Notizia di ieri, 13 febbraio: Anziana disabile strangolata in casa, sospettato figlio, riportata dall’«ANSA Abruzzo». Accade a Casoli, in provincia di Chieti, che Cesina Damiani, una donna con disabilità non autosufficiente di 88 anni, sia stata strangolata nella sua abitazione al centro del paese.
Francesco Rotunno, figlio sessantaquattrenne della donna, sospettato del delitto, è stato «trovato dai carabinieri poco lontano dalla casa, sul bordo di una strada, con i polsi tagliati, forse a seguito di un tentativo di suicidio; l’uomo è stato ricoverato all’Ospedale di Lanciano». Il cadavere della donna è stato trovato dalla sua badante «con a fianco un biglietto di scuse, non firmato, che potrebbe essere stato scritto dal figlio. La procura di Lanciano aprirà un fascicolo per omicidio volontario aggravato».
Altre fonti dicono che l’uomo sarebbe ricoverato nel reparto di Psichiatria all’Ospedale di Lanciano, e sarebbe fuori pericolo. Il quotidiano «la Repubblica» informa che Rotunno in passato aveva avuto un impiego a tempo determinato in Comune grazie ad una borsa lavoro, ma non aggiunge informazioni sulla donna, né sulla relazione che intercorreva tra i due, che però possiamo immaginare stretta, come lo è in genere quella che lega madre e figlio. Vero è che, se i fatti verranno confermati, l’omicidio agito da un componente della famiglia ai danni di una persona con disabilità richiama alla mente quello accaduto pochi giorni fa, sempre in provincia di Chieti, ad Ortona, dove Roberto Tatasciore, un uomo di 70 anni, si è impiccato dopo avere strangolato Antonio, il fratello con disabilità di 74 anni, a cui prestava assistenza (se ne legga anche su queste pagine). Non sappiamo se Rotunno fosse anche caregiver della madre, ma “i polsi tagliati” tradiscono un forte coinvolgimento emotivo, lo stesso tipo di coinvolgimento che si ritrova frequentemente tra il/la caregiver e la persona di cui si cura.
Dunque questa vicenda mi spinge a tornare sul tema degli omicidi-suicidi (tentati o riusciti) agiti dal/la caregiver ai danni di se stesso e della persona con disabilità che assiste (tema del quale ho già scritto in questa stessa sede), per mettere a fuoco ulteriori elementi.
Io credo che queste vicende abbiano un fortissimo impatto emotivo su chiunque ne venga a conoscenza, ma che tale impatto sia ancora più profondo e pervasivo su chi riveste, o ha rivestito, il ruolo di caregiver (come nel mio caso) e sulle persone con disabilità. Lo sconvolgimento è tale che induce chiunque a distogliere lo sguardo. Trovo che sia profondamente umano cercare di sottrarsi a quell’angoscia che ci scava dentro – l’ho fatto anch’io per tanto tempo –, anche perché spesso non siamo sufficientemente attrezzati – sia sotto il profilo psicologico, che sotto quello emotivo – per analizzare lucidamente il fenomeno, e dunque finiamo per assumere il ruolo di spettatrici e spettatori passivi, intrisi di un senso di impotenza che ci impedisce di intraprendere qualsiasi azione, compresa l’unica che dovrebbe toccare le corde più intime: provare a prevenire la violenza. Ma la violenza va prevenuta, perché, se non lo facciamo, altre persone imboccheranno quella strada.
La responsabilità è dello Stato è l’unica cosa che sappiamo ripetere. E come non vederle le responsabilità dello Stato e dell’intera società che scaricano sui/sulle caregiver la maggior parte degli oneri di cura e assistenza per anni o decenni, privandoli/e del riposo, del lavoro (e dunque di un reddito e di una pensione), della salute, di una vita propria, della socialità, del sacrosanto diritto di essere visti e trattati come esseri umani e non come “semplici funzioni”. «Limoni da spremere e buttare quando il succo è finito», sintetizzava una caregiver alcuni anni fa. «Uomini e donne da soma», per usare l’efficace metafora coniata più di un decennio fa dall’amico Giorgio Genta, caregiver da oltre trent’anni della figlia Silvia, donna con disabilità gravissima.
«Il lavoro di cura, lo sappiamo, stanca, sfinisce, esaurisce energie fisiche ed emozionali anche quando viene fatto con amore, dedizione e autentico sentimento di compassione», osservava, solo pochi giorni fa, Nadia Muscialini, psicoanalista e dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, esprimendo un parere scientifico proprio su questi fenomeni, e rimarcando «che il mancato ascolto e la mancata rilevazione delle fatiche fisiche o psicologiche può fare degenerare il livello di equilibrio mentale verso stati di patologie acute in momenti di particolare carico».
Tutto vero, sono d’accordo, ma forse rimarcare le responsabilità dello Stato non è l’unica cosa che possiamo fare. E non si tratta di giudicare, si badi bene, io non sono una giudice, e immagino che neanche chi mi legge lo sia (fatte salve le probabili eccezioni).
