Matteo Faresin, classe 1988, vive a Breganze – in provincia di Vicenza – con la compagna Giulia, il loro piccolo Tommaso di 3 anni e mezzo e una coinquilina poco gradita: la SLA (sclerosi laterale amiotrofica). «Prima – racconta – giocavo a calcio, facevo giardinaggio, organizzavo grigliate con gli amici e gestivo l’azienda di famiglia. Oggi, descrivere la mia giornata tipo è una desolazione. Sono allettato e mi faccio mettere in carrozzina tre o quattro volte a settimana, per evitare piaghe. Cerco di impormi obiettivi quotidiani, altrimenti, per farla breve, sono un vegetale. Mi nutro attraverso una sonda chiamata PEG [gastrostomia endoscopica percutanea, N.d.R.], ho un tubo in gola, respiro artificialmente e non muovo nessun arto. Ho soltanto occhi, udito e cervello che funzionano. Comunico tramite un PC con comunicatore oculare e nient’altro».
Eppure, nonostante gli inevitabili brutti pensieri e le ovvie difficoltà, Matteo ha avviato un progetto enogastronomico già molto apprezzato nel Triveneto: una birra che porta il suo nome. Ma cominciamo dall’inizio…
Matteo, quando ti è stata diagnosticata la SLA?
«Nel marzo 2019, a seguito di un ricovero ospedaliero programmato. Al momento della diagnosi, ero con i tre medici che mi hanno seguito in quei giorni e con la mia compagna, allora al sesto mese di gravidanza. Subito ho fatto una valanga di domande. Il primario mi ha spiegato che si trattava di una malattia rara e che l’unica cosa che poteva fare era inviare la mia cartella clinica all’Ospedale San Bortolo di Vicenza, dove uno specialista del reparto dedicato alle malattie neurodegenerative avrebbe potuto rispondere a tutte le mie domande».
Il decorso della malattia, purtroppo, è stato piuttosto veloce…
«Sì. Se cinque o sei anni fa mi avessero chiesto come mi sarei comportato in una situazione di questo tipo, avrei risposto subito: se capitasse a me, piuttosto che ridurmi così mi uccido. Non nascondo di averci pensato, anzi, però il pensiero di veder crescere mio figlio alla fine ha prevalso. Certo che a volte il nostro Paese si trasforma in un vero e proprio “ufficio complicazione affari semplici”».
Qual è il pregiudizio sulla tua condizione che ti infastidisce di più?
«Non c’è un pregiudizio in particolare. Piuttosto, noto le diverse reazioni che ti aiutano a capire chi sono le persone che ti stanno vicine a prescindere dalla situazione. C’è chi ti scrive settimanalmente, o mensilmente: “come stai?”. E chi dice “passo presto”, ma poi non si vede mai. Dal punto di vista delle barriere culturali e architettoniche, invece, direi che siamo “burocraticamente imbarazzanti”. Se geometri, architetti e ingegneri provassero a sedersi in carrozzina per un mese, sarebbe tutto più semplice».
Forse anche qualche medico dovrebbe fare questo esperimento di mettersi nei panni degli altri…
«Già. E bisognerebbe investire di più nella formazione del personale. Riporto un esempio tratto dalla mia esperienza. Il decorso della SLA rende necessari alcuni interventi come l’impianto della PEG per l’alimentazione artificiale o la tracheostomia. Quest’ultima operazione mi faceva paura, per cui l’ho rimandata più che ho potuto. Alla fine, il 14 dicembre 2021, a seguito di un ricovero d’urgenza all’Ospedale di Santorso (Vicenza) per una crisi respiratoria, ho dovuto affrontarla. Al mio arrivo, sono rimasto in Pronto Soccorso un paio d’ore, poi sono stato trasferito nel reparto di Medicina d’Urgenza. Mi hanno lasciato nel letto con la testa storta e il comunicatore che uso per interfacciarmi col mondo tenuto spento. So che in ospedale il tempo sembra non passare mai, ma nella posizione in qui ero riuscivo a vedere l’orologio del corridoio. Dopo un’ora e mezza, fortunatamente, è entrata un’infermiera che mi ha visto con le lacrime agli occhi e, con tutta la pazienza dovuta, ha chiamato due colleghe, che mi hanno sistemato e regolato il puntatore oculare, in modo che potessimo comunicare. Il 16 dicembre ho affrontato l’intervento, che è andato bene. Per quattro giorni sono stato seguito in maniera impeccabile in rianimazione. Poi sono stato riportato nel reparto di Medicina d’Urgenza e lì è cominciato un vero e proprio calvario. Non potendo premere il pulsante di aiuto, facevo suonare due tasti di allarme installati nel mio PC, ma anche se hanno un suono fastidioso, nessuno veniva in mio soccorso e il caregiver che mi segue anche a casa non poteva entrare.
