita privata della persona con disabilità (di cui all’articolo 22 della Convenzione ONU), giacché, oltre all’operatore/trice, anche a quella persona verrebbe comminata la stessa sanzione, ma maggiorata. Infatti, il lavoratore/trice ha i turni di lavoro e quando non lavora un po’ di privacy l’avrebbe garantita, mentre la persona con disabilità dovrebbe essere sottoposta a sorveglianza ventiquattr’ore su ventiquattro e a tempo indefinito.
Dunque, prima di proporre una misura, sarebbe opportuno valutare bene l’impatto che questa potrebbe avere sulle vittime. Oltre a ciò, guardare con sospetto tutti gli operatori e tutte le operatici non aiuta di certo a promuovere un clima di fiducia e collaborazione, vale a dire ciò che sarebbe realmente efficace per prevenire la violenza. La fiducia non va regalata, sia ben chiaro, ma nemmeno negata a priori. Più correttamente, andrebbe costruita. Pertanto, invece che videosorvegliare tutti e tutte, probabilmente sarebbe più utile mostrare loro che la persona con disabilità mentale o psichiatrica non vale meno di nessun’altra persona, né di me che sto scrivendo, né di chi mi sta leggendo, né di chi svolge professioni d’aiuto e di cura, e nemmeno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella (per citare una delle figure più autorevoli che possono venire in mente). Posto infatti che tutti noi abbiamo ruoli e percorsi di vita diversi, a tutti noi è dovuto uguale rispetto. E se mettere questi soggetti sullo stesso piano infastidisce, forse ci si dovrebbe chiedere i motivi. L’impressione è che la predilezione per l’approccio punitivo sia solo un diversivo per non fare i conti con l’abilismo, ma anche con il sessismo.
L’ultimo pensiero, infatti, va proprio al genere delle vittime che, stando ai media, sono tutte o per la maggior parte donne. Dunque la domanda sorge spontanea: in che misura, nella progettazione dei servizi del Don Uva, è stato tenuto in conto che le donne con disabilità sono esposte a discriminazione multipla ed intersezionale? Difficile verificarlo, ma la risposta è facilmente intuibile.
Il quadro è abbastanza deprimente, e tuttavia non possiamo permetterci di rimanere intrappolati/e nell’indignazione. L’unica cosa sensata in questo, ma anche in altri casi analoghi, è lavorare alacremente per costruire un futuro nel quale anche alla prospettiva del “genere e disabilità” sia accordata un’adeguata attenzione.