Rotunno, se verranno confermate le accuse, risponderà delle sue azioni alla Magistratura, mentre giudicare Roberto Tatasciore, che non è più tra i vivi, non è più una faccenda di competenza dei Tribunali terreni. Mia/nostra competenza è invece prevenire la violenza. E per farlo dobbiamo non distogliere lo sguardo, smettere di giudicare e iniziare ad analizzare. Dunque descrivo ciò che vedo.
Vedo un/a caregiver crollare e accasciarsi sotto il peso di una violenza sistemica e prolungata da parte dello “Stato assente”. Vedo una persona con disabilità che subisce la stessa violenza subita dal caregiver da parte dello “Stato assente”, a cui però va a sommarsi un’altra violenza, quella agita dal/la caregiver nei suoi confronti. Possiamo chiamare quest’ultimo tipo di violenza “violenza addizionale” e individuare in essa una matrice abilista.
La responsabilità della “violenza addizionale” può essere, anche solo moralmente, attribuita allo Stato? Io ritengo che le dinamiche che portano all’omicidio della persona con disabilità da parte del/la sua caregiver siano da rintracciare nel tipo di relazione che intercorre tra i due. Ovvero se il/la caregiver è disponibile a riconosce alla persona con disabilità il diritto di vivere senza di lui/lei, oppure no. In altre parole, se riconosce la soggettività e la libertà della persona con disabilità, o si è “con-fusa” con lei e pensa di poterne disporre come di se stesso/a. Provo a spiegarlo con un esempio.
Possiamo immaginare tutte le relazioni umane – non solo quella che lega il/la caregiver alla persona con disabilità – come quella di un individuo con una farfalla che si poggia sulla sua mano. L’individuo può scegliere se tenere la farfalla sul palmo o sul dorso della sua mano. Se sceglie di tenere la farfalla sul palmo, ogni volta che le circostanze porteranno l’individuo a stingere i pugni la farfalla rischia di venire stritolata. Se invece l’individuo sceglie di tenere la farfalla sul dorso della mano, vuol dire che ha compreso che la vita della farfalla non è nella sua disponibilità. Penso dunque che quando un/a caregiver uccide la persona di cui si cura lo faccia perché “la tiene sul palmo della mano”, e non ha compreso che la vita della persona con disabilità non è nella sua disponibilità.
Va per altro rilevato che disporsi nei confronti delle persone in termini di controllo (nella metafora “tenere le persone in palmo di mano”) è alla base di moltissime forme di violenza, e che queste vanno prevenute anche quando non assurgono a crimini gravissimi come l’omicidio.
Un altro aspetto che è fondamentale focalizzare è che quando affermiamo che anche la responsabilità della “violenza addizionale” è dello Stato, stiamo sottraendo al/la caregiver il controllo delle sue azioni, e gli/le stiamo dicendo che non è lei/lui l’autore dei suoi crimini. Ammettere invece che la “violenza addizionale” è una diretta conseguenza del suo modo di intendere la relazione con la persona di cui si cura, significa mettere il/la caregiver stesso in condizione di scegliere se uccidere oppure no. Infatti, se il responsabile dell’omicidio è lo Stato, trattenersi dall’uccidere non è nel potere dei singoli soggetti. Se invece, come io credo, la responsabilità degli omicidi è individuale, lo stesso soggetto è costretto ad ammettere con se stesso che se si sta disponendo ad uccidere qualcuno è perché ha scelto di farlo ed è dunque in suo potere fermarsi.
Mi rendo conto che molti e molte caregiver hanno difficoltà a ragionare in questo modo perché pensano che i termini di responsabilità e colpa siano sinonimi e interscambiabili e, memori delle violenze subite dal caregiver (violenze che sperimentano sulla propria pelle), pensano che attribuire allo Stato anche la responsabilità della “violenza addizionale” sia un gesto compassionevole nei confronti del caregiver stesso. Ma sbagliano, perché colpa e responsabilità non sono sinonimi. La colpa attiene al giudizio, e io ho specificato che non spetta a me/noi giudicare, mentre riconoscere una responsabilità in capo a una persona significa metterla in condizione di scegliere liberamente come agire, senza raccontarsi che le sue azioni dipendono da altri soggetti fuori dal suo controllo (nel caso specifico lo Stato). Non mettere a fuoco questa importante differenza porta ad invisibilizzare la “violenza addizionale” subita dalle persone con disabilità, e a normalizzare il loro omicidio ponendolo sullo stesso piano del suicidio. Ma anche questa lettura non è corretta perché in questi casi il/la caregiver sta disponendo sia della propria vita che di quella altrui, mentre alla persona con disabilità non è riconosciuto nemmeno il diritto di disporre della propria.
È dunque legittimo promuovere in tutti i modi pacifici il riconoscimento dei caregiver familiari italiani e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle violazioni dei diritti umani che subiscono quotidianamente. Ma è anche importante imparare ad analizzare con molta lucidità gli episodi di violenza che la cronaca ci propone, per evitare che gli omicidi delle persone con disabilità vengano normalizzati, e anche, soprattutto, per prevenirli.