Ma la parte “migliore” – si fa per dire – arriva al momento delle dimissioni, quando dopo due sole ore di formazione al caregiver stesso, ci riferiscono che una volta al mese verrà organizzato un cambio della cannula per evitare infezioni. Dopo trentacinque giorni dall’operazione scrivo per capire se è stata fissata una data per tale intervento. Alla fine, mi viene dato appuntamento il 23 febbraio, ben sessantanove giorni dopo. Sapendo che in ambulanza non avremmo potuto caricare il comunicatore, preparo alcuni fogli dove chiedo di fare domande chiuse e spiego come avrei ruotato gli occhi in caso di risposta affermativa o negativa. Entro al polo endoscopico e la dottoressa mi dice di stare tranquillo, che sarà un cambio indolore come la volta scorsa. In quel momento la fisso dritta negli occhi e lei impallidiscem capendo che si tratta del mio primo cambio di cannula. “Perdonami – dice – ora hai tutti i punti incarniti. Devi portare pazienza, cercherò di fare il più piano possibile, ma farà male”. Conclusione: sono uscito con le lacrime, e non auguro un’esperienza simile neanche al mio peggior nemico».
Non solo non la auguri, ma in quest’ultimo anno ti sei impegnato direttamente affinché non ricapiti…
«Sì. A volte basta poco per migliorare significativamente la vita delle persone. Secondo la prassi, ogni sessanta giorni, dopo avere ricevuto la data del cambio cannula, devo contattare il medico di base per prendere appuntamento con l’ambulanza che, il giorno dell’intervento, viene a prendermi a casa e mi porta all’Ospedale di Santorso. Lì, entro in reparto, effettuo l’operazione che dura massimo due minuti e ritorno da dove sono venuto. Eppure, un’altra strada – meno stressante – è possibile: negli ultimi mesi, infatti, c’è stato un cambio di primari. Il nuovo pneumologo Giuseppe Buggio è venuto due volte direttamente a casa, evitandomi altrettanti giri in ospedale per banali esami di routine. Spero che la buona volontà, l’intraprendenza e la sensibilità della sua équipe, tra cui quella dell’infermiera Alessandra Benacchio, possano dar vita a un nuovo protocollo e portino alla formazione di un team di assistenza domiciliare sul territorio, per i casi particolari come il mio. Penso che un progetto di questo tipo potrebbe addirittura far risparmiare l’Azienda Sanitaria, a partire dalla riduzione delle corse dell’ambulanza».
Oltre alla battaglia per la tutela della dignità dei malati, sei impegnato anche sul fronte imprenditoriale, con le Faresin Birre. Quando e perché è nata questa iniziativa?
«Il progetto è nato da una delle mille idee che mi vengono da quando sono immobile. Inizialmente avevo in mente di creare un’etichetta mia e concordare con una delle tante cantine del paese, una bottiglia di vino, ma poi ho pensato, abiti a Breganze, “città del vino”, e fai vino? Suvvia, puoi fare di meglio. Fatalità, dopo una settimana, mi sono sognato un pranzo di famiglia, dove mia madre e le due zie più vecchie hanno bevuto un bicchiere di birra a testa e, in pochissimo tempo, sono diventate paonazze e continuavano a ridere. Dal giorno dopo ho iniziato a macinare questa idea della birra. La mamma si chiamava Fabiola, per tutti “Fabi”. Di qui, l’idea delle FAresin Birre, per omaggiare la sua memoria.
Per realizzare l’iniziativa ci sono voluti quasi sei mesi, ma alla fine, grazie al birrificio trevigiano 32 Via dei birrai, nell’ottobre scorso siamo arrivati in porto e ora, dal mio sito o dalla pagina Instagram, si possono ordinare ben otto diversi tipi di birre.