Uccide fratello disabile e si suicida, biglietto spiega motivi: questo il titolo della notizia lanciata ieri, 30 gennaio, dalla sezione abruzzese dell’Agenzia ANSA [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.]. «Dramma ieri ad Ortona, stanchezza e separazione in vista», integra l’occhiello.
Ortona è una piccola città in provincia di Chieti. Poco più di 22.000 abitanti, stando a Wikipedia. Roberto Tatasciore, un uomo di 70 anni, si è impiccato dopo avere strangolato il fratello Antonio, una persona con disabilità di 74 anni cui prestava assistenza. Il primo ha lasciato un biglietto, ora acquisito dai Carabinieri dal quale, stando all’ANSA, emergerebbe che non ce la faceva più a prestare assistenza al fratello, e che era preoccupato perché nel giro di pochi giorni si prospettava il ricovero di Antonio in una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA).
Sempre dall’ANSA si ipotizza che, avendo sempre vissuto insieme, il fratello minore non volesse separarsi da Antonio. «I due, nessuno dei quali sposato, entrambi pensionati dopo aver lavorato rispettivamente in una ditta metalmeccanica e all’ufficio territoriale dell’agricoltura, hanno sempre vissuto insieme», è scritto.
«Stanchezza per il fatto di doverlo accudire dunque, ma soprattutto il dispiacere nell’ipotesi, che sembrava prendere corpo, della loro separazione, potrebbe aver innescato la scintilla. Uniti da sempre nella vita come nella morte, questo sembra il senso di quanto contenuto nel biglietto», si legge subito dopo, con l’aggiunta della precisazione che l’abitazione risultava in ordine, e che in essa i Carabinieri non hanno trovato elementi o segni che facciano pensare a una lite tra i due.
I cadaveri sono stati scoperti da un terzo fratello, Tommaso, che aveva fatto colazione con loro quella stessa mattina, e che ha provveduto a dare l’allarme quando ha constatato l’accaduto.
Non stupisce che nella notizia nessuno si chieda se Antonio fosse d’accordo con la decisione del fratello, se davvero anche lui preferisse morire piuttosto che separarsi, se abbia condiviso quella scelta di morte. E non si tratta di dire che i/le caregiver non abbiano le loro ragioni a sentirsi stanchi, disperati e abbandonati dallo Stato. Massimo rispetto e massima solidarietà per quel legittimo dolore. Ma non credo che quel dolore, sebbene legittimo, autorizzi nessuno a disporre della vita altrui senza chiedere il permesso.
Assumiamo in modo acritico le dichiarazioni dell’omicida, empatizziamo con lui. La sua versione ci basta, che potrebbe dire di diverso una persona con disabilità? La disperazione è diventata una referenza. Al caregiver disperato non si deve chiedere alcunché, ha “licenza di uccidere”. Gliela diamo noi ogni volta che ascoltiamo solo la sua campana. Ogni volta che non ci poniamo neanche il problema che possa esserci un’altra campana. Ogni volta che assumiamo che il diritto alla vita sancito dall’articolo 10* della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità debba essere rispettato da tutti tranne che dai/dalle caregiver.
Allora sarebbe ora di smarcarsi, dunque non voglio capire né giustificare. Il/la caregiver – come tutti e tutte – può disporre della propria vita, ma è ora di iniziare a dire chiaro che non può disporre della vita altrui.
Fermiamoci un attimo e riflettiamo. Se di mezzo non ci fosse una persona con disabilità, saremmo così comprensivi? Siamo davvero sicuri che il problema sia la stanchezza, e non la convinzione che in fondo la vita della persona con disabilità valga meno? Che la sua vita abbia un valore solo in funzione di chi si cura di lei, ma non ne abbia uno proprio e distinto? Vogliamo quanto meno iniziare a mettere in dubbio questi aspetti?
*Articolo 10 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Diritto alla vita): «Gli Stati Parti riaffermano che il diritto alla vita è connaturato alla persona umana ed adottano tutte le misure necessarie a garantire l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